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Gli aspetti fiscali dell’impresa sociale

Nel documento I profili fiscali dell'impresa sociale (pagine 121-140)

La disciplina prevista dal Decreto Legislativo n. 155 del 200637 introduceva all’interno del panorama economico, produttivo e sociale, una nuova figura imprenditoriale che

37Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Quaderni Impresa sociale Documento n. 1 Lineamenti tecnico- operativi, Roma, Giugno 2009, http://www.cndcec.it/Portal/Documenti/Dettaglio.aspx?id=7c49dd2d-fd33-4b7d-a44e-34218eb2ef2b

122 fosse in grado di esercitare la propria attività, secondo i dettami previsti dall’articolo 2082 e che allo stesso tempo non ricercasse nell’ottenimento del lucro la propria finalità costitutiva. Il legislatore aveva previsto che qualunque soggetto, senza fare alcuna distinzione tra enti commerciali, non commerciali e organizzazioni senza fini di lucro, potessero acquisire la qualifica di impresa sociale. Emerse purtroppo, come la disciplina dell’impresa sociale regolamentasse il fenomeno dal solo punto di vista giuridico senza considerare la fondamentale importanza che l’aspetto fiscale avrebbe rappresentato per questa nuova realtà imprenditoriale, contraddistinta dai caratteri tipici dell’impresa ma che trovava nella soddisfazione del benessere collettivo la propria ragione economica e istitutiva, un importante elemento propulsivo per il proprio sviluppo. La mancanza di un sistema agevolativo che fosse rivolto a questa tipologia di impresa, l’assenza di un regime tributario appositamente dedicato, nonché la difficoltosa applicazione delle norme fiscali e agevolative riguardanti gli enti commerciali o non commerciali, rendevano gravosa la decisione di intraprendere un’attività economica dotandola della qualifica di impresa sociale. Ciò era rappresentato dallo scarso interesse verso una figura che prevedeva numerosi adempimenti senza essere contraccambiati da norme che avrebbero sicuramente coinvolto in maniera maggiore, coloro che erano interessati ad avviare un’impresa nel mondo del no profit. Possiamo pertanto affermare come l’attività legislativa sia stata diretta all’introduzione di una mera qualifica imprenditoriale all’interno del panorama giuridico italiano, che sarebbe stata sicuramente oggetto di nuove disposizioni una volta compresa come una realtà imprenditoriale di questo tipo potesse avere un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale della nostra società civile. A dimostrazione di quanto appena affermato riportiamo quanto descritto dall’articolo 18 del Decreto Legislativo n. 155 del 2006, rubricato “Disposizione di carattere

finanziario“, in cui legislatore dichiarava come nessuna risorsa di natura pubblica

dovesse essere investita per lo sviluppo dell’impresa sociale. Quanto già previsto dal legislatore sarebbe dovuto bastare per consentire a questa nuova realtà imprenditoriale di trovare un proprio spazio operativo all’interno del tessuto economico, produttivo ma soprattutto sociale del nostro Paese. Purtroppo, l’impresa sociale rischiava di diventare

123 una realtà destinata a ritrovarsi ai margini del settore sociale, che avrebbe continuato a vedere come protagonisti, le forme associative e le organizzazioni non lucrative, che potevano contare su una disciplina più organica e strutturata rispetto a quanto previsto per l’impresa sociale. Risultando chiare le diverse carenze delle regole previste per le imprese sociali, è importante asserire come la ricerca di una disciplina che regolasse il fenomeno dal punto di vista civilistico, rappresentasse il naturale proseguimento di un’attività normativa posta in essere dal legislatore tributario. Infatti, prima dell’introduzione del Decreto Legislativo n. 155 del 2006, era stato concesso agli enti non commerciali, cosi qualificati dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi, di poter esercitare un’attività di natura commerciale superando in tal modo i limiti previsti dalla disciplina ad essi diretta, conferendo alle stesse associazioni o organizzazioni non lucrative, la possibilità di realizzare beni e servizi per soddisfare i bisogni sociali della collettività. La previsione di disposizioni tributarie che permettessero alle organizzazioni o alle associazioni di poter svolgere un’attività di impresa, non rappresentava altro che il corollario di un vuoto giuridico che avrebbe dovuto prevedere una figura ad hoc per questo tipo di settore. L’unico modo di sopperire alle mancanze esistenti a quel tempo, risiedeva nella possibilità di plasmare la disciplina fiscale della associazioni e delle organizzazioni no profit per consentire a quest’ultime di poter svolgere un’attività di impresa. Prima dell’introduzione nel sistema giuridico italiano del Decreto Legislativo n.155 del 2006, era stata riconosciuta la possibilità alle cooperative “ sociali “, nonostante rappresentassero degli enti di natura commerciale, di svolgere un’attività di impresa rivolta al mondo del sociale. Con l’emanazione del Decreto di cui sopra, il legislatore ampliava il novero dei soggetti giuridici ai quali potesse essere attribuita la qualifica di impresa sociale, prevedendo non solo i soggetti di cui al Libro V del Codice Civile ma anche i soggetti previsti dal Libro I quali associazioni e fondazioni.

