Parte III – La comunicazione al tempo del Covid-
15. Ce qui arrive Intervista a Gianfranco Marrone
«Penso che questo tempo del coronavirus sia un grande “carnevale”. È un po’ un paradosso: carnevale non nel senso dell’allegria, ma nel senso del mondo alla rovescia. Le nostre convin- zioni, i nostri valori, le nostre assiologie sono stati rovesciati».
r. f. Gianfranco Marrone è saggista, giornalista pubblicista e scrittore, lavora sui linguaggi e i di- scorsi della contemporaneità. È docente di Semiotica all’Università di Palermo. Svolge ricerche qualitative sulla comunicazione di brand per enti pubblici e aziende private.
Può raccontarci come sta trascorrendo le sue giornate?
Non credo di essere particolarmente originale, né tanto meno di volerlo essere. La risposta più ovvia è: come tutti. Anche se in questa quotidianità, è evidente che ciascuno di noi cerca di ritagliarsi la propria idiosincrasia, la propria individualità, cosa che non è per niente facile.
Ognuno di noi vive questa specie di isolamento forzato in modo diverso: per esempio, dato il lavoro che faccio, cioè il docente universitario e il saggista, la mia vita è cambiata relativamente poco rispetto a quella di tante altre persone che lavorano fuori casa. Avendo la fortuna di svolgere questo lavoro, già da prima stavo molto a casa. Certo, uscivo per far lezione, andare in dipartimento a vedere studenti e colleghi, ma il resto del lavoro (lettura, scrittura, studio) lo svolgevo e lo continuo a svolgere a casa mia, nel mio studio. Ciò nonostante, e sento tanti colleghi che hanno la stessa mia impressione, sto lavorando molto di più di quanto lavorassi prima.
D’altro canto, però, è chiaro che ci sono delle cose per cui mi sento più frustrato. Ma questo è un caso, un caso che se fosse soltanto mio non varrebbe la pena di raccontarlo: non poter vedere tante persone, a cominciare dai genitori anziani e ammalati, cosa che è molto pesante. Lo dico perché, da quello che leggo e da quello che posso immaginare, è una condizione abbastanza diffusa.
Visto il crescente numero di ordinanze e di moduli di autocertificazione che si sono succeduti e che probabilmente seguiranno, si può dire che la maggior parte degli italiani ha sottovalu- tato le conseguenze del Covid-19?
In termini di quotidianità, di psicologia quotidiana, non potevamo che sottovalutarlo: è un evento che ha dell’incredibile, dell’eccezionale. Il semiologo Jurij Lotman parlerebbe di esplosione, perché con la pandemia si riformulano i sistemi, i valori, i ritmi della vita quotidiana, le relazioni sociali, gli affetti, il nostro stesso corpo. All’inizio c’è stata una sottovalutazione dal punto di vista del rischio: forse anch’io all’inizio sono stato uno di quelli che l’hanno sottovalutato, un po’ per incredulità, un po’ per paura, proprio perché era un evento che aveva dell’incredibile, quindi le resistenze sono state forti. Qualcuno dice, in riferimento agli inosservanti delle recenti misure di sicurezza, che sono “dei banditi”, “degli sciagurati” ; in realtà, a mio avviso, sono delle persone normali, che semplicemente impiegano più tempo di altri a capire la gravità della situazione. Non possiamo costantemente preoccuparci di tutto ciò che può accadere, altrimenti saremmo completamente paralizzati dalla paura che succeda qualcosa. Si può ipotizzare una spiega- zione culturale della diversa percezione del rischio?
Trent’anni fa, il sociologo Ulrich Beck ha scritto La società del rischio e ha provocato un di- battito che conosciamo, molto interessante, molto acceso. Più la nostra iper-modernità va verso un tentativo di totale controllo, di totale razionalizzazione delle nostre esistenze, quindi verso la progressiva eliminazione di tutti i rischi possibili, più i rischi fuoriescono da ogni dove. Proprio perché pensiamo di essere diventati “arci-sicuri”, di essere diventati immortali, di essere diventati iper-razionali, di poter controllare tutto. In realtà non si può controllare tutto, perché le catastrofi accadono: più il mondo è controllato, più catastrofi ci sono.
