Il patrimonio dei piccoli centri
I piccoli paesi sono in modo diretto non solo associati ma il più delle volte definiti come piccoli centri storici (Cusmano, 1997) o centri storici minori (Ricci, 2016)36. La piccola città è dimensionata rispetto alla sua centralità storica, tanto che questa diventa espressione dell’identità urbana: «Nelle cosiddette realtà minori il centro storico costituisce la dimensione qualitativa dell’intera città» (Cusmano, 1997, p.64).
L’attenzione rivolta verso i centri storici è rintracciabile nel panorama culturale italiano a partire dagli anni ’60, ciò non sottintende il fatto che prima il tema non fosse considerato piuttosto che questo era trattato secondo un’ottica diversa. Dagli anni ’60 è evidente un cambiamento dei termini con cui la tematica dei centri storici è stata sviluppata: mentre in precedenza questa era fortemente radicata alle condizioni storiche e agli aspetti correlati alla ricostruzione edilizia post-bellica37, è a partire dai primi anni del cosiddetto “boom economico” che si mostrano in forme e in quantità più visibili fenomeni 36 Tale corrispondenza ed accezione evidenzia due aspetti che si presentano in modo ricorrente: il piccolo abitato non essendosi accresciuto coincide in gran parte con la sua struttura più storica e al piccolo comune è ri- conosciuta un radicamento all’identità locale che nella sua materializzazione fisica rimanda a una spazialità minu- ta realizzata nel passato. Entrambe le considerazioni possono comportare però delle distorsioni: anche nei piccoli centri la crescita urbana moderna ha rimodulato gli assetti urbani dove sono presenti costruzione edilizie recenti di minore qualità in quantità e dimensioni minori rispetto ai grandi centri; il legame con il passato se interpretato con inclinazioni troppo conservatrici rischia di limitare le prospettive future.
37 Tra tutti si sottolinea al conflittuale approccio alla progettazione, sia all’atto pratico sia a livello teorico, sul costruire “com’era e dov’era” e il costruire ex-novo.
di abbandono (alimentati dal mito della crescente modernità) e che emergono le questioni tuttora in esame quali la riattivazione degli spazi pubblici e il riutilizzo degli edifici storici.
La tematica è declinata, quindi, verso una prospettiva progettuale secondo i principi di salvaguardia e riqualificazione, che sono posti, difatti, all’attenzione del dibattito architettonico e urbanistico nazio- nale al convegno svoltosi nel settembre del 1960 dal titolo “Salvaguardia e il Risanamento dei Centri Storici”. Il convegno porterà alla stesura e alla dichiarazione approvata all’unanimità del documento finale denominato “La Carta di Gubbio”. La Carta di Gubbio si presenta al pari di un documento che ̶ al- dilà della volontà di sensibilizzare e diffondere la questione verso tutti gli apparati della società italiana ̶ propone indirizzi e proposte di valenza sia culturale sia tecnica: «Rifiutati i criteri del ripristino e delle aggiunte stilistiche, del rifacimento mimetico, della demolizione di edifici a carattere ambientale anche modesto, di ogni “diradamento” ed “isolamento” di edifici monumentali attuati con demolizioni nel tessuto edilizio, ed evitati, in linea di principio, i nuovi inserimenti nell’ambiente antico, si afferma che gli interventi di risanamento conservativo, basati su una preliminare profonda valutazione di carattere storico-critico, devono essenzialmente consistere in: a) consolidamento delle strutture essenziali degli edifici; b) eliminazione delle recenti sovrastrutture a carattere utilitario dannose all’ambiente ed all’i- giene; c) ricomposizione delle unità immobiliari per ottenere abitazioni funzionali ed igieniche, dotate di adeguati impianti e servizi igienici, o altre destinazioni per attività economiche o pubbliche o per at- trezzature di modesta entità compatibili con l’ambiente, conservando al tempo stesso vani ed elementi interni ai quali l’indagine storico-critica abbia attribuito un valore; d) restituzione, ove possibile, degli spazi liberi a giardino ed orto; e) istituzione dei vincoli di intangibilità e di non edificazione» (Carta di Gubbio, 1960).
