Biomeccanica dei costituenti rachidei
4.2 Elementi di controllo passivi .1 Disco intervertebrale
4.2.1.2 Stato del disco e sforzo trasmesso nel corpo vertebrale
In un soggetto giovane il disco ha la parte centrale costituita da un nucleo polposo assimilato a un fluido incomprimibile imprigionato, superiormente e inferiormente, tra i piatti vertebrali e, circonferenzialmente, dagli strati concentrici dell’anello fibroso. Tutte queste superfici di contenimento del nucleo sono caratterizzate da una bassa rigidezza; perciò quando il sistema è sottoposto a compressione si assiste a un incurvamento del piatto vertebrale, che accoglie come una coppa il nucleo, e a un aumento radiale dell’anello fibroso con effetto di rigonfiamento.
L’azione della compressione verticale pressurizza il nucleo polposo e lo trasforma in un corpo lenticolare rigido che preme al centro del
piatto vertebrale. Questo è contrastato, nel suo effetto dell’incurvarsi, dall’aderenza in continuità con il materiale osseo spongioso del corpo vertebrale. È proprio la struttura poco rigida dell’osso di riempimento della vertebra, dovuta alla geometria trabecolare, che consente una ridistribuzione della forza di compressione su di una vasta area d’ap-poggio riducendo così i pericolosi picchi di tensione locale. La Fig. 4.8 illustra le sezioni sagittali del disco intervertebrale lombare che mostrano la distribuzione qualitativa dello sforzo di compressione trasmesso al piatto vertebrale in differenti condizioni:
• caso del disco ben idratato di un giovane con distribuzione uniforme dello sforzo, anche nel caso di piatti non tanto paralleli;
• caso di un disco con ridotta pressu-rizzazione che evidenzia i contatti duri sul profilo dell’anello;
• caso di un disco gravemente de-generato che non è più in grado di reggere carichi sul nucleo polposo e ha trasferito la funzione meccanica
soltanto all’anello. Fig. 4.8
Gli eccessi di carico possono produrre danneggiamenti nell’osso spongioso fino al cedimento di un certo numero di trabecole; è anche vero però che, per le caratteristiche della struttura trabecolare stessa fatta di pieni nettamente separati da cavità, è assai difficile che ciò possa produrre l’innesco di una fessura di frattura capace di espandersi. Un’altra notevole proprietà dell’osso spongioso vertebrale consiste nel fatto che quando è sottoposto a danneggiamento per eccesso di carico di compressione riduce la sua rigidezza più rapidamente di quanto diminuisce la resistenza. Ciò significa che il manifestarsi di un cedimento locale produce automaticamente la riduzione dello stato di sforzo nel sito e questo può essere sufficiente a contenere il propagarsi del danno. Anche nel caso di carichi dinamici e impulsivi (urti) tale sistema si rivela provviden-ziale per limitare i danni.
Man mano che il disco degenera diviene sempre più inadeguato a trasferire frazioni impor-tanti della forza assiale di compressione direttamente attraverso il nucleo polposo e la deflessione del piatto vertebrale. L’effetto della degenerazione è di spostare, attraverso il tessuto dell’anello, la via di trasmissione dei carichi verso la periferia del corpo vertebrale, sui bordi dei piatti e nelle pareti d’osso corticale del corpo della vertebra.
Lo scambio di sostanze con il disco intervertebrale avviene attraverso tutte le superfici di contorno: piastre cartilaginee, anello fibroso, tessuti paravertebrali e spongiosa delle vertebre.
La nutrizione attraverso la cartilagine, situata tra il disco e il corpo vertebrale, è importante per il buono stato di salute del nucleo; la cartilagine è porosa e sottile e fornisce una via attraverso la quale i metaboliti possono entrare nel disco, preferenziale rispetto a quella esistente attraverso l’anello fibroso esterno. Si è osservato che nei soggetti colpiti da scoliosi, a causa degli sforzi localizzati, la cartilagine si presenta spesso calcificata e quindi perde di permeabilità, riducendo il trasporto globale dei soluti e quindi il nutrimento al nucleo.
Quando il disco è depressurizzato si perde il comportamento idrostatico e gli sforzi si concen-trano negli strati anulari del disco. La perdita di spessore, con relativa limitazione dell’efficacia della reidratazione, ha conseguenze negative per la meccanica, la nutrizione del disco stesso e per il carico sulle articolazioni delle apofisi, che risultano più sollecitate.
Nel caso di pressioni non simmetriche sull’area del disco, il fenomeno di scambio si diffe-renzia localmente, secondo i valori locali di pressione. È molto importante rilevare che questo meccanismo tende a favorire, nell’immediato, l’alterazione della geometria del disco, che si cuneizza, e a modificarne localmente la situazione metabolica; nel tempo fa degenerare il tessuto rendendolo disomogeneo da sito a sito.
I tessuti del disco e della vertebra risentono quindi delle posture alterate mantenute a lungo, anche se non ancora consolidate, e dunque amovibili, come i paramorfismi; perciò è possibile inibire il fenomeno e prevenire le situazioni di rischio favorendo precocemente il ritorno a posture corrette.
