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Rachide lombare in movimento e in equilibrio

Cenni di biomeccanica strutturale e cinematica rachidea

3.3 Rachide lombare in movimento e in equilibrio

I corpi vertebrali del tratto lombare raggiungono le dimensioni massime riscontrabili nella CV congruentemente alla loro funzione di elemento strutturale su cui vengono a gravare i carichi maggiori. Nella sezione orizzontale il corpo vertebrale e il disco assumono un profilo reniforme o a fagiolo (Fig. 3.15, Fig. 3.16) (Fig. 3.17, Fig. 3.18). Nel tratto lombare la forza di compressione aumenta e per impedire un’eccessiva crescita dello sforzo sul piatto, che è l’elemento debole del sistema, la sezione d’appoggio del corpo vertebrale, Av, tende a crescere di superficie, scendendo verso il basso. Il modulo di resistenza a flessione laterale, Wz, cioè il parametro per cui viene diviso il valore del momento flettente laterale Mz per ottenere la tensione delle fibre più esterne dell’anello (tensione max fibre laterali = Mz/Wz), è molto superiore rispetto a Wx che ha lo stesso significato, per le fibre posteriori dell’anello, nel caso delle flessioni anteriori.

Il fatto che sia Wz >> Wx permette di ridurre lo sforzo sul contorno destro-sinistro del disco sotto flessione laterale. Nel tratto dorsale, per la presenza della gabbia toracica, non occorre che sia Wz > Wx. Il valore più modesto di Wx non è critico se muscoli e legamenti agiscono efficacemente contro la flessione anteriore.

La forma a fagiolo consente un migliore contrasto passivo alle azioni flettenti laterali e produce un aumento della rigidezza flessionale laterale del disco che, a parità di proprietà del materiale tessutale, si ottiene per incremento del momento d’inerzia della sezione discale rispetto l’asse di rotazione antero-posteriore. Si consideri che il rachide non gode, sul piano frontale, di meccanismi di contrasto attivo muscolare così efficienti come quelli che sul piano sagittale controllano le curve fisiologiche e la mobilità in flessione laterale è molto ridotta per l’interferenza reciproca esistente tra le superfici articolari posteriori.

Il piatto vertebrale presenta nella zona centrale una concavità, crescente col carico soppor-tato e spostata anteriormente, che favorisce una posizione di centralità del nucleo polposo del disco, contribuendo alla stabilizzazione generale della sezione lombare.

Il rachide lombare è caratterizzato dalla presenza delle massime apofisi, necessarie per con-sentire gli inserimenti di robusti fasci di legamenti e delle fibre muscolari. Le apofisi articolari

inferiori della vertebra sovrastante si incastrano all’interno delle apofisi articolari superiori della vertebra sottostante. Tale compenetrazione stabilizza lateralmente ogni vertebra e costituisce un elemento di controllo passivo del sistema in flessione laterale e torsione.

Le faccette articolari superiori e inferiori sono sagomate in modo tale da aderire alla superficie di un cilindro ideale, con asse verticale posizionato nell’inserimento dell’apofisi spinosa. Scen-dendo da L1 verso L5 il diametro di tale cilindro incrementa e il suo centro si sposta sempre più posteriormente rispetto al centro del corpo vertebrale. Perciò l’asse di rotazione non è mai coin-cidente col centro del disco ed è possibile eseguire una torsione del rachide lombare attorno a un asse che è sostanzialmente più rettilineo dell’asse ottenuto unendo i centri delle vertebre lombari.

Nella torsione del busto questo meccanismo corrisponde a una tendenza d’apertura a ventaglio dei dischi, di cui bisogna tener conto nel caso di ernia discale. Congruente con tale movimento è appunto la forma a fagiolo del piatto vertebrale.

Il disco si oppone energicamente ai movimenti di scivolamento che lo sottoporrebbero a un’azione di taglio. Dopo una rotazione tra due vertebre contigue di circa 2° si ha il contatto tra

Fig. 3.15 Fig. 3.16

Fig. 3.17 Fig. 3.18

le faccette articolari, contrasto passivo, che vengono a opporsi al moto di torsione. Il risultato finale è che il rachide lombare non è in grado di compiere grosse rotazioni in torsione sia nelle singole sezioni sia nella globalità; nei giovani circa si stimano i valori di ±1° in L1-L2 e L2-L3;

±1.5° in L3-L4 e L4-L5; ±0.5° in L5-S1. Per un adulto si può giungere a una rotazione di torsione di circa 10° di L1 rispetto al bacino, distribuita abbastanza equamente tra i vari distretti. Tutta-via anche le modeste torsioni sono in grado d’indurre le fibre più esterne degli anelli a grandi deformazioni, facilitando i meccanismi di degenerazione meccanica. I dischi raggiungono il massimo spessore e questo consente grande mobilità sul piano sagittale.

La vertebra L5 funziona da cerniera lombosacrale di collegamento con S1 e ha una geo-metria che deve mediare l’entità della lordosi lombare necessaria a compensare l’inclinazione del bacino. Per fare questo richiede una forma più o meno cuneiforme con vertice posteriore.