Il Comitato promotore del Convegno di Gubbio, costituitosi in forma permanente, si consolida con la fondazione dell’Associazione Nazionale Centri Storico-artistici (ANCSA)38. L’Associazione si propone per statuto di promuovere studi e ricerche pluridisciplinari per la salvaguardia e il risanamento dei centri storici; di coordinare studi e ricerche elaborate in sedi diverse (Enti pubblici, Università etc.); di pro- muovere iniziative di incontro e confronto, nonché interventi a carattere sperimentale; di prestare agli Enti ed ai privati interessati opera di consulenza critica ed assistenza tecnica; di attuare direttamente interventi di risanamento su proprio patrimonio; di elaborare sperimentalmente e promuovere a li- vello generale adeguati provvedimenti legislativi e normativi. L’associazione, tuttora attiva, segnalava con criticità la crescita espansionistica delle città italiane e contrapponeva a tale tendenza egemone la riscoperta dei centri storici evidenziando lacune e mancanze normative; l’allora normativa vigente così come la maggior parte dei piani regolatori (escludendo alcune eccezioni) erano incentrati sulla costruzione delle nuove parti della città a discapito della valorizzazione dell’esistente. Rispetto a tale criticità, difatti, è accolta di buon auspicio il DM 1444/68 che introduce l’obbligo all’interno del PRG di individuare e distinguere le zone omogenee e che definisce, riconoscendone il valore, la zona A che corrisponde all’area riconducibile ai centri storici e che è così enunciata: «parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o por- zioni di esse, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteri- stiche, degli agglomerati stessi» (DM 1444/68). L’enunciato del decreto assume con lo sguardo attuale un’ulteriore importanza in considerazione del fatto che ad oggi in Italia non esiste su base nazionale un
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enunciato normativo che possa definire in modo perentorio il centro storico39.
Un aspetto rilevante che le sollecitazioni culturali e degli indirizzi legislativi hanno sviluppato e alimen- tato riguarda la condizione d’insieme e la valutazione di scala urbana nel trattare i centri storici non riducendo la questione a singoli manufatti di valore monumentale e storico o ambiti urbani circoscritti. La maggiore sensibilità verso la tematica è documentata nel testo “Centri storici - Politica urbanistica e programmi di intervento pubblico” curato da Ciardini e Falini; negli scritti emerge come i centri storici siano etichettati, per la loro ricchezza culturale, tra i temi progettuali di maggior interesse pubblico con una duplice valenza: perché soggetti a iniziative promosse da enti pubblici anche mediante politiche urbane specifiche e perché riconosciuti di indubbio valore da parte della cittadinanza laddove il valore storico in realtà si sostanzia in termini di riconoscimento identitario. La pubblicazione degli anni ’70 risulta d’interesse perché mediante una pluralità di contribuiti presenta un’immagine a tutto tondo sul tema analizzato da più sguardi settoriali orientati verso il tentativo di posarsi su una condivisa definizio- ne di ‘centro storico’. La riflessione, in mancanza di una solida disciplina giuridica di riferimento, rimane aperta ad ulteriori osservazioni incrementando la discussione a nuove questioni quali la distinzione tra centro storico e centro città, le difficoltà presenti nei centri storici minori del Mezzogiorno ‘interno’ e il concetto di ‘patrimonio storico’, che l’urbanista Pier Luigi Cervellati descrive così: «Per ‘patrimonio storico’ si intende sia l’insieme di manufatti, sia in territorio naturale, che presentano ancora la stessa composizione strutturale e morfologica che si manifesta, e li caratterizza, fino al formarsi della città emergente» (Cervellati, 1978, p. 119). Il concetto di patrimonio riconducibile quanto ai centri storici quanto ai piccoli centri in generale è di fatto un’attribuzione valoriale se si richiama alla mente ciò che Françoise Choay caratterizza come ‘patrimonio urbano’: «Si dimentica troppo spesso che urbanizzazio- ne non è sinonimo di città. [...] Lo spazio a scala umana, insieme alla doppia attività data da coloro che lo edificano e da coloro che lo abitano, costituisce il nostro patrimonio più prezioso»” (Choay 2006). Se da un lato il tema, evolvendosi nel tempo, in ambito teorico diviene includente: sono ampliati gli orizzonti delle riflessioni i centri storici sono declinati in modo sempre più ricorrente attraverso la no- zione di ‘città esistente’ anche nella pratica urbanistica dell’elaborazione dei piani regolatori (Gaspar- rini, 1994) in cui comunque permangono le distinzioni tra conservazione/trasformazione, storico/non storico. Dall’altro emergono alcuni casi territoriali specifici quali i centri storici minori del Mediterraneo discussi all’interno del convegno internazionale organizzato dall’IRACEB nel 1993, dove è posto l’ac- cento sul problema dell’abbandono e del degrado progressivo dei piccoli centri storici, ma soprattutto sul rischio della perdita del valore simbolico del centro storico laddove la progettazione urbanistica di nuovi insediamenti si distacca marcatamente rispetto al tessuto storico preesistente (Bianchi, Milella, 1999).
