• Non ci sono risultati.

Biomeccanica dei costituenti rachidei

4.2 Elementi di controllo passivi .1 Disco intervertebrale

4.2.3 Articolazioni apofisarie

Le faccette articolari sono delle diartrosi, cioè articolazioni in cui esiste sempre un piccolo spazio fra le superfici ossee articolari; sono costituite da due superfici articolari piane, capaci di un movimento relativo di scivolamento (artrodie). Esse sono poste simmetricamente sui massicci processi articolari superiore e inferiore dell’arco vertebrale e svolgono, contemporaneamente, funzioni statiche e cinematiche. Le Fig. 4.10, Fig. 4.11, Fig. 4.12, Fig. 4.13 illustrano esempi su modello dell’organizzazione delle articolazioni apofisarie lombari e delle geometrie assumibili dagli spazi tra le faccette.

Le superfici articolari superiori del tratto toracico del rachide sono orientate all’indietro, lievemente inclinate lateralmente e verso l’alto; quelle inferiori sono invece orientate in avanti e lievemente inclinate all’interno e verso il basso. Tale disposizione è idonea a consentire sia la flessione laterale sia la torsione, mentre tendono a opporsi alla flessione in estensione.

Nel rachide lombare, fatta eccezione dell’articolazione lombo-sacrale, la loro disposizione è quasi ortogonale al piatto vertebrale. Le superfici articolari superiori sono orientate verso l’interno e leggermente rivolte in direzione posteriore, mentre quelle inferiori sono orientate verso l’esterno e rivolte leggermente in direzione anteriore.

In postura eretta verticale la loro funzione è di opporsi alle azioni orizzontali di scivolamento tra le vertebre e quindi alle forze di taglio nei dischi, mentre nella flessione esse rilevano una Tabella 4.2

LG 61.5 78.6 28.8 70.6 102.0 83.1

LI 59.4 119.7 51.5 96.5 87.4 52.9

LS 75.0 83.4 70.6 109.4 106.3 115.1

quota importante dei

elevati oppure nelle flessioni o nella iperlordosi, comunque generate, la perdita di pressuriz-zazione del nucleo provoca abbassamento del disco e la conseguente presa di contatto tra le faccette, con mutuo trasferimento di forze anche notevoli. Nel movimento in estensione si assiste a uno sviluppo progressivo nella rotazione relativa tra le vertebre, che cessa con il contatto tra le faccette. Tale contatto si realizza per momenti, in estensione, di circa 4 Nm.

In sintesi, si può affermare che le faccette articolari:

• consentono il movimento di flessione sul piano sagittale con valori medi di 40°-50° in flessione e di 30° in estensione;

• limitano il movimento di flessione sul piano frontale di valore medio 20°;

• si oppongono al movimento di torsione sul piano trasversale che invece è incremento dopo l’eliminazione chirurgica delle faccette;

• si oppongono allo scorrimento relativo tra le vertebre; applicando forze di taglio dell’or-dine dei 700-1000 N si produce la frattura delle faccette. Nel caso siano mancanti perché rimosse, le stesse forze sono in grado procurare il cedimento del disco.

Nella postura eretta fisiologica il carico verticale grava essenzialmente sulla catena costi-tuita dalla sequenza corpo vertebrale-disco; in caso di sovraccarichi o di errato atteggiamento posturale il trasferimento di una quota di tale forza alla parte posteriore della CV può avvenire, senza troppi problemi per la fisiologia, per una frazione pari fino al 30% (Nachemson 1981: 93).

Fig. 4.10 Fig. 4.11

Fig. 4.12 Fig. 4.13

Le cartilagini delle faccette articolari sono spesso in contatto statico o cinematico, compresse tra loro anche con forze notevoli e questo produce pressioni locali anche molto elevate, fonti di BP di tipo meccanico.

Le conclusioni sono che i dolori articolari possono avere origini differenti che vanno dalle osteoartriti alla sensibilizzazione continua dei meccanorecettori presenti sulle faccette, ma sono sempre costantemente attribuibili a cause meccaniche. Per questo motivo le faccette articolari si dimostrano essere importanti elementi coinvolti nell’origine del BP.

Lo studio della biomeccanica delle faccette articolari si è reso concreto solo con la messa a punto di sistemi capaci di misurare le forze trasmesse tra le zone di contatto. I metodi di-retti utilizzano dei trasduttori posti in siti adiacenti alle zone di carico mentre quelli indidi-retti calcolano gli sforzi attraverso la misura di altri parametri relazionati ai carichi o eseguendo simulazioni su modelli.

Da questi studi si evince che i massimi carichi sulle faccette si riscontrano sempre sotto l’azione dei momenti flettenti in estensione, mentre quelli minimi nella flessione anteriore.

Per momenti in estensione d’intensità modesta il punto di contatto della faccetta è presso-ché al centro dell’apofisi articolare inferiore della vertebra, mentre con l’aumento del momento applicato il contatto si sposta rapidamente verso il bordo inferiore.

Non sono molti i valori noti reperibili in letteratura riguardanti le forze di contatto tra le faccette.

Nel movimento in estensione, per carichi assiali di 300-400 N e momenti di 3.0-3.8 Nm, sono suggerite forze di contatto di 90-140 N.