L’assenza di una disciplina fiscale che regolasse il fenomeno delle imprese sociali e che prevedesse inoltre delle agevolazioni fiscali ritenute indispensabili per lo sviluppo delle stesse, non rappresentavano le uniche problematiche sorte a seguito dell’emanazione del Decreto Legislativo n.155 del 2006 di cui sopra. Si creava infatti

124 una sorta di regolamentazione duplice delle imprese del Terzo Settore, dovuta alla presenza di un’altra disciplina, quella prevista dal Decreto Legislativo 460/1997, che già in passato si era occupata di regolamentare le organizzazioni facenti parte del Terzo Settore e in modo particolare, le organizzazioni senza fine di lucro di utilità sociale. Nonostante entrambe le discipline fossero rivolte alla regolamentazione del Terzo Settore, erano presenti alcune differenze di natura sostanziale in merito al tipo di attività svolta e ai soggetti a cui l’attività delle organizzazioni o imprese era diretta. Per poter descrivere le differenze tra le due discipline è doveroso riprendere quanto previsto per le imprese sociali e, attraverso un’analisi della regolamentazione, verificare le coincidenze o nel caso in cui non ci fossero le differenze con quanto previsto dalla disciplina delle Onlus.

Il Decreto Legislativo n.155 del 2006 iniziava con l’individuazione dei soggetti ai quali era possibile attribuire la qualifica di impresa sociale. Questi erano rappresentati dalle forme giuridiche di cui al Libro I e V del Codice Civile, nonché qualsiasi soggetto giuridico che assuma la qualifica di Onlus secondo il Decreto Legislativo. La qualifica di impresa sociale non incide in alcun modo sull’applicazione del regime fiscale in base al tipo di ente commerciale, non commerciale o organizzazione senza fine di lucro di utilità sociale previsto dal Testo Unico Delle Imposte sui Redditi. Quanto previsto dal decreto sulle imprese sociali non comportava nessuna modifica delle disposizioni tributarie dirette a individuare gli Enti commerciali, non commerciali nonché le organizzazioni senza finalità di lucro. Si manifestava quindi una certa indifferenza in merito all’applicazione del regime fiscale previsto per gli enti disciplinati dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a seguito dell’attribuzione della qualifica di impresa sociale.

Per quanto invece riguarda l’attività svolta e quindi prevista all’interno dei Decreti Legislativi considerati, si presentava una netta differenza tra quanto previsto in tema di imprese sociali e quanto invece descritto all’interno del Decreto Onlus. La differenza consisteva nella qualifica attribuita all’attività svolta, imprenditoriale per le attività disciplinate dal Decreto Legislativo 155 del 2006, e non imprenditoriale per quanto riguarda le organizzazioni senza finalità di lucro di utilità sociale. Anche in merito ai

125 soggetti beneficiari dell’attività svolta si presentavano delle differenze tra le due discipline. Mentre per l’impresa sociale si prevedeva un sistema produttivo e imprenditoriale aperto alle problematiche dei soggetti esterni, nell’ambito della Onlus si prevedeva che l’attività svolta fosse diretta a vantaggio dei propri associati o membri. La differenza descritta rappresentava un importante risposta alla richiesta che le organizzazioni dirette all’ottenimento di un fine a carattere sociale, dovessero confrontarsi con le esigenze del mercato senza rimanere all’interno di un sistema chiuso, che non avrebbe prodotto gli stessi risultati di un’attività aperta ai bisogni di un mercato esterno. Sempre attraverso la comparazione tra la disciplina prevista per le cooperative sociali o per le organizzazioni senza fine di lucro e l’impresa sociale, notiamo una differenza importante per quanto concerne il fondamentale requisito che ogni ente deve presentare per poter operare all’interno del settore sociale ovvero quello riguardante l’assenza dello scopo di lucro. In questo caso ci riferiamo a quanto indicato dall’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 155 del 2006 rubricato “ Assenza