Ricordo una bellissima mostra a Parigi, una ventina di anni fa, organizzata da Paul Virilio, che si chiamava Ce qui arrive (Fondation Cartier 2002-2003), in cui si spiegava proprio questo. C’erano molte gigantografie di tutti gli incidenti che erano avvenuti negli ultimi decenni: catastrofi nucleari, terremoti, maremoti, tsunami. Gli eventi naturali erano accanto agli eventi tecnologici. Evidente- mente, come specie umana, abbiamo avuto sempre il problema non tanto di eliminare dei rischi, quanto di attribuire delle colpe, di addossare delle responsabilità a qualcuno. In caso di incidente c’è sempre il problema di trovare delle colpe. Tornando al nostro virus, è successa esattamente la stessa cosa. All’inizio si è partiti criticando pesantemente la Cina e i cinesi. Si è sparato a zero sulle condizioni igieniche dei cinesi, ovunque siano nel mondo, con delle invettive che non voglio ripetere. Poi si è detto che la colpa era del clima, dell’inquinamento. Credo che, alla base di questo fenomeno, vi sia un meccanismo antropologico molto profondo. Quello che Nietzsche chiamava “risentimento”.
La figura di Cassandra, “emblema” degli allarmisti, sembra tristemente attuale, invisa e ma- ledetta. Nei discorsi mediatici assistiamo a una narrazione che ricorre a metafore e rituali proprie del lessico bellico (“in prima linea”, “il fronte”, “il bollettino delle 18” ). Da semiologo ed esperto di comunicazione. cosa pensa riguardo a questi temi?
Quasi tutto il dibattito dei media generalisti, ma anche dei social, si è ridotto a una dicotomia molto semplicistica. Ci sono quelli che puntano sul valore della vita, pura: essere in vita oppure non esserlo; e ci sono quelli che invece sottolineano l’importanza del cosiddetto “progresso”. Quindi da un lato ci sarebbe la salute, dall’altro ci sarebbe l’economia e la ricchezza. Come se il problema fosse solo in questa specie di lenzuolo troppo corto, che viene tirato un po’ dal lato della salute e un po’ da quello dell’economia. Cosa che vale a livello dei governi, dell’opinione pubblica e anche delle nostre opinioni personali: per cui o è più importante la salute, la vita, oppure è più importante il denaro, da cui il ritornello “se non c’è l’economia, se non c’è la ricchezza, se non c’è la circolazione del denaro, nessuna vita ha senso”. Così è stato a livello di grandi scelte politiche. L’Italia ha deciso per lla prima opzione; altri paesi, a iniziare dalla Germania, insistono sulla seconda opzione.
109 magine molto più sfaccettata della questione. I media, com’è noto, non fanno che rinfocolare il nostro immaginario, rilanciarlo, trasformarlo un po’, ma sostanzialmente sono un perfetto specchio del nostro immaginario. Quindi abbiamo sentito un po’ di tutto: per esempio le teorie del complot- to. Abbiamo sentito un dibattito sulle fake news: questo è giusto, questo non è giusto, questo è sbagliato, questo non è sbagliato, questo è falso, questo non è un falso. Abbiamo sentito enormi discussioni sulle competenze: “tu chi sei per dire questo? sei competente, non sei competente, sei uno specialista, non sei uno specialista, sei un dilettante”, e così via. Abbiamo parlato tanto di virus in termini metaforici, adesso ce lo ritroviamo in termini letterali. Insomma, ho l’impressione che, da un lato, le opposizioni semantiche siano sempre le stesse, e questo fenomeno non fa che rinfocolarle, rinverdirle, ma restano sempre quelle; dall’altro lato c’è la questione dell’indetermi- natezza cognitiva. Tutti dicono “siamo in guerra”, oppure “non siamo in guerra”. Ma occorre fare attenzione: o utilizziamo la narrazione bellica come pura metafora, e allora va bene perché siamo in un momento eccezionale, ossia fuori dalla norma. Oppure non è così, perché di fatto non siamo affatto in guerra, siamo in una condizione completamente diversa. Ho l’impressione che sia peggiore, ma sicuramente è diversa. In guerra abbiamo un nemico preciso, dobbiamo avere paura, abbiamo un oggetto della paura ben identificato. C’era il Tedesco nella seconda guerra mondiale, quindi dovevamo stare attenti ai tedeschi, altrimenti ci avrebbero uccisi. Oggi non siamo in questa condizione: i media ci rimandano a una situazione di assoluta indeterminatezza cognitiva, per cui non sappiamo bene di cosa dobbiamo avere paura. E questo anche nella nostra vita quotidiana. Ci portano la spesa a domicilio: perfetto. E queste cose che ci portano a domicilio possono essere portatrici di virus o no? Gli alimenti? Le buste? Gli scontrini della spesa? Il rider con la mascherina abbassata? È la domanda che ci facciamo su qualsiasi cosa: perché non sappiamo. Non sappiamo come avviene questo contagio, non siamo in grado di saperlo. Crediamo che avvenga in un certo modo, ma non abbiamo nessuna certezza su questo. Quindi abbiamo questo sentimento di angoscia generalizzata.
