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le cose che nell’inglese British, un filino meno pragmatico, risultano meno facili. A ogni modo la tendenza anarcoide della terminologia italiana costi-tuisce un invito a indagare il sostrato del levigatissimo sistema delle durate;
il quale, proprio grazie alla sua levigatezza, è condiviso in sostanza da tutto l’Occidente.
Desocupado lector, desocupada lectriz, quale forma e quale nome dare-ste al segno che corrisponde al valore temporale massimo, quello di cui tutti gli altri sono perfetti sottomultipli? Detto in altri termini: quali sono la forma e il nome ideali per identificare il valore da cui tutto il resto dipende? Per fare un parallelo intuitivo, qual è l’aggettivo migliore per in-dicare un sistema di pianeti orbitanti intorno a quella palla infuocata che si chiama sole? Nella lingua di Cervantes, già che l’abbiamo scomodata per fare appello a chi dedica tempo a queste pagine, quel sistema si dice solar, e la forma del corpo incandescente al suo centro redonda. In versio-ne sostantivata, redonda è l’aggettivo che, sottintendendo nota, versio-nella lin-gua di Cervantes fa riferimento alla forma tondeggiante – ancorché non rotonda – della figura corrispondente al valore musicale massimo1. Per lo stesso motivo, nella lingua di Debussy esso si chiama ronde. Le lingue an-glogermaniche puntano invece sul concetto di compiutezza connaturato alla forma approssimativamente circolare del segno. Nella lingua del killer di Lennon il valore massimo si chiama whole note, “nota intera”, come con-ferma la lingua di Goethe, in cui tale nota prende il nome dall’aggettivo sostantivato Ganze. Nella lingua di Lennon si affaccia invece lo spettro che aleggia nelle aule scolastiche del nostro paese: in inglese British, la whole note degli Yankees si chiama semibreve. Non ci vuole molto per capire che si tratta di un prestito: basta togliere il corsivo e latinizzare la pronuncia ed ecco il nome italiano della figura da cui dipende l’intero sistema: semibreve.
Breve excursus autobiografico. Nel 171, l’anno in cui Lennon compo-neva Imagine, il futuro autore di questo libro cominciava il proprio appren-distato musicale. La scuola aveva sede nello stanzone in cui provava la banda del paese, un locale saturato dalle sonorità prodotte in tendenziale anarchia da un gruppo di persone che, finiti i turni di lavoro o i compiti a casa, si ritrovava a pompare aria dentro ogni sorta di tubo. L’allegra cacofonia che ne derivava era interrotta, una volta alla settimana, dall’arrivo del maestro di teoria e solfeggio. Nulla a che vedere col testimonial medio della racco-gliticcia formazione civica, dal liceale coi capelli lunghi al panettiere con gli abiti imbiancati di farina: dolcevita nero, giacca di panno, mocassino lucido, carpetta di cuoio e cipiglio da commissario Ingravallo; era da lui
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che quella banda di zufolatori doveva apprendere i fondamenti di teoria musicale e la pratica del solfeggio.
Al futuro autore di questo libro, alto all’epoca un metro e una spanna, era stato assegnato un posto in prima fila, proprio davanti a una lavagna un po’ diversa da quella su cui la maestra spiegava in quei giorni le frazioni: una lavagna pentagrammata, una superficie su cui si sarebbero affacciati di lì a poco alcuni segni nuovi e dai nomi affascinanti. Dopo un breve preambolo il maestro prese un gessetto e, con gesto rapido e sicuro, tracciò nello spa-zio fra la terza e la quarta riga quella che Cervantes avrebbe chiamato una redonda e Rabelais una ronde. Solo che anziché chiamarla rotonda, tonda, o anche solo intera come avrebbero fatto nelle rispettive lingue Goethe e il killer di Lennon, la chiamò semibreve. Ma come, pensò il futuro autore di questo libro reduce da un pomeriggio trascorso a dividere torte, com’è pos-sibile che una torta intera abbia un nome che comincia con “semi”, un pre-fisso che significa “metà”? E che quel prepre-fisso stia davanti a “breve”, il con-trario di “lungo”? Com’è possibile che il valore massimo, a cui corrisponde una figura intera, abbia un nome che vuol dire “metà di breve”? Dov’è, e che forma ha, la breve? Dov’è, e che forma ha, la lunga? Ovviamente dal basso del suo metro e dispari il futuro autore di questo libro non ebbe il coraggio di fargliele, al maestro dal dolcevita nero, queste domande. Se le tenne per sé, e dopo un po’ se le scordò. Ma il fatto che esse gli siano rimaste dentro, e che a distanza di decenni gli si siano ripresentate con urgenza immutata, è una prova eloquente del prodursi nella sua mente del fenomeno che dà il titolo al presente paragrafo: un trauma infantile.
