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Aspetti sociali della pace nel Mediterraneo

di E

NZO

C

ARRA

La pace nel Mediterraneo è un’aspirazione.

In un passato, recente, la pace sembrava al sicuro. Questa era la percezione. Dopo gli Anni di piombo e prima delle Primavere

arabe. Tra regimi dittatoriali nell’Africa del Nord, moti ondula-

tori-sussultori in Medio Oriente, principalmente la questione mai risolta israelo-palestinese, gli spot terroristici, la guerra fredda lasciata alle spalle era fonte di sollievo e di speranza. Oggi guardiamo con crescente paura al futuro. Un futuro che potrebbe essere senza pace per i nostri figli e i figli dei nostri fi- gli.

In una spirale accelerata negli ultimi anni, dentro e fuori la no- stra società, sono prima di tutto venute a mancare le convinzioni e i valori che potevano garantire pace e sicurezza nel Mediter- raneo. Una drammatica premessa a quello che è già successo e ancora potrebbe succedere,

Il nuovo mondo si sta formando in un incredibile guazzabuglio di passioni sbagliate, di vizi elevati a virtù, di odio.

Si costruisce soprattutto sulla paura. É la paura l’elemento fon- damentale di ogni azione e reazione politica e sociale. Si ri- prende a spendere in armi e nell’organizzazione militare. Si costruiscono muri. É l’ingegneria che sostiene nuove forma- zioni politiche. I vecchi partiti sono smarriti sotto i colpi e rea- giscono male. Boccheggiano. Muoiono. Avanza la post-verità dei social media.

Il papa chiede di costruire dei ponti. Lui stesso, nell’agosto di tre anni orsono, il 18 agosto del 2014, ci aveva informati del no-

stro ingresso nella terza guerra mondiale, una guerra a pezzetti,

a capitoli. Una guerra dei trent’anni nel cybertempo.

Il messaggio drammatico parte, coincidenza impressionante, dalla Corea.

Quell’estate il Papa ha negli occhi la guerra civile in Siria, pen- sa all’Iraq, al Kurdistan, all’eterno conflitto israelo-palestinese e parla di terza guerra mondiale tornando in aereo a Roma da Seul. Da una delle regioni dove oggi sappiamo che può scate- narsi una guerra atomica. Allora, forse, neanche il papa sa che quel trentottesimo parallelo si sarebbe candidato a ospitare l’eventuale scoppio della terza guerra mondiale.

Il dittatore della Corea del Nord, Kim Jong-un, al comando di un arsenale atomico che terrorizza il mondo, è il nipote di Kim Il-sung, grande capo della Corea comunista nella guerra contro la Corea filoccidentale. Rivive il fantasma della guerra fredda che proprio in quel parallelo, tra il 1950 e il 1953, ha vissuto uno dei suoi drammi peggiori. Gli anni del generale Mac Arthur e poi di Ridgway, il generale peste, l’uomo accusato di attacca- re i coreani del nord con armi batteriologiche, gli anni di una guerra che determinò scontri e manifestazioni anche in Europa e da noi, in Italia. È il classico passato che non passa.

Negli anni cinquanta, improvvisamente, grazie agli interessi, conflittuali e nello stesso tempo convergenti, delle grandi po- tenze di Yalta, l’esplosione nel trentottesimo parallelo si placa. Sembra tutto finito. Ma quel vulcano è quiescente. Come altri, quel vulcano oggi è in piena eruzione.

Noi possiamo soltanto sperare che non abbia la stessa violenza di allora. A questo contribuisce un buon argomento. Il crollo della Corea del Nord lascerebbe infatti Cina e Russia di fronte agli Stati Uniti. Non sarebbe un buon passaggio per la geopoli- tica. Un’azione di forza di Pechino sulla Corea del Nord, se pu- re ci fosse, non garantirebbe nulla sul fronte della pace. Servi- rebbe ad accelerare altri conflitti tra oriente e occidente. In certo senso dobbiamo contentarci di guardare alla Corea del Nord come una delle ormai numerose potenze nucleari. E girare in- torno ai vulcani sperando di non essere investiti dalla lava.

Nel nostro campo, in Italia, i germi di disgregazione sociale e il lento ma costante declino di una condivisione culturale e politi- ca rendono quasi impossibile una reazione unitaria alle minacce attuali e a quelle che si intravedono all’orizzonte.

Il ventidue ottobre in due regioni cardine della nostra unità na- zionale, la Lombardia e il Veneto, si voterà per un referendum sull’autonomia. Non importa che la riforma costituzionale del 2001, con la modifica del Titolo quinto della Carta e con gli ar- ticoli 116 e 117, abbia offerto alle regioni l’autonomia differen- ziata. No, che non basta. Lombardia e Veneto vogliono un altro simbolo da aggiungere alle loro bandiere. I proponenti hanno buone possibilità di vincere.

Tre regioni meridionali, Campania, Puglia e Basilicata hanno di recente approvato una mozione per fissare al 13 febbraio il giorno della memoria. Il 13 febbraio 1861 è il giorno della ca- duta di Gaeta, ultima roccaforte borbonica. Come si legge nella mozione approvata ai primi di luglio da consiglio regionale del- la Basilicata, favorevoli oltre il movimento cinque stelle che ha assunto la nobile iniziativa, il partito democratico, la lista Pittel- la e il gruppo misto. La mozione approvata afferma tra l’altro che la caduta di Gaeta “segnò la conclusione di una pagina con- troversa della nostra storia”.

Degradare a una controversia l’unità nazionale nel documento di un’assemblea elettiva è grave. Prova che la situazione italia- na, per l’indebolirsi progressivo della dialettica democratica, e per il rinsecchimento delle sue classi dirigenti è pericolosa. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi, dobbiamo ripetere anche noi, oggi. A patto che un popolo sia ancora sufficiente- mente unito e condivida alcuni valori fondamentali. Se così fos- se, Matera, capitale della cultura nel 2019, dovrebbe ospitare i nuovi, urgenti, dialoghi per la pace tra i paesi del mondo e i suoi capi.