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In Italia subito dopo l’unificazione si è reso evidente il problema degli squilibri territoriali nello svilup- po economico e sociale, identificato nel divario Nord/Sud. Tuttavia, la conformazione del territorio ha determinato altri squilibri riassunti nella dicotomia montagna/pianura o come evidenziato nella nota metafora di Rossi Doria: i territori dell’osso, le montagne interne più isolate, e quelli della polpa, la fertile pianura agricola. Dal punto di vista storico il problema delle aree interne si presenta per la prima volta negli anni ‘30 come declino della montagna e più precisamente come spopolamento dei territori (Bevilacqua, 2012). Infatti, già a seguito della Prima guerra mondiale, sia sulle Alpi che sugli Appennini, si assiste all’ abbandono delle terre, all’invecchiamento della popolazione e al calo demografico. A partire dal secondo dopoguerra avvengono le maggiori trasformazioni del sistema insediativo italiano che è caratterizzato da una forte polarizzazione degli insediamenti che attraggono le migrazioni interne (migrazioni dalle zone rurali e dal Sud Italia) portando allo spopolamento le campagne e i piccoli borghi (Lanzani, 2003). Dagli anni ‘60 le aree dello spopolamento sono riconosciute come ‘aree interne’, quelle aree incapaci di attivare un proprio sviluppo economico e sociale e che a livello geografico si collocano nell’entroterra o comunque in aree difficilmente accessibili. Le aree interne vengono identificate come territori di squilibrio in cui si manifesta anche una certa resistenza all’integrazione economica e sociale proveniente da input esterni, oltre alla conservazione di forme di attività economiche tradizionali nel luogo. Le aree sono caratterizzate da esclusione e marginalizzazione espresse nell’ immobilità, sintomo dell’incapacità di cambiare e non solo volontà di resistere al cambiamento (Becchi-Collidà et al., 1989). Le aree interne sono state lette anche nel dualismo territoriale con le aree metropolitane, le seconde sono cresciute a scapito delle prime ponendo da un lato problemi di congestionamento, squilibrio tra domanda e offerta di servizi, carenze infrastrutturali, dall’altro perdita di popolazione, emarginazione economica e sociale (Cusimano, Li Donni, 1989). Nel corso degli anni ‘60 per indagare il tema degli squi- libri territoriali in Italia sono state realizzate alcune ricerche a livello nazionale fra cui il noto ‘Progetto ‘80’, redatto tra il 1968 e 1969. Questo progetto su scala nazionale, aldilà degli esiti che ha avuto, è riuscito a cogliere l’importanza della macro-scala come dimensione in cui controllare le trasformazioni in un’epoca di forte sviluppo (Renzoni, 2012). Preliminarmente al progetto nel 1963 l’Istat elaborò uno studio sulle trasformazioni in atto nella struttura insediativa. Attraverso un set di indicatori socio-eco- nomici cercò di classificare i comuni secondo caratteristiche urbane e rurali: comuni urbani, urbani, semi-urbani, rurali e semi-rurali. L’esito di tale analisi porta ad individuare i comuni rurali come aree di sotto-sviluppo, inserendo di fatto la ricerca in un filone di studi allora attuale legato al tema sviluppo/ sotto-sviluppo e agli squilibri territoriali (Caboldi, 2013).

Il Progetto ‘80 presentava una nuova visione degli insediamenti a scala nazionale e immaginava le individuazioni di sistemi metropolitani di città verso cui orientare lo sviluppo: «Essa si fonderà su due premesse. La prima è il riconoscimento della necessità della evoluzione urbana verso dimensioni ‘me- tropolitane’. Soltanto a certe dimensioni è possibile infatti assicurare ai cittadini i beni e i servizi propri di una società evoluta. La seconda è l’esigenza che tale processo si verifichi in modo equilibrato [...] che preveda la realizzazione – nel lungo periodo – di una serie di ‘sistemi di città’ (o ‘metropolitani’) i quali dovrebbero presentare proporzioni e dimensioni non molto diverse l’uno dall’altro. [...] I sistemi metro- politani non devono essere quindi intesi come aree urbanizzate compatte, disposte attorno ad un unico centro, ma come strutture articolate e policentriche» (Ministero del Bilancio e della programmazione Economica, 1969, p. 42). Il progetto individuati i principali sistemi metropolitani proponeva il rafforza- mento della rete di città all’interno dell’area metropolitana in un’ottica policentrica e la connessione di queste entro più ampie reti regionali, invece per le aree marginali che oggi potremmo definire interne era stato ipotizzato un ‘ambito per il ricupero funzionale del patrimonio storico-culturale’. Il progetto

rimase solo su carta, ma certamente rappresenta nel panorama italiano un episodio di assoluto valore quale tentativo di: approccio unificato alla pianificazione (Archibugi, 2007; Renzoni, 2012).