dello scopo di lucro “. Come abbiamo già precedentemente descritto, l’articolo in

commento disciplinava il requisito essenziale affinché l’ente potesse acquisire la qualifica di impresa sociale, il quale consisteva nel divieto di distribuire utili o avanzi di gestione in modo diretto o indiretto a soci o amministratori della società. A differenza della disciplina delle Onlus, la quale è già stata oggetto di discussione all’interno del Capitolo 2, troviamo all’interno della normativa dedicata alle imprese sociali, una scarsa regolamentazione delle possibili fattispecie che possono portare ad una distribuzione di utili in maniera indiretta. Infatti, all’interno dell’articolo 3 della disciplina delle imprese sociali, non troviamo alcuna menzione rispetto alla fattispecie delle “ 38cessioni di beni o servizi ai soci ad un prezzo inferiore di quello di mercato

oppure all’acquisto di beni o servizi ad un prezzo superiore rispetto al valore normale. “

Nonostante il Decreto Legislativo n. 155 del 2006 non avesse previsto alcuna norma di natura tributaria all’interno della disciplina dell’impresa sociale, aveva comunque

38Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Quaderni Impresa sociale Documento n. 1 Lineamenti tecnico- operativi, Roma, Giugno 2009, pag. 60, www.cndcec.it/MediaContentResource.ashx?/PortalResources/Document...

126 previsto nella disposizione di cui all’articolo 17 del suddetto decreto un collegamento tra quanto previsto dalla disciplina delle imprese sociali e quanto invece richiesto dalla normativa delle Onlus. Ciò derivava dalla possibilità di concedere la qualifica di impresa sociale, mantenendo invariati le agevolazioni fiscali previste dal Decreto Legislativo n. 460 del 1997. Quanto descritto nell’articolo 17 dava prova di come il legislatore abbia voluto conferire maggiore risalto all’istituzione di questa nuova qualifica nel panorama giuridico, economico e sociale, non preoccupandosi delle disposizioni fiscali, che avrebbero invece dato maggiore sviluppo e importanza a questa nuova figura imprenditoriale. L’azione del legislatore era stata quindi caratterizzata da un semplice rimando a quanto già previsto nella normativa prevista per le Onlus per quanto concerne l’aspetto fiscale del fenomeno in questione.

La normativa descritta nel Decreto Legislativo n. 460 del 1997, contribuiva ad una chiara identificazione dei soggetti che potevano usufruire delle agevolazioni previste dal decreto, ma niente toglie, che la medesima qualifica possa essere mantenuta nel rispetto della disciplina prevista per le imprese sociali. Considerando quanto previsto da entrambe le discipline, un ente non commerciale o un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale, potevano essere qualificati sia come Onlus sia come imprese sociali, sempre nel rispetto delle attinenti discipline. Da quanto appena affermato, possiamo notare come nessuna disposizione di natura fiscale fosse stata adottata all’interno della disciplina delle imprese sociali e discernere pertanto come le stesse potessero usufruire delle eventuali agevolazioni o benefici che derivavano soltanto dal tipo di qualifica o forma giuridica prescelta. Nonostante gli interpreti affermassero come la condotta adottata dal legislatore non avesse escluso totalmente la disciplina fiscale dell’impresa sociale dalla trattazione della materia visto il contenuto dispositivo di cui all’articolo 17, si ritiene comunque che nessuna regolamentazione ad hoc sia stata prevista per questa nuova figura imprenditoriale, privilegiando solamente l’aspetto inerente alla regolamentazione del fenomeno dal punto di vista costitutivo e operativo. Sicuramente, il Decreto Legislativo n. 155 del 2006 è stato importante per la promozione a livello sociale e imprenditoriale dell’impresa sociale, però a parere di chi tratta della questione in oggetto, sarebbe stato opportuno qualificare

127 compiutamente la fattispecie imprenditoriale per poi, in un secondo momento, modificare eventualmente ciò che non era conforme alle richieste degli imprenditori e di tutti gli altri stakeholder.