Per angolo sacrale si intende l’inclinazione della faccia superiore di S1 rispetto l’orizzontale ed è mediamente di 30°; è rispetto a tale piano inclinato che occorre definire le reazioni vin-colari del rachide al bacino. Per l’esistenza di un angolo sacrale diverso da zero, la vertebra L5 si trova ad agire appoggiata su di un piano inclinato che ne favorisce lo scivolamento in avanti verso il basso; ma la struttura è adeguata a sopportare tali sollecitazioni maggiorate almeno per condizioni fisiologiche, intensità delle forze e qualità dei tessuti rientranti nella norma. Tali reazioni, riferite ai tessuti coinvolti, generano però uno stato di sforzo notevole che nel tempo può divenire fonte di sintomatologia algica.

L’angolo formato tra l’asse di S1 e quello di L5 è di circa 40° e rappresenta la deviazione dalla rettilineità dell’accoppiamento vertebrale; il suo complemento a 180°, e cioè 140°, è noto in anatomia come angolo lombo-sacrale.

Rappresentando la risultante di tutti i carichi agenti sul tronco con una sola forza verticale F (Fig. 3.19) applicata nel centro del piatto di L5, quest’azione risultante può essere scomposta nelle sue due componenti ortogonali:

• una normale N, che esercita un’azione di compressione sul disco poggiante sul piatto di S1;

• una tangenziale T, che esercita un’azione di scorrimento pa-rallela al piatto di S1, portando la L5 a scivolare in avanti e verso il basso.

L’azione T è impedita dalle re-azioni dei sistemi passivi costituiti dalle apofisi articolari inferiori di L5 incastrate fra quelle superiori della S1. Le azioni di contatto, espresse da due forze simmetriche, devono avere risultante pari a T e giacere su di un piano coincidente con quello del disco, che così risulta scaricato.

Dette forze, agendo sulle apofisi arti-colari inferiori di L5, si trasferiscono al corpo vertebrale e sono in grado

di equilibrarlo. Ma per fare questo Fig. 3.19

sollecitano l’istmo vertebrale a trazione, a cui si somma una flessione come conseguenza del momento prodotto dal braccio di leva esistente; questo crea i presupposti per una possibile rottura del tessuto osseo dell’istmo, fenomeno chiamato spondilolisi.

In L4-L5 le forze di taglio sono più ridotte e si ha carenza dei sistemi di freno; la conseguenza è che, in caso di fenomeni di carico su tempi molto lunghi, si può parlare di usura di tale disco mentre il disco intervertebrale L5-S1 è più predisposto a cedimenti per sovraccarichi impulsivi.

A livello di L3 la freccia della lordosi lombare assume normalmente il massimo valore. La L3 è di conseguenza una vertebra a corpo sostanzialmente orizzontale e dotata di elevata mobilità.

Partendo dal basso, la L3 è la prima vertebra lombare a essere priva di legamenti collegati con il bacino; ne consegue che in posizione eretta il suo equilibrio è garantito dalla sua orizzontalità, dalla sua posizione al centro del corpo e dall’azione equilibrata dei muscoli su di essa inseriti. Se il disco intervertebrale L3-L4 è orizzontale viene gravato da forze verticali e sono praticamente assenti le pericolose sollecitazioni di taglio capaci di produrre scorrimenti relativi tra i corpi vertebrali. Un’obliquità del bacino, conseguenza di un errore posturale, che non consenta una sufficiente orizzontalità del piatto inferiore della L3, espone il disco L3-L4 a sforzo e a pericolo di cedimento per usura.

Da notare il pericolo di danneggiamento del disco lombare nel movimento di flesso-torsione;

esperienze in vitro indicano che per arrivare al danneggiamento sono necessarie rotazioni in torsione dell’ordine dei 20° sul singolo disco. Tali valori sono però incompatibili con la reale mobilità in torsione del rachide lombare, stimata mediamente non superiore ai 2° per ogni sezione articolare; eppure, nonostante ciò, i danni sono frequenti.

Hindle, Pearcy, Gill e Johnson (1989: 83) hanno sperimentato lungamente su soggetti viventi e su reperti anatomici lombari giungendo ad alcune conclusioni fondamentali che riassumiamo in modo schematico:

• il passaggio dalla postura verticale a quella in flessione anteriore consente un incremento della possibilità della torsione volontaria;

• la torsione da sola non può danneggiare il disco, perché è sempre limitata a valori di sicurezza dal contatto delle faccette;

• però se le pressioni di contatto sono eccessive, si giunge al danno delle cartilagini e allora la situazione può drasticamente mutare.

La perdita di 3 mm di cartilagine sui contatti articolari consente 6° di extramoto all’elemento funzionale. Per semplice sollecitazione di torsione, i limiti del movimento dell’articolazione sono forniti dalle faccette in contatto di compressione e dalla resistenza delle fibre della parte anteriore dell’anello, trazionate da un taglio diretto lateralmente. Durante la flessione la parte posteriore dell’anello può passare da una posizione neutra quasi di riposo alla trazione, verticalizzando le fibre e riducendo così la loro capacità di resistere alla torsione; tale resistenza aumenta con la loro orizzontalizzazione. Lo spazio tra le faccette, generato dall’alterazione geometrica provocata dalla flessione, consente un altro incremento della rotazione in torsione e può portare le fibre posteriori dell’anello in sovraccarico di trazione.

Gli stessi Autori hanno provato che nei dischi sottoposti a forte flessione sono sufficienti pochi gradi di torsione affinché le fibre degli anelli superino i loro limiti di resistenza. Per questo esercizi in flesso-torsione del busto da posizione eretta sono da ritenersi altamente dannosi.