Per la flessione laterale la forza di compressione sembrerebbe in rapporto quasi lineare col momento di 25-35 N per ogni Nm.

Nel caso della torsione si può ritenere una buona stima assumere la seguente proporzione:

forza di compressione sulla faccetta (N) = (5-7) x momento torcente (Nm)

La cartilagine articolare è un tessuto facilmente deformabile, con un contenuto in acqua di idratazione del 60%-85% e con una rigidezza assai bassa, inferiore di un ordine di grandezza rispetto a quello dell’osso spongioso su cui aderisce e che ne condiziona il comportamento. L’ac-qua è contenuta in micropori aperti e connessi tra loro che, L’ac-quando la cartilagine è sottoposta a deformazione, ne permettono la fuoriuscita. La resistenza alla compressione è dell’ordine dei 15 MPa, mentre quella a trazione, in senso radiale, è di @ 1.5 MPa. Tuttavia tali valori sono del tutto indicativi e non è da dimenticare che la cartilagine aderisce all’osso spongioso che compartecipa alla funzione strutturale.

A parità di volume la cartilagine è molto più efficiente dell’osso spongioso nell’attenuare i carichi impulsivi e la sua capacità di assorbimento di energia elastica è circa 10 volte superiore.

Ma per l’esiguità del materiale cartilagineo presente sulla faccetta articolare, è normale che la prestazione di attenuazione di un impulso debba essere svolta in modo preponderante dall’osso dell’apofisi, sistema molto deformabile anche dal punto di vista massivo in quanto costituito da una struttura che opera come una mensola a sbalzo, una vera e propria balestra.

A causa della limitatezza dell’area di contatto, durante il movimento dell’articolazione di scorrimento sotto carico si produce una deformazione elastica a forma di onda sulle superfici delle cartilagini, con conseguente flusso interstiziale dei fluidi interni, fenomeni di pressuriz-zazione dei microalveoli e di dissipazione di energia per flusso viscoso.

Si stima che l’articolazione di una vertebra subisca mediamente qualche milione di cicli di carico ogni anno solo come conseguenza delle oscillazioni del tronco che accompagnano la deambulazione; questo produce un’intensa attività di contatto tra le faccette perciò è possibile che le superfici articolari inneschino microfratture da fatica che, se nel tempo riescono ad ac-cumularsi e propagarsi, evolvono sicuramente in danni articolari e dolore.

Se il tasso di danneggiamento procede più velocemente di quanto le cellule siano capaci di riparare i tessuti offesi, l’accumulo dei danni provoca il cedimento della struttura.

È doveroso però ricordare che se le capacità di ripristino biologico delle usure diffuse sono buone, le possibilità di riparazione di danni cartilaginei localizzati sono assai più limitate e che la gravità del cimento articolare non dipende soltanto dall’intensità delle forze agenti nel sito, ma anche dall’estensione delle aree di contatto, dalla loro capacità di mutuo adattamento sotto carico (rigidezze locali), dalle geometrie delle superfici poste a confronto e dalle condizioni di lubrificazione.

Ne segue che ogni alterazione della geometria anatomica del sito, prime tra tutte le asim-metrie posturali, costituisce una potenziale aggravante della situazione di sforzo.

L’abitudine al movimento sotto carico congruo (postura fisiologica), invece, produce l’iper-trofia permanente delle cartilagini articolari. Un altro meccanismo di aumento dello spessore della cartilagine, però soltanto momentaneo, si instaura all’atto dello svolgimento di un’attività fisica; la spiegazione del fenomeno è data dall’incremento di liquido interstiziale che è catturato dalla fase solida del tessuto in seguito all’eccitazione meccanica indotta dal moto stesso. Dato che l’incremento di volume è dovuto a una fase liquida, ne conseguirà una forte riduzione della rigidezza della cartilagine stessa che aumenta la sua deformabilità. Quando sarà sottoposta a carichi di compressione, tale struttura si deformerà di più offrendo un’area d’appoggio assai maggiore e quindi ridurrà lo stato di sforzo generato al suo interno.

Il meccanismo descritto diventa prezioso per ridurre il pericolo di traumi e di manife-stazioni dolorose nelle articolazioni quando devono essere impegnate in movimenti estremi in situazioni prevedibili e programmabili. Infatti una fase di riscaldamento mirato porta le superfici articolari in una situazione ottimale che è paragonabile, per quanto riguarda l’im-patto sulla struttura cartilaginea, a una notevole riduzione delle tensioni strutturali a parità d’intensità delle forze agenti.

Quando la frequenza temporale di applicazione dei carichi è bassa, la matrice della cartilagine è in grado di rispondere in deformazione completa alla variazione del carico senza che si mani-festino grandi pressioni generate dal fluido catturato nei pori. Se invece la frequenza cresce, la risposta in deformazione non può essere veloce perché non vi è tempo sufficiente per consentire gli efflussi dei fluidi attraverso gli interstizi e si ha un aumento di pressione nella cartilagine.

All’aumentare della velocità dell’applicazione del carico, ma anche diminuendo gli effetti smor-zanti, questo comporta un aumento della capacità di carico e d’irrigidimento della cartilagine.