Rispetto alla relazione iniziale che permette di considerare i piccoli centri come centri storici minori40 e che in modo ricorrente è evocate in molti testi (Gasparrini, 1994; Cusmano, 1997; Bianchi, Milella, 39 Oltre alla classificazione della zona omogenea A, è rintracciabile solo un’altra definizione di stampo normativo proposta dalla commissione Franceschini nel 1964: «Sono da considerarsi centri storici urbani quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale o la parte originaria e autentica di insediamenti e testimoniano i caratteri di una viva cultura urbana».
40 «…Non a caso l’aggettivo “storico” spesso è stato fin qui omesso in quanto, almeno nel nostro Paese, si riscontra, nella maggior parte dei casi, una sostanziale biunivocità tra i concetti di “centro storico minore” e di “centro minore”, proprio per l’inferiore grado di dinamicità che ha caratterizzato i nuclei insediativi di più ridot- te dimensioni, portandoli spesso ad un lento, apparentemente inesorabile processo di abbandono» (Lucchese, 2011, p. 14).
1999; Ricci 2016) è doveroso presentare un appunto o quantomeno una precisazione terminologica sia per l’accezione di minore sia per l’accezione di storico. La caratterizzazione di un insediamento rispetto alle proprie dimensioni è condizionata all’unità di misura con cui si procede alla misurazione e ancor più alla soglia di demarcazione rispetto alle più comuni classi dimensionali quali “grande” e “piccolo”, che poste all’interno di un sistema comparativo di elementi della stessa specie sono tradotte in “maggiore” e “minore”: «In realtà, parlare semplicemente di “dimensione” per definire la categoria “centri storici minori” non consente di chiarire in modo univoco i limiti entro cui ci si vuole collocare. Se, infatti, ci si riferisce ad una dimensione fisica, il centro minore coincide con il “piccolo centro”, una caratterizzazione non assoluta, ma relativa al contesto territoriale in cui esso è inserito. Se ci si riferisce alla dimensione demografica, può valere la stessa considerazione, tenendo tuttavia presente che talo- ra l’evoluzione storica può produrre effetti, in ambito demografico, relazione con esso, si possono poi operare valutazioni anche di carattere socio-economico, così da definire “minore” un piccolo centro che attraversa la fase discendente della propria parabola evolutiva e storica» (Lucchese, 2011, p. 14). Oggi che i centri minori si muovono nel contesto della città territorio il progetto deve sempre più allar- gare il proprio campo d’azione guardando alla scala territoriale, tuttavia la piccola città «all’apparenza più placata e più semplice» è il luogo entro cui verificare «la sopravvivenza, o meno, di parole-chiave come ‘misura’ o ‘limite’ o ‘localismo’... fino agli ardui fastigi definitori di quella identità urbana che è, insieme, immagine fisica e materia antropologica, prodotto spaziale ed esito a-spaziale, sedimento del tempo ed espressione vivente, memoria e radice» (Cusmano, 1997)
Ritorno al territorio
Il fenomeno dei ritornanti è stato indagato da vari autori (Corrado, Dematteis, Di Gioia, 2014; Corrado, 2015, Decandia, 2016) e insieme a questo è stato indagato quello che più ampiamente può essere chia- mato ‘ritorno alla terra’ (Poli, 2013; Magnaghi, 2013). Il ritorno alla montagna (Dematteis, 2016) è stato accompagnato da un vasto immaginario che dipingeva questi luoghi come opposti alla città, sia in senso positivo come luoghi di libertà sia in senso negativo come luoghi poveri, dalle dure condizioni di vita. I ritorni recenti dei nuovi montanari definiscono un nuovo modo di abitare la montagna entro cui si possono individuare tre tipologie di nuovi abitanti: «‘amenity migrants’, immigrati e persone in cerca di spazi disponibili per coltivare economie ‘verdi’ e solidali stanno lentamente ripopolando la montagna, sfatando i diffusi pregiudizi concernenti la sua marginalità» (Dematteis, 2016, p. 12). Allo stesso tempo questa nuova visione della montagna ha portato