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Nel corso del 1970 si è andato definendo un nuovo periodo di trasformazione del sistema insediativo che ha portato allo sviluppo delle piccole città e dei comuni limitrofi alle grandi aree urbane, delinean- do una Italia emergente (Cencini, Dematteis e Menegatti, 1983) rispetto alle grandi città. Molti comuni in questo periodo vedono aumentare la popolazione, nel 55% dei comuni la popolazione cresce (Cenci- ni, Dematteis e Menegatti, 1983), e al contempo in molti territori crescono le piccole e medie imprese andando così a dare vita all’Italia dei distretti (Becattini, 1975) e alla Terza Italia (Bagnasco, 1977). In questo periodo emerge chiaramente il ruolo e la potenzialità di sviluppo legata alla piccola città inseri- ta all’interno di un network che definisce regioni urbane sempre più ampie caratterizzate dalle prime forme di sprawl urbano. La struttura insediativa diviene meno gerarchizzata e acquistano sempre più importanza le relazioni che strutturano i sistemi urbani: «i nuovi mezzi della comunicazione e le recenti forme di divisione territoriale del lavoro tendono verso configurazioni reticolari sempre meno legate da interdipendenze gerarchiche alla Christaller» (Dematteis, 1983, p. 113).

«Usando il termine urbanizzazione nel senso restrittivo di concentrazione demografica crescente, con- tro-urbanizzazione sta a indicare il processo territoriale opposto […] Il termine disurbanizzazione (o deurbanizzazione) si riferisce invece a un singolo sistema urbano (o “regione funzionale urbana”, Fur), costituita da una città centrale e una corona suburbana e indica la fase che inizia quando la popolazione della città centrale inizia a diminuire in misura tale da determinare una riduzione assoluta della popo- lazione dell’intera Fur» (Dematteis, 1985, p.101). Facendo riferimento al ciclo di vita delle città (urba- nizzazione – suburbanizzazione – disurbanizzazione – riurbanizzazione) il concetto di contro-urbaniz- zazione indica uno spostamento progressivo della crescita demografica dalla città centrale all’esterno delle regioni funzionali, in questo spostamento l’ultima fase è quella della disurbanizzazione. In questa fase sono i centri minori ad essere interessati dalla crescita demografica dando luogo alla contro-ur- banizzazione. Questi fenomeni esplicano un generale movimento di deconcentrazione. Deconcentra- zione che «[…] presumibilmente non riguarda soltanto la ridistribuzione spaziale della popolazione, ma anche l’occupazione, quindi la rilocalizzazione delle attività economiche e più in generale le forme dell’organizzazione territoriale» (Dematteis, 1985, p. 102). Così va spostata l’attenzione dall’agglome- razione puntuale ai rapporti e alle reti che legano gli insediamenti: «Ragionando in termini di funzioni (e senza dimenticare che esse vogliono anche dire rapporti sociali) diventa relativamente irrilevante il fenomeno della concentrazione demografica, con cui per inerzia tendiamo a identificare il concetto di città e perdono peso i rapporti dei centri con i loro intorni territoriali, mentre acquista sempre più peso la loro posizione nelle reti delle interconnessioni regionali e sovra-regionali» (Dematteis, 1985, p.104). Nel descrivere il processo di controurbanizzazione in atto negli anni ’80 Dematteis mette in luce le differenze tra regioni del Nord-Ovest e quelle centrali (definite di industrializzazione periferica più recente). Differenze date dal rapporto esistente nelle regioni centrali tra diffusione industriale e rete delle città piccole e medie, i sistemi industriali si integrano con i preesistenti sistemi urbani così da sfruttare le economie di agglomerazione. Secchi (1985) metti in luce che emerge dalle ricerche sull’e- conomia periferica, e sui relativi territori, è l’unicità e la peculiarità dei processi e delle situazioni che impattano sugli stili di vita e sulle modalità insediative. E sono proprio le piccole città manifatturiere a essere investite da questi processi. Tra le ricerche che hanno indagato il tema delle piccole città sembra utile segnalare gli studi condotti nella prima metà degli anni ’80 da Raimondo Innocenti sul tema delle piccole cittadine manifatturiere, nate in epoca tardo medievale come centri del commercio e dell’ar- tigianato e trasformatesi poi nelle città della piccola impresa. Anche in questi studi il primo problema che si pone è quello definitorio. Risulta difficile definire in termini quantitativi, riferiti alla dimensione demografica, il fenomeno delle piccole città industriali che sembra comprendere città medie, capoluo- ghi di provincia, e città molto piccole, al di sotto dei 5000 abitanti. Circoscrivere la definizione di piccola città industriale/manifatturiera alla dimensione demografica risulta inefficace poiché: «[…] mutano nel