I comportamente sociali o le spiegazioni di questa possibile pandemia devono leggersi più come fenomeni socio-culturali – come ha affermato prima –, per esempio la sovrappopo- lazione, l’emergenza climatica, il climate change, la globalizzazione, l’over-tourism, oppure sono plausibili spiegazioni strettamente biologiche, come ipotizzato da David Quammen, che aveva già descritto nel 2012, in Spillover, il passaggio di virus dal pipistrello all’uomo in un mercato in Cina? La dicotomia natura/cultura è utile per leggere la situazione attuale? Oggi ci troviamo in una condizione epistemologica veramente paradossale. Da un lato si stressa sempre di più questa opposizione natura/cultura, quindi c’è un naturalismo, se si vuole un positivi- smo di ritorno, che è una forma riduzionismo, per cui qualsiasi fenomeno culturale viene letto come riconducibile a un fenomeno fisico e biologico, e mi rattrista vedere che anche tanti antropologi cadono in questa trappola. D’altro lato, a fronte della radicalizzazione di questo naturalismo scientista, sappiamo da parecchio tempo che la dicotomia natura/cultura non ha più nessun senso. Antropologi come Philippe Descola, Bruno Latour e Eduardo Viveiros de Castro ci hanno insegnato ormai da tanto tempo che si tratta di un’opposizione insensata, recentissima, che risale a fine ‘700-inizio ‘800, su cui è nata l’antropologia e che oggi è fortemente in crisi. Non soltanto perché si è scoperto che in moltissime culture l’idea stessa di “natura” non ha senso, ma anche perché, al di là di tutta questa questione – ed è anche quello che oggi la pandemia ci sta insegnando in maniera definitiva –, viviamo in un’era geologica abbastanza nuova: l’antropocene.
Anche se pensassimo che un tempo l’opposizione natura-cultura era valida come paradigma episte- mologico, in ogni caso nell’epoca attuale viviamo in un’era in cui la natura è permeata da fenomeni socio-tecnici imposti dall’uomo.
Del resto, secondo me Quammen non è affatto naturalista: in Spillover, anzi, insiste molto sulla zoonosi, cioè sul fatto che l’uomo e l’animale hanno sempre convissuto. Non esiste da un lato la
natura umana e dall’altro la natura animale. Esiste una società unica, in cui gli uomini e gli animali hanno sempre convissuto insieme. E dunque questo tipo di zoonosi, cioè il passaggio dei virus dall’animale all’uomo e viceversa, è sempre avvenuto sul nostro pianeta. E sempre continuerà ad avvenire. Spillover è l’ennesima dimostrazione dell’antropocene.
È entrato nella lingua italiana il neologismo “infodemia”, inteso come “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rende compli- cato orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Cosa consiglia come esperto di comunicazione?