anche un rinnovato interesse della città, il riconosci- mento di caratteri specifici della montagna ha aperto la possibilità di relazioni mutuamente vantaggio- se tra aree interne e città. Esempio ne sono i progetti realizzati in Piemonte quali la ‘Metro-montagna’ o il programma triennale “Torino e le Alpi” che pongono l’attenzione proprio sull’interdipendenza tra montagna e città; progetti che insieme alle ricerche sui nuovi abitanti della montagna: « hanno anche rivelato che ciò di cui si sente maggiormente il bisogno si trova soprattutto in quelle parti della mon- tagna che nell’ultimo secolo hanno subito maggiormente la marginalizzazione socio-economica e che quindi, a causa della loro intrinseca debolezza, possono rinascere solo se trovano alleati nelle città. È soprattutto da queste aree che può prendere l’avvio un’inversione di tendenza, se si adotta una visione
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centro-periferico perché produce più ricchezza attraverso la valorizzazione e la messa in rete di ogni suo nodo ‘periferico’» (Magnaghi, 2010) si ricostruisce il ritorno alla terra (Magnaghi, 2013) e il ‘patto città-campagna’ (Magnaghi, 2010): «da un lato la restituzione alla città della ‘sua’ campagna per poter affrontare, in una prospettiva più comprensiva, politiche del benessere e problemi nodali (la chiusura tendenziale dei cicli dell’energia, dell’alimentazione, dei rifiuti, delle acque; la qualità dell’aria, dell’ac- qua, delle reti ecologiche, del paesaggio, delle relazioni di scambio e ricambio materiale e sociale) che appaiono definitivamente irresolubili finché si rimane chiusi nello stretto ambito dell’urbano; dall’altro, la simmetrica e convergente restituzione al mondo rurale del ‘suo’ territorio per conferire nuova digni- tà e centralità all’attività primaria» (Magnaghi,2013, p. 53)
A livello culturale più ampio una tematica emergente è quella del “ritorni alla manualità” (Natali, 2015) che si esplica nel modello contemporaneo dei makers (Micelli, 2011), ma che ha una speciale rilevanza nei piccoli centri e nelle aree interne, luoghi del “produzioni tipiche” ma anche luoghi di innovazione. Spesso nelle aree interne e nei piccoli centri operano soggetti innovatori capaci di sfruttare la ricchezza del capitale sociale e territoriale legandosi ai valori e alle reti commerciali globali, piuttosto che all’e- conomia e alla società locale. Molti dei soggetti innovatori stanno attivando filiere economiche legate all’economia civile che mirano alla difesa e alla cura del territorio attraverso la co-produzione di beni ambientali (Carrosio, 2015). Si stanno attivando, così, molteplici esperienze legate a nuove pratiche re- sidenziali eco-compatibili, nuove forme di fruizione del territorio, metodi di agricoltura alternativi allo sfruttamento intensivo delle risorse, nuove forme di gestione del patrimonio boschivo, gestioni locali delle energie rinnovabili e del ciclo dei rifiuti. Queste esperienze possono avere origine endogena, neo- endogena o esogena (Carrosio, 2015), quindi nascono nei territori o possono essere dislocate e inserite in queste aree “dall’esterno”. E come osserva Carrosio (2015): «utile mettere in luce questi distinguo, perché nelle aree interne permane una contrapposizione tra dentro e fuori come lascito del conflitto tra città e campagna» (Carrosio, 2015, p.116). Sono le esperienze neoendogene, spesso legate a idee di neoruralismo, quelle che rompono questa dicotomia; ponendosi come forme relazionali tra interno ed esterno, trasponendo culture metropolitane nella dimensione locale.
Sono spesso enoendogeni i processi di ripopolamento dei nuclei abbandonati o in abbandono, le espe- rienze di ritorno e del ‘ri-abitare’ (Corrado et al.,2014; Corrado, 2015).
È da notare che le azioni di ripopolamento spesso sfuggono alle analisi statistiche e demografiche perché muovono piccoli numeri, ma possono avere un fortissimo impatto a livello qualitativo nel recupero di parti di territorio.