Doppio e metà.
Dinanzi al profilo destabilizzante di un segno tondo il cui nome significa
“metà di breve”, le possibilità sono due: farsi qualche domanda o non far-sene nessuna. Noi per adesso scegliamo questa seconda strada, e formati all’umano insegnamento del maestro dal dolcevita nero lo seguiamo nella sua illustrazione del sistema diffuso da secoli nella civiltà musicale dell’Oc-cidente. Prima di farlo, però, occorre precisare come la dottrina impartita senza attitudine particolarmente critica nella maggior parte degli istituti preposti all’educazione musicale nel nostro paese corrisponda alle necessità di chi intenda entrare a far parte di una banda; meno a quelle di chi ambisca a intonare salmi in un monastero, cantare polifonia sacra nella Cappella
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Sistina, suonare Beet hoven in un’orchestra sinfonica, esibirsi sul palco di un concertone rock. Il componente di una banda, civica o militare che sia, deve imparare a suonare – sovente marciando – uno strumento a fiato o a percussione leggendo una particella collocata su un minileggio montato sul bordo del tamburo su cui rulla o a metà del tubo in cui soffia. Dunque, è bene che a costui o a costei arrivino poche informazioni possibilmente espresse in modo chiaro.
Per quanto attiene al metro, elemento che è tanta parte della musica per banda, nel sistema oggi vigente i valori stanno fra loro in rapporto o di doppio o di metà; ovvero, a partire dal più grande si dividono come il binario quando incontra lo scambio, e a partire dal più piccolo si aggiogano come i buoi quando è il momento di arare.
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La divisione binaria è funzionale alla musica collegata alla vita militare, scandita da marce, cortei e sfilate e in quanto tale vincolata alla struttura digitale del corpo umano. La musica per banda è intessuta sovente su metri binari, ovvero su un’organizzazione del tempo basata sul ritorno periodico di uno schema che alterna un tempo forte a un tempo debole. Basta aver vi-sto il Libro della giungla (The Jungle Book, Wolfgang Reitherman, 167) per avere impressa nella memoria la voce del colonnello Hathi quando guida gli elefanti nelle loro ispezioni nella foresta. “Unò” è il tempo forte e “duéee”
è il tempo debole: a mano a mano che il comandante esige un’accelerazio-ne l’alternanza non muta ma la durata dei valori sì. Il modo più semplice per produrre l’accelerazione è dimezzarli, determinando così un raddoppio della velocità. Ecco, i valori codificati dal sistema illustrato dal maestro dal dolcevita nero funzionano così.
Gli americani, che nel semplificare le cose hanno pochi rivali al mondo – prova ne sia la loro imbattibilità nel produrre cartoni animati –, dinanzi al problema di dividere la whole note non hanno esitazioni: half note, “mezza nota”. Sempre in riferimento alla nota, le denominazioni successive proseguo-no con gli ordinali corrispondenti: quarter, eighth, sixteenth, thirty-second, sixty-fourth note. I tedeschi, che ancor oggi costituiscono la quota prevalen-te dell’emigrazione europea verso il Nuovo Mondo, non sono da meno: la Ganze (“intero”) si divide in due Halben (“metà”), ogni Halbe si divide in due Viertel (“quarti”), e via dimezzando. Sette valori per altrettante durate, dall’intero al sessantaquattresimo: 1, 1/, 1/4, 1/, 1/16, 1/ e 1/64. Sette, set-te come le noset-te; e non perché non si possa proseguire (nulla vieta di dividere in due il sessantaquattresimo), ma perché per le esigenze della truppa, ovvero della banda, va bene così. Per quanto esigente, nessun colonnello – nemmeno Hathi – pretenderà mai che i suoi soldati marcino centoventotto volte più veloci di quando camminano; già sessantaquattro o anche solo trentadue non è impresa da poco. Allo stesso modo, nessun direttore di banda esigerà che il suo tamburino rulli centoventotto volte più rapido di quando scandisce il passo, e men che meno che un clarinettista disegni arabeschi muovendo le di-ta come un colibrì muove le ali. Dunque, sette valori per sette durate, sicut est.