Penso che non sia tanto un problema di comunicazione. Certo, ci sono state delle ingenuità, come aver fatto circolare il decreto in forma di bozza prima della sua emanazione ufficiale. È stato un fatto agghiacciante, che nessun governo serio dovrebbe far accadere. Ma credo che, al di là di questi errori, più della comunicazione ufficiale siano importanti le azioni e i comportamenti. Mi riferisco per esempio a quello che ha fatto il papa l’altro giorno: si è messo lì, da solo, a piazza San Pietro per officiare una cerimonia, e il video che lo ha ripreso ha fatto il giro del mondo immediatamente. Questa è stata un’ottima attività di comunicazione, che ha avuto un effetto straordinario. Un’azione che ha rafforzato tantissimo l’immagine della Chiesa cattolica, ovviamente; ma contemporanea- mente un gesto che ha dato un segnale molto forte sul modo possibile di comportarsi in questa situazione di pandemia: fare piuttosto che parlare, agire piuttosto che limitarsi a comunicare, cioè, nel caso specifico, continuare l’evangelizzazione anche di fronte a una piazza deserta, pur sapendo che poi deserta non è, perché è circondata da telecamere.
L’infodemia è stata definita dall’OMS come una nuova patologia psicologica. Che bussola di orientamento può avere una persona comune?
Questa domanda unisce la questione mediatica a quella della quotidianità. È giusto, perché in realtà sono la medesima cosa. Dal punto di vista della quotidianità, a me sembra che il problema più grave non sia quello di star chiusi in casa, ma di cambiare il ritmo della nostra esistenza. C’è chi non ci riesce, e per esempio resta tutto il giorno in pigiama, non si fa la barba, non si trucca, guarda le notizie in modo maniacale, tiene accesa la televisione giorno e notte... E c’è chi, invece, prova a tenere i ritmi di prima, improvvisando palestre in salotto, indossando giacca e cravatta per mostrarsi al video del computer, ostinandosi a fare riunioni su riunioni via Skype... La cosa più difficile è inventarsi nuovi ritmi, trovando nuove forme di affettività con chi sta a casa con noi o con chi possiamo sentire solo via telefono, cambiando le percentuali fra lavoro e tempo libero, trovando un nuovo senso nel non far nulla. È il momento della pigrizia felice, approfittiamone.
Dal punto di vista dell’eccesso di informazioni è la stessa cosa, motivo per cui mi trovo assoluta- mente d’accordo con l’idea di fare una dieta. Fare oggi una dieta mediatica non è una cattiva idea. Teniamoci informati, ma al tempo stesso diamoci dei ritmi nuovi, controllati, efficienti. Credo che l’errore più grande che si possa fare oggi, e che tanti facciamo, me compreso, è tenere sempre la televisione accesa, il computer acceso, lo smartphone pronto per dirci l’ultima notizia dell’ultimo momento. Smettiamola, facciamolo una o massimo due volte al giorno, semmai quando ci sveglia- mo, ma la sera, magari prima di andare a dormire, non è il caso. Per il resto facciamo altro: abbiamo un’opportunità, viviamola in termini positivi, per quanto sia difficile. Abbiamo l’opportunità di costruire un altro ritmo della nostra esistenza. Vediamo se ci riusciamo, prendiamolo come una scommessa o come una sfida.
Inoltre molti studiosi hanno insistito, giustamente, sul fatto che la nostra è l’epoca di ciò che è chiamato “presentismo”, un’espansione a dismisura del tempo presente che ha distrutto le altre dimensioni del tempo. Vivendo appunto all’istante che fugge. Oggi invece stiamo dimenticando la storia e il passato, mentre il futuro è un’incognita assoluta, quindi non ci preoccupiamo di niente, oppure di tutto. Eppure ho l’impressione che questi momenti che stiamo vivendo abbiano
111 forzatamente cambiato il nostro senso del tempo. Oggi ci sentiamo bloccati, e in questo blocco del nostro presente, della nostra vita quotidiana, abbiamo due scelte possibili. La prima è che guardiamo verso il passato, verso le nostre abitudini, rinfocolando la nostra memoria: ognuno di noi ha più tempo libero per pensare a quello che è successo nella vita passata. La seconda è che siamo sempre ad aspettare il futuro: non si fa altro che chiedersi che cosa succederà dopo il coronavirus, saremo uguali? Saremo diversi? Saremo migliori? Saremo peggiori? Credo che questo sia un momento utile per poter ri-catalogare, ri-semantizzare il presente, per dare un nuovo significato al nostro presente: non più un presente espanso, ma un presente denso, per usare un termine di Clifford Geertz.