corso dello sviluppo del processo di urbanizzazione le nozioni demografiche stesse di grande e piccola città» (Innocenti, 1985, p. 17). Di maggior interesse risulta il tentativo di definire l’identità di queste piccole città ponendole a confronto con i processi di trasformazione delle grandi città. Leggendo le piccole città attraverso questo rapporto si nota come: «[…] il processo di formazione e trasformazione delle prime [le città della piccola impresa] sembra essersi prodotto ora in corrispondenza delle fasi di crescita delle seconde [le grandi città industriali], ora in controtendenza con queste» (Innocenti, 1985, p. 18). Nel primo caso le piccole città si sviluppano secondo un rapporto di subordinazione rispetto alla grande città, rispecchiando il ruolo della piccola impresa rispetto alla grande industria. Esito spaziale di tali processi sono la crescita delle cinture metropolitane e dei capoluoghi dei distretti interni o limitrofi alle aree metropolitane. Nel secondo caso, invece, per effetto di processi di redistribuzione tra centri e periferie nell’area vasta metropolitana o regionale i centri minori si sviluppano in alternativa al grande centro industriale, definendo proprie forme di sviluppo economico e sociale e trasformandosi in citta- dine manifatturiere; queste oltre che una propria forma di economia industriale offrono una qualità dell’abitare legata ad una forte valenza ambientale ed ecologica e a culture e valori tradizionali. Dal secondo dopoguerra i processi di urbanizzazione si intrecciano con la questione territoriale italia- na, segnata da forti divari di sviluppo. Se dapprima la problematica territoriale dello sviluppo è incen- trata sulla dicotomia nord-sud e sui problemi di crescita economica del Mezzogiorno, nel corso degli anni ’60 si pone come questione il riconoscimento di tre aree regionali distintee poi negli anni ’70 viene reinterpretata entro tre diverse formazioni territoriali introducendo il concetto di Terza Italia (Bagna- sco, 1977). La Terza Italia identifica i territori del Nord-Est e del Centro ̶ comprendendo le regioni di Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e le Marche ̶ ed è contraddistinta da un peculiare apparato produttivo di piccole imprese e un relativo milieu socio-cultu- rale. Infatti, questi territori sono caratterizzati dalla presenza di forti reti sociali improntate sulla fiducia, sulla cooperazione, sulla condivisione di norme e valori; quello che successivamente Putnam (1993) riconoscerà come capitale socialeLa forma di industrializzazione che si è diffusa in queste regioni è composta da piccole e medie imprese con forte specializzazione e capacità di esportazione; tale forma sarà identificata da Becattini (1979) come distretto industriale. In una prospettiva storica alcuni autori come Bagnasco (1977) individuano nelle strutture agrarie storiche, contraddistinte da un’organizzazio- ne incentrata sulla mezzadria o sulla piccola proprietà, e nella famiglia colonica che ne è espressione sociale un’unità economicain nuce che si esprimerà nel sistema di piccola industrializzazione diffusa. La fine dei sistemi agrari determina il passaggio di forza lavoro dalla campagna all’industria avviando una crescita quantitativa dell’industria medio-piccola. Dopodiché la piccola e media impresa cresce a livello qualitativo grazie all’innovazione tecnologica e alla diversificazione delle produzioni.

Si determina così una crescita industriale (e urbanistica) in due tempi; questa crescita seppur presen- tando caratteristiche simili in tutta l’area centrale italiana impatta con le strutture geografiche regio- nali e sub-regionali. Gli impianti industriali si collocano e accrescono nelle aree pianeggianti seguendo direttrici viarie storiche o più recenti, nuove superstrade o autostrade. A partire dalle infrastrutture lineari si determinano due modalità di diffusione dell’industrializzazione: uno sviluppo irregolare e di- scontinuo lungo le connessioni tra centri urbani minori nelle aree prettamente pianeggianti (ad esem- pio nel Valdarno); uno sviluppo a pettine che dalle infrastrutture viarie si insinua nel fondovalle delle

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di aree metropolitane a carattere monocentrico. Invece, nelle regioni del Nord-Est e del Centro lo svi- luppo della piccola impresa porta ad un’urbanizzazione diffusa nei centri medi e piccoli che darà poi luogo alla formazione di aree metropolitane policentriche (Innocenti, 1985). Le aree contraddistinte da industrializzazione diffusa presentano un tessuto di piccole e medie imprese e si collocano in contesti in cui, talvolta, è possibile rintracciare alcuni legami con le attività agricole. Tali aree sono soggette a spin- te centripete e centrifughe. Le forze centripete portano queste aree, estese a livello intercomunale, ad aggregare in unico polo i servizi terziari: uffici pubblici, banche, nodi del trasporto e della logistica. Si viene così a formare una città terziaria con uno specifico mercato del lavoro e specifici modelli cultu- rali. Le forze centrifughe invece attraggono queste aree nei vicini contesti metropolitani determinando marginalizzazione o incorporazione nel sistema metropolitano.

La perdita progressiva dei confini tra urbano e rurale ha portato la Città e le città a traguardare i propri limiti amministrativi definendo una città arcipelago (Indovina, 2009) estesa sul territorio che in alcuni casi configura una città-regione (Scott, 2011) che arriva a inglobare o lambire anche le aree interne e i piccoli comuni posti ai margini. Nel contesto italiano potremmo rileggere questi rapporti nella defi- nizione delle città metropolitane; si delinea una città metropolitana altra ‘periferica’ rispetto all’area metropolitana funzionale, entro cui indagare le interazioni fra visioni centrali e visioni periferiche nella costruzione di una visione comune d’area vasta.