Nonostante nessuna disciplina fiscale fosse stata prevista per la fattispecie imprenditoriale in esame, trovano ugualmente applicazione le norme previste dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Bisogna osservare, come questa nuova realtà produttiva tragga la sua origine dalla semplice istituzione di una nuova qualifica da attribuire all’attività di impresa svolta, non avendo niente a che vedere con la costituzione di una nuova forma giuridica che si vada ad aggiungere a quelle già previste dal legislatore. Per l’applicazione delle disposizioni fiscali contenute nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi, bisogna fare particolare attenzione ad una serie di elementi che possono portare all’applicazione di un regime fiscale rispetto ad un altro. La natura dell’attività svolta, la forma giuridica prescelta dal soggetto nonché la residenza fiscale, rappresentano degli elementi importanti da considerare ai fini dell’applicazione del regime tributario.

Nelle disposizioni contenute all’interno del Titolo II del Capo I del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, non ritroviamo invece nessuna menzione rispetto alla fattispecie dell’impresa sociale, non rilevando quindi dal punto di vista fiscale quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 155 del 2006. La scelta della forma giuridica delle società di capitali o di persone, portano automaticamente alla qualifica di Ente Commerciale, prevedendo per le stesse l’applicazione delle Imposte sui Redditi delle Società o delle Persone Fisiche. In questo caso quindi, la scelta di voler svolgere un’attività di impresa sociale usufruendo della forme giuridiche della società di capitali o di persone, comporta in modo automatico l’applicazione del regime fiscale disciplinato dall’articolo 55 del Tuir rubricato “ Redditi di impresa “. Purtroppo le problematiche si presentano nel momento in cui la forma giuridica prescelta non rientra tra le tipiche forme societarie bensì sia rappresentata da forme associative disciplinate all’interno del libro I del Codice Civile. Venendo meno quindi il concetto automatico di commercialità dell’attività svolta nel caso in cui l’ente non rientri tra i soggetti di cui al Libro V del Codice Civile, ai fini dell’applicazione delle Imposte sui Redditi

128 disciplinate dal Testo Unico, dobbiamo considerare un altro requisito che riguarda la natura dell’attività svolta dall’impresa ovvero se quest’ultima presenta o meno i caratteri della commercialità. Per arrivare ad un’interpretazione della disciplina fiscale da applicare alle imprese sociali che decidono di adottare le forme giuridiche dell’associazione, della fondazione nonché tutte altre forme associative che non rientrano all’interno del Libro V del Codice Civile, dobbiamo prima porre in essere un’analisi che parte dal Codice Civile per poi arrivare a quanto invece disciplinato dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Secondo quanto prescritto dall’articolo 2195 del Codice Civile, le attività di impresa di natura commerciale sono rivolte alla produzione di beni o di servizi, all’intermediazione nella circolazione dei beni, al trasporto per terra, acqua o aria, l’attività bancaria o assicurativa e per ultimo tutte le attività ausiliarie alle precedenti. Chiaramente, oltre a quanto previsto dall’articolo 2195 c.c., tali attività devono inoltre rispettare quanto indicato dall’articolo 2082 c.c, il quale prescrive come l’attività di impresa sussista ogni qualvolta ricorrano i requisiti previsti dal legislatore che riguardano l’economicità, la professionalità e l’organizzazione dell’attività svolta. Le norme appena descritte rappresentano i capisaldi grazie ai quali è possibile definire il carattere imprenditoriale e commerciale dell’attività esercitata. Purtroppo, e non rappresenta un errore inconsueto da parte del nostro legislatore, non esiste una perfetta coincidenza tra quanto previsto dalla disciplina codicistica e quanto invece descritto in quella tributaria. Infatti, ritroviamo nel disposto normativo di cui all’articolo 55 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, una diversa rappresentazione del concetto di impresa nonché di commercialità ai fini dell’applicazione della disciplina tributaria per le imprese che esercitano un’attività commerciale. Nell’articolo si riporta come l’attività di impresa commerciale possa essere riconosciuta ai fini fiscali, quando l’imprenditore esercita in modo professionale ed abituale, anche se non in maniera esclusiva, le attività elencate all’interno dell’articolo 2195 del codice civile, nonché le attività di cui al comma 2 dell’articolo 32 alle lettera a) e b), anche se non si rispettano i requisiti organizzativi previsti per lo svolgimento di un’attività di impresa. Al primo comma si riporta pertanto quanto già previsto dall’articolo 2195 c.c., con l’aggiunta che l’attività di natura commerciale