Può darsi che ci sia un aumento del senso di comunità come risposta al senso di isolamento che stiamo vivendo, insomma comportamenti più solidali, oppure questi rischiano di essere pensieri utopici? Ci saranno anche effetti positivi?
Assolutamente sì. Penso che questo tempo del coronavirus sia un grande carnevale. È un po’ un paradosso: carnevale non nel senso dell’allegria, ma nel senso del mondo alla rovescia. Le nostre convinzioni, i nostri valori, le nostre assiologie sono stati rovesciate.
Faccio degli esempi: prima si pensava che il Nord fosse meglio del Sud? Adesso si sta meglio al Sud. Pensavamo che i ricchi se la passassero meglio dei poveri? Guardiamo la classifica dei contagiati e vediamo che cosa succede. Pensavamo che fosse meglio il corpo, l’esperienza vissuta, il contatto diretto? Oggi viviamo in un mondo totalmente virtuale, in cui gli e-book sono meglio dei libri cartacei e gli insegnamenti online, che prima ci insospettivano, adesso siamo costretti a erogarli o a fruirli. Prima pensavamo fosse meglio la reciprocità, la socialità, il contatto. Ora siamo in una vita piena di isolamenti, di individualismi, di prese di distanza. Prima ci sembrava bello uscire fuori casa, invece oggi siamo costretti ad apprezzare lo stare in casa. Mi sembra che il mondo sia stato letteralmente rovesciato. Il carnevale dura pochi giorni e poi si torna come prima, ma, come ci insegnano i grandi antropologi, il mondo alla rovescia è un mondo rituale, periodico, ciclico. Oggi al contrario è un momento di esplosione, in cui tutte le nostre assiologie sono suscettibili di essere messe in discussione. Abbiamo un’opportunità, una sfida, in cui forse è il momento di sgretolare i nostri stereotipi e le nostre sicurezze.
Faccio un esempio semplicissimo: vivo al Sud, da anni era considerevolmente aumentata l’emigra- zione, prima degli studenti, l’emigrazione intellettuale, poi una migrazione come quella dell’inizio del secolo scorso, quella lavorativa: si erano svuotati i paesi, si erano svuotate le città, le famiglie erano prive di figli, tutti erano partiti. Ebbene, ora sono tornati tutti in massa. Improvvisamente si è capito che è meglio stare qui. La domanda allora è: che cosa succederà domani? Si riprenderà l’emigrazione come prima? Non credo che succederà. Credo che la gente comincerà a mettere in discussione l’idea di emigrare. Se fossi un decisore, penserei che questo è il momento in cui bisogna lavorare politicamente al Sud. Per offrire delle reali opportunità agli studenti che domani non partiranno, in modo di assicurare loro un futuro e un lavoro senza dover tornare a emigrare. Abbiamo tempo davanti. L’anno prossimo le università siciliane avranno un boom di iscrizioni. Tra cinque anni, quando questi ragazzi che si iscriveranno usciranno da queste università, cosa faranno? Se fossi un politico, mi occuperei di questo tema, inizierei a programmare. Il virus ha causato un fatto tendenzialmente positivo, una conseguenza molto pratica e politica.
Un’ultima domanda, all’apparenza frivola. Qual è la prima cosa che farà quando la quaran- tena sarà terminata e potrà uscire di casa?
Non so se ricorda il libro Alta fedeltà di Nick Hornby: il protagonista passa il tempo a stilare le classifiche, le top five, le top ten. Alla fine del libro una giornalista gli chiede quale sia la sua top five. Lui non sa rispondere. La sua domanda è così. Non faccio altro che pensare a quale sarà la prima cosa che farò, ma in realtà non lo so. Sicuramente vorrei riabbracciare i miei cari che abitano