Aree interne come dimensione dell’urbano
Nel confronto tra città e campagna Decandia (2016) legge nuove relazioni: «Relazioni che non possono essere più esaurite all’interno della città definita e compatta, ma richiedono un territorio ampio e di- versificato in cui potersi muoversi tra locale e globale, in cui poter cercare rifugio nell’esperienza della località, ma da cui poter ripartire per reimmergersi nel mondo» (Decandia, 2016, p.36). Rileggendo il territorio gallurese all’interno della ricerca Prin Postmetropolis la studiosa sarda rintraccia nelle aree interne alcuni indizi attualmente rilevabili che svelano un’inversione di tendenza e che consento di af- fermare che “uno sciame urbano si riappropria dei territori svuotati dalla modernità”. L’affermazione è supportata dalla constatazione che le aree interne riservano risorse funzionali agli spazi della moderna urbanità al momento in cui però si assume una lettura di area vasta come nel caso studio della Gallura: «[…] queste aree interne, dense di vuoto e di silenzio, possono diventare delle risorse preziose. Risorse da considerare non esclusivamente come parti del territorio gallurese, ma piuttosto come componenti di un orizzonte urbano molto più allargato, dai confini mutevoli, che si estende oltre lo stesso vecchio
continente europeo, definito via via dall’intreccio di relazioni che nel tempo si stabiliscono tra scalarità e situazioni differenti. All’interno di questa dimensione queste aree, infatti, proprio per questa loro specialità, ma anche in quanto portatrici di sopravvivenze che provengono da un passato arcaico che non ha mai smesso di essere, potrebbero divenire, infatti, tasselli irrinunciabili, di una inedita partitura urbana, tutta da inventare» (Decandia, 2016, p.35).
Nelle realtà insulare è possibile leggere fenomeni di carattere generale che ̶ all’interno di dinamiche territorialmente autonome (o spazialmente limitate nell’espansione di relazioni scalare) ̶ assumo ca- ratterizzazioni peculiari, come riferisce Lidia Decandia nell’osservare le attuali condizioni della regione Sardegna: «[…] qui non c’è una cultura arcaica, un mondo contadino e pastorale, una cultura rurale che si contrappone ad una distante cultura urbana, ma semmai una campagna che ritorna ad essere parte della città e una città che vicendevolmente torna ad essere parte della campagna» (Decandia, 2016, p.30); l’interpretazione si ancora all’immagine di una urbanità che “si diluisce nella campagna” (Decandia, 2016, p.43). Adducendo alla lettura dei fenomeni territoriali una restituzione metaforica, Decandia presenta alcune delle tendenze di riscoperta delle potenzialità offerte dalle aree interne come uno “sciame” seppur marginale comunque significativo: «In questa fuga dalla città consolidata, questo sciame, proprio per rispondere alle urgenze del presente, paradossalmente riscopre, reinven- tandole, forme d’uso del territorio che credevamo dimenticate; si riappropria, in modalità inedite, di alcune di quelle “perle” […] che provengono da un passato latente che credevamo perduto e che in- vece continuano a popolare questo territorio. Si tratta certo di uno sciame di lucciole, di flebili bagliori che lampeggiano, che si accendono e si spengono in questi territori dell’ombra popolati dal “vuoto e dal silenzio” […] Questi flebili bagliori tuttavia mostrano, seppur debolmente, che questi nuovi usi del territorio, riscoprono, reinterpretandoli in chiave estremamente contemporanea, ambienti dalle ecce- zionali qualità, “densi di natura e di storia” […]» (Decandia, 2016, p.40).
Riciclo e ri-attivazione
Le aree interne e i piccoli centri possono essere visti anche come uno scarto che diventa risorsa da recu- perare attraverso il paradigma del riciclo e la sperimentazione delle pratiche di adaptive reuse. Queste strategie, fatte proprie dalla ricerca Prin-Recycle, propongono azioni e strategie di intervento che si svi- luppano a partire dalle risorse spaziali disponibili in un’ottica di riciclo 100%. Le aree interne allora non sono più oggetto marginale, territorio scartato dai flussi contemporanei ma divengono luoghi-risorsa su cui attivare progetti di upcycling: «La distanza delle aree interne dai centri propulsori[...] ne ha pre- servato alcuni valori insediativi, comunitari, paesaggistici e identitari che possono oggi costituire una preziosa riserva per ripensare piccole città [...]L’impegno nell’immaginare un diverso futuro possibile reclama la questione della cura e rigenerazione delle aree interne, non limitandosi ad un loro recu- pero fisico, al risanamento ambientale o all’indispensabile miglioramento dell’accessibilità viaria, ma chiede di agire sulla più complessiva capacità rigenerativa dei tessuti sociali, economici e produttivi.» (Carta, 2017, pp. 94). Anche in questi luoghi, come nelle periferie delle grandi città, si attivano progetti innovatori di rigenerazione e non mere conservazioni localistiche: «il trattamento non è diverso da quello che va riservato ai quartieri problematici delle città [...] nessuna nostalgia per le dotazioni che si
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