Punti di vista.
E veniamo adesso ai nomi che le figure assumono in italiano: non per in-fliggerci una sofferenza gratuita, dato che anche da noi intero, quarto ecc.
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sono termini ormai diffusi, ma per imparare alcune cose interessanti celate sotto la superficie del sistema:
Figure Valori Nomi
𝅝 1/1 semibreve
𝅗𝅥 1/ minima
𝅘𝅥 1/4 semiminima
𝅘𝅥𝅮 1/ croma
𝅘𝅥𝅯 1/16 semicroma
𝅘𝅥𝅰 1/ biscroma
𝅘𝅥𝅱 1/64 semibiscroma
La colonna centrale elenca le frazioni. Per ognuna di esse la colonna di si-nistra presenta la relativa figura. Scorrendo tale colonna si osserva come anche tra le figure viga un criterio additivo: partendo dall’ovale vuoto (1/1), si osserva prima l’aggiunta di un gambo (1/) e poi l’annerimento dell’ovale (1/4). Dopodiché la successione si fa più regolare; a ogni ulteriore dimezza-mento corrisponde l’aggiunta di un uncino: uno (1/), due (1/16), tre (1/) e quattro (1/64). Ancorché meno lineare di quello dei valori, il sistema delle figure presenta un grado di regolarità relativamente confortante. Osservan-dolo sotto l’aspetto puramente grafico vi si può ravvisare il modello 1--4:
un ovale, detto anche testa; due teste con gambo; quattro teste con gambo e un numero crescente di uncini. Veniamo adesso alla colonna di destra.
Anche qui si può ravvisare il modello 1--4: il nome – semibreve – che ha turbato l’infanzia dell’autore di questo libro, due nomi accomunati dalla presenza della parola “minima” e quattro dalla parola “croma”. Però gli in-terrogativi che un sistema del genere suscita sono tanti. Vediamone alcuni.
Se il valore massimo si chiama oggi semibreve, in passato devono essere esistite quanto meno una breve e una lunga. Supposizione corretta, un tem-po esistevano la brevis e la longa. Minima e semiminima intrattengono un rapporto di doppio e di metà. Vero, ma se esiste la minima da qualche parte deve esistere la massima, e la massima dov’è? Un tempo esisteva anche la maxima, collocata quattro gradini più in alto della semibreve; dunque fuori dal sistema attuale, la cui situazione è simile a quella dell’Ordine di san Fran-cesco di Paola, il quale prevede i frati minimi ma non i frati massimi. Croma:
questo nome sembra alludere alla presenza del colore, che tuttavia è già com-parso nel simbolo precedente, quello che introduceva il nero nella testa della minima, creando così la semiminima. E qui il fascino della storia aumenta.
Fino al secolo in cui fu inventata la stampa, la musica si scriveva
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valentemente su pergamena. Dato il costo molto elevato di tale supporto (per produrne un metro quadro occorreva sacrificare in media otto pecore), il libro musicale era un prodotto alquanto raro. In alcuni casi l’esigenza di non sprecare nemmeno un millimetro quadro della preziosa superficie determinava una notazione minuta e compressa; in altri, quando il libro era destinato a un uso collettivo e il committente aveva maggiori disponibilità di denaro, si producevano libri in cui le parole e le note erano scritte grandi, i margini erano ampi e i capilettera talvolta istoriati. La situazione cominciò a mutare verso la metà del Quattrocento, quando la pergamena raggiunse prezzi insostenibili. La soluzione fu il ricorso alla carta, la quale presentava però un problema: essendo fragile e sottile, lasciava trapassare l’inchiostro.
L’inconveniente fu superato mediante due accorgimenti, l’uso di pennini più fini e l’impiego di minori quantità d’inchiostro; ma la soluzione generò un inconveniente ulteriore.