Riguardo alle conseguenze sull’osso, la perdita di pressione del nucleo scarica il centro del corpo vertebrale il cui materiale cessa di svolgere una importante funzione strutturale e viene riassorbito. Un maggiore riassorbimento osteoclastico, infatti, avviene ogni volta che è verificata l’inutilità meccanica dell’osso. Il riassorbimento della struttura trasecolare del corpo vertebrale provoca anche la distruzione del complesso sistema di microvascolarizzazione che alimenta la cartilagine del piatto vertebrale. Ciò è da ritenere la causa principale anche della calcificazione del piatto.
Per questo motivo, la riduzione di permeabilizzazione del piatto vertebrale è la pro-va del già avvenuto trasferimento del carico pressorio sul contorno periferico del corpo vertebrale.
Queste proprietà fondamentali del disco ci fanno comprendere quanto siano pericolose le posture incongrue fisse e prolungate che alterano i tessuti della CV generando il BP. Nello stesso tempo ci indicano la possibilità di miglioramento delle situazioni di rischio se si favorisce
il ritorno a posture corrette e a una fisiologica distribuzione dei carichi. Questo deve avvenire a partire dall’età evolutiva e per tutto il corso della vita, nelle normali attività della giornata, durante il lavoro, l’esercizio fisico e lo sport.
4.2.2 Legamenti
I legamenti svolgono una funzione di controllo passivo dei movimenti rachidei. Tale affermazione è da in-terpretarsi nel senso che i legamenti si comportano come delle molle capaci di grandi deformazioni crescenti con l’aumentare delle forze applicate in trazione; quindi si devono ritenere dei sistemi capaci di una reazione meccanica progressiva sviluppata in proporzione (non lineare) alla
defor-mazione (allungamento) raggiunta (Fig. 4.9).
Nel compartimento anteriore della CV esistono due legamenti, longitudinale anteriore LA e posteriore LP, che si estendono come due fasce continue dalla parte cervicale a quella lombare, avvolgendo come guaine i corpi vertebrali e i dischi. Però il LP, passando da L2 a L5, si restringe progressivamente sui lati riducendosi a una piccola zona centrale; in tal modo rimangono scoperte delle frazioni laterali dei dischi lombari, sempre più ampie proseguendo verso il basso. Proprio in tali zone non protette dalla fasciatura dal legamento, si osservano i casi più frequenti di erniazione del disco.
Si deve a Pintar (Pintar et al. 1992: 1351) una importante ricerca sperimentale su cinque rachidi lombari intatti orientata a definire le proprietà biomeccaniche delle fibre dei LA, LP, giallo (LG), interspinosi (LI) e sopraspinosi (LS). Si sono così definite le aree medie delle sezioni resistenti e le lunghezze, in condizioni di riposo, dei legamenti da T12-L1 fino a L5-S1.
I risultati sono che i LA hanno elevate rigidezze, necessarie per sviluppare grandi forze con piccoli allungamenti, e consentono di contrastare efficacemente l’aumento della curvatura in lordosi del rachide lombare. Questa caratteristica crea opposizione all’aumento della cuneizza-zione dei dischi, ritarda il contatto tra le faccette articolari e, nel contatto, riduce la pressione che agisce sulle cartilagini stesse. Valori di rigidezza più modesti renderebbero inutile la loro funzione di tiranti perché il carico sarebbe rapidamente trasferito alle faccette articolari. Elevati valori di rigidezza si riscontrano anche nei LS, molto efficaci nell’opporsi alla flessione anteriore perché hanno anche il vantaggio di operare con un braccio di leva notevole.
Si riscontrano resistenze diverse tra tipi di legamenti e loro localizzazioni fino al rapporto di 20 a 1, a prova della eterogeneità delle proprietà meccaniche sviluppate dai legamenti nei vari siti. Questi valori definiscono la qualità, in termini di resistenza, della fibra del legamento mentre per definire la resistenza di tutto il legamento bisogna anche tenere conto delle sue dimensioni o area della sezione resistente.
Nella Tab. 4.2 sono riportati i valori, espressi in N., delle sollecitazioni limite sostenibili dai legamenti e dunque le forze, che, mediamente, sono in grado di produrre il cedimento dei vari legamenti (Schendel, Wood 1993: 427). Nella Tab. 4.3 sono riportati i valori della defor-mazione al cedimento espressa in percentuale di allungamento che si ottiene confrontando la lunghezza raggiunta dal legamento al momento della rottura con quella iniziale a riposo. Tale dato è collegato direttamente all’entità della deformazione e quindi al movimento in grado di indurre il danno tessutale.
Fig. 4.9
Si rammenta che dall’e-sterno non siamo in grado di percepire le forze in gioco mentre può essere eseguita rotazione. I legamenti posteriori, lontani dall’asse della CV, hanno la proprietà di essere capaci di allungarsi notevolmente, dote indispensabile per consentire la flessione anteriore.
Contemporaneamente il LA presenta elevata rigidezza e resistenza meccanica, doti assoluta-mente indispensabili per opporsi a momenti di forze che provocano l’estensione con riduzione del raggio di curvatura della lordosi lombare. Infatti, poiché opera con un piccolo braccio di leva, il LA sarà sottoposto a sforzi intensi, quindi deve essere resistente; inoltre, essendo vicino all’asse di rotazione, deve anche essere rigido per fornire un contributo efficace per minimizzare la rotazione di estensione, altrimenti non sarebbe in grado di opporsi alla generazione della iperlordosi lombare.