129 possa non avere carattere esclusivo, e, per quanto riguarda le attività di cui all’articolo 32 comma 2, si prevede la possibilità che l’attività esercitata non sia organizzata in forma di impresa. Si concede inoltre, all’interno del comma 2 alla lettera a) un’estensione della qualifica di impresa commerciale alle attività dirette alla produzione di servizi che non rientrano tra quelle previste dall’articolo 2195 ma che comunque, svolgono la propria attività attraverso un’organizzazione tipica che contraddistingue ogni attività di impresa.

Come abbiamo già detto, per le imprese sociali che decidono di utilizzare le forme giuridiche delle società di capitali o di persone, a causa della riconosciuta presunzione di commercialità dei soggetti giuridici in questione, vengono applicate le disposizioni inerenti al reddito di impresa cosi come descritto dall’articolo 81 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, il quale riporta : “ Il reddito complessivo delle società e degli enti

commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d'impresa ed è determinato secondo le disposizioni di questa sezione. “ .

Nel caso in cui la scelta dovesse spostarsi verso l’adozione di figure giuridiche, quali associazioni, fondazioni, comitati o organizzazioni senza fine di lucro a finalità sociale, il legislatore ha previsto la disapplicazione delle norme riguardanti la disciplina del reddito di impresa, ritenendo che l’attività svolta dai suddetti enti rappresenti un’attività priva di alcun riscontro dal punto di vista fiscale. È stata prevista infatti, la possibilità di riconoscere la qualifica di “ impresa sociale “ anche agli enti non commerciali disciplinanti dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi, comprendendo anche le organizzazioni non lucrative disciplinate dal Decreto Legislativo n. 460 del 1997. Con l’introduzione del Decreto Legislativo n. 155 del 2006, si era cercato di creare una sorta di combinazione tra la qualifica di impresa sociale adottata dal legislatore e il carattere non commerciale che contraddistingue il tipo di attività svolta dagli enti non commerciali disciplinati dal Testo Unico delle Imposte sui redditi. Era stato infatti previsto, come gli enti non commerciali e le organizzazioni senza finalità di lucro, potessero acquisire la qualifica di impresa sociale senza per questo, vedersi riconosciuta la qualifica della commercialità che

130 avrebbe portato all’applicazione del disposto normativo di cui all’articolo 73 lettera b comma 1 del Tuir, il quale stabilisce i requisiti affinché un ente possa definirsi commerciale. All’interno del disposto normativo di cui sopra, si prevede come la commercialità dipenda dal tipo di attività istituzionale esercitata dall’ente, la quale deve essere esclusiva o principale ma soprattutto deve presentare i caratteri della commercialità. Se riprendiamo quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 155 del 2006, si prevedeva che ai fini dell’acquisizione della qualifica di impresa sociale, l’attività svolta dall’ente dovesse caratterizzarsi per ricavi che fossero diretti alla realizzazione di beni o servizi per fini prettamente sociali, e inoltre, che l’attività residuale non producesse ricavi per un valore percentuale non superiore al 30 per cento. Secondo quanto invece previsto dalle disposizioni presenti all’interno del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, si ritiene che sia indispensabile svolgere in maniera esclusiva o principale una delle attività previste dall’articolo 55.

Dal confronto tra le due discipline, è evidente come la caratteristica imprenditoriale di un’impresa, non derivi in modo precipuo dalla qualifica della stessa in commerciale o non commerciale. Si ritiene infatti, che qualsiasi ente che eserciti la propria attività secondo i dettami normativi di cui all’articolo 73 comma 1 lettera b) possa ritenersi non commerciale ma, non per questo, attività di natura non imprenditoriale. Al fine di chiarire il binomio esistente tra lo svolgimento39 di un’attività di impresa e la natura non commerciale di un ente, riportiamo quanto previsto dal disposto normativo di cui

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