Fin da inizio Trecento sulla pergamena si tendeva a distinguere le note anche mediante l’uso del colore, rispettivamente rosso e nero. I motivi per cui si adiva a tale pratica erano diversi, ma non è il caso di passarli in rassegna tutti; in prevalenza lo si faceva al fine di distinguere raggruppamenti di va-lore ternario da raggruppamenti di vava-lore binario. La cosa da sapere qui è la seguente: sulla carta l’impiego di due colori avrebbe ingigantito il problema della percolazione d’inchiostro, ragion per cui gli scribi pensarono bene di limitare i danni ripristinando la monocromia. Il nero rimase tale, ma il rosso divenne bianco; o meglio, le teste delle note rosse furono tracciate con inchiostro nero limitatamente al loro contorno. Apparentemente riso-lutiva, questa scelta comportò un problema in merito alle classi di valore.
Dotate di un valore più piccolo di quello delle note nere, le note rosse erano più rare; quando al rosso subentrò il bianco, nei manoscritti in cui il nero continuava a essere impiegato come colore di base si rischiava di avere molte note nere e poche note bianche; e ciò avrebbe continuato a costituire una minaccia per il supporto cartaceo. Dunque, nella consuetudine scrittoria s’instaurò la prassi opposta, per cui le note bianche avrebbero assunto un valore maggiore rispetto alle note nere, risultando prevalenti.
Nel nuovo scenario la nota di maggior valore era bianca e quella di mi-nor valore era nera. Le strategie per indicare la suddivisione successiva non furono uniformi. In alcune fonti comparve l’uncino (in latino fusa, che per estensione divenne il nome della figura); in altre, malgrado i problemi che avrebbe potuto causare, fu reintrodotto il colore rosso. Dunque, in alcuni manoscritti di fine Quattrocento la nota bianca ha per sottomultiplo la nera, la quale ha per sottomultiplo la rossa: la nota colorata, la croma. A
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quel tempo, quando la notazione riguardava in via prioritaria il repertorio polifonico vocale, era difficile ipotizzare il ricorso a un valore più piccolo.
Superata una certa velocità la lingua s’attorciglia e il testo diviene incom-prensibile o genera effetti comici del tutto inadatti per l’esecuzione di una messa, di un mottetto o di un madrigale. Gettando uno sguardo sul teatro musicale, si pensi a Leporello quando illustra a donna Elvira il catalogo delle donne di cui don Giovanni «fa conquista / pel piacer di porle in lista»;
o a Figaro – quello immortalato da Rossini nella sua attività di sensale di matrimoni, non quello presentato da Mozart nell’imminenza delle nozze con Susanna – quando irrompe in scena mitragliando versi intercalati a sequenze onomatopeiche («Laralarà, laralalero...»).
Per gli strumenti il discorso è diverso: sui fori, sui tasti e sulle corde le dita viaggiano più spedite di quanto facciano le voci sulle parole, agevolate come sono dal fatto di dover produrre suoni senza dover sgranare sillabe.
Dunque, per prescrivere il compito ai vari esecutori i valori inferiori alla croma sono indispensabili; non potendo attingere a una vasta gamma di colori, nel caso degli strumenti si preferì optare per l’aggiunta degli uncini ai gambi collegati alle teste: due, tre, quattro, all’occorrenza anche di più.
Gli elenchi di figure e di nomi nelle colonne esterne della tabella pre-cedente rispecchiano una gerarchia di valori adeguata anche per la scrittura vocale, ma pensata per quella strumentale. Il repertorio vocale medievale e rinascimentale abbisogna raramente di valori inferiori al sedicesimo ma so-vente di valori superiori all’intero. Quindi, ancora una volta un insieme di sette elementi si rivela non solo composito ma anche espandibile, se osservato in prospettiva storica. Il paragone più efficace è quello coi Colli di Roma: la longa e la brevis sono un po’ come il Quirinale e il Viminale, esclusi dal novero al tempo di Costantino al fine di includervi il Vaticano e il Gianicolo.
Latino Italiano Francese Inglese (uk) Tedesco Inglese (usa)
maxima massima maxime large Maxima large
longa lunga longue long Longa long
brevis breve brève breve Brevis double whole note
semibrevis semibreve semi-brève semibreve Ganze whole note
minima minima blanche minim Halbe half note
semiminima semiminima noire crotchet Viertel quarter note
fusa croma croche quaver Achtel eighth note
semifusa semicroma double croche semiquaver Sechzehntel sixteenth note – biscroma triple croche demisemiquaver
Zwei-und-dreißigstel thirty-second note – semibiscroma quadruple
croche
hemidemi-semiquaver
Vier-und-sechzigstel sixty-fourth note
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Un’occhiata ai termini in uso nelle principali lingue dell’Occidente mostra come l’American English e il tedesco procedono in maniera rettilinea dalla semibreve in poi, recuperando i valori antichi in modo retrospettivo. L’in-glese British elabora invece un modello in cui l’uncino (crotchet, dal fran-cese croche) denomina una figura in cui l’uncino non c’è: l’incongruenza rimonta allo smottamento da minima a semiminima prodottosi in Europa al tempo in cui la carta sostituì la pergamena. Poi inventa un nome, quaver, che allude alla vibrazione provocata dalla rapidità del valore corrisponden-te, il che la dice lunga sul divario di sensibilità fra allora e adesso; dopodiché lo sminuzza a colpi di prefissi grecizzanti. Con la coppia blanche e noire il francese tiene viva la memoria della storia della notazione antica, dopodi-ché introduce l’uncino (croche) e descrive senza troppe complicazioni le figure corrispondenti. La lingua della Commedia dell’arte segue infine la progenitrice latina sino al livello della semiminima; poi, anziché continuare chiamando la fusa col suo nome moderno, uncino, passa a considerare il colore: e di lì, dopo aver messo in fila croma e semicroma, s’inventa le de-finizioni baroccheggianti di biscroma e di semibiscroma, cucendo prefissi quasi fossero pezze per un costume di carnevale.
agmen
Marce, valzer e cori da stadio
Neujahrskonzert, rito televisivo d’inizio anno ovvero Concerto di Capo-danno: un’ordalia di marce, polke e valzer tradizionalmente conclusa dal Radetzky-Marsch, eseguito dall’orchestra “diretta” dal pubblico che affol-la il Musikverein, il grande salone viennese impreziosito dagli stucchi do-rati. Dopo due ore di concerto, quando arriva il momento del Radetzky- Marsch il direttore dà l’attacco e posa la bacchetta, incrocia le braccia e osserva compiaciuto, come un vero feldmaresciallo, la truppa che avan-za intrepida fra le note di Johann Strauss, il maestro che s’incaricò di notificare al mondo il punto di vista asburgico sulle Cinque giornate di Milano4. Battendo le mani, il pubblico rinserrato negli scranni scandisce quello che sarebbe il suo passo, se potesse distendere le gambe; eseguendo la melodia, l’orchestra dei Wiener Philharmoniker scandice intanto la formula ritmica “tra-ra-tà, tra-ra-tà, tra-ra-tà, bum, bùm”.
La struttura metrica che innerva la melodia di questo pezzo celeberri-mo esemplifica la suddivisione binaria connaturata al genere della marcia.
Battendo le mani il pubblico scandisce il passo allineandosi all’artiglieria
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pesante (ottoni, fagotti, contrabbassi, grancassa ecc.); altre percussioni e al-tri archi aggiungono l’impulso che cade a mezza via fra due battiti di mani;
gli strumenti più piccoli (flauti, oboi, clarinetti, violini) conducono infine la melodia speziandone l’attacco con un pizzico di paprika. Il risultato è un palinsesto in cui l’artiglieria pesante marcia al passo (“tà - - - tà - - - ...”), gli strumenti mediani al suo doppio (“ta - tà - ta - tà -...”) e quelli leggeri al suo quadruplo (“traratà - traratà -...”).
tra- ra- tà - tra- ra- tà - tra- ra- tà bum bùm
-1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
ta - tà - ta - tà - ta - tà bum bùm
-
- - tà - - - tà - - - tà - - - bùm
4 4 4
Scorrendo la prima riga si può provare a canticchiare la melodia; essen-do notissima, per richiamarla senza perderne la quadratura è sufficiente un accenno alla struttura metrica. Si noterà come il primo tempo forte, corrispondente al “tà” scandito dagli strumenti gravi, sia preceduto da uno debole su cui gli strumenti latori della melodia producono i suoni equi-valenti a “trara-”. L’attacco sul tempo debole ovvero in levare rispecchia il movimento del fante che incomincia a marciare, levando il piede (“trara-) e poi battendolo a terra (“tà”). Battere e levare, tempo forte e tempo debole,
“unò-duéee”: modellata sulla natura del corpo umano, la marcia adotta il metro corrispondente. Per mettere su carta la musica della Marcia di
“unò-duéee”: modellata sulla natura del corpo umano, la marcia adotta il metro corrispondente. Per mettere su carta la musica della Marcia di