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Nei rapporti interculturali, diventare persone

Sentirsi estrane

2.1. Nei rapporti interculturali, diventare persone

Quando lasciai la Germania per rientrare in Italia, tra le mie conoscenze sulla competenza interculturale c’erano anche queste riflessioni sulla semantica interculturale; ma non c’era nulla che potesse aiutarmi a sensibilizzare i miei studenti all’esperienza della differenza di cui parlavo all’inizio. E così mi sono chiesta: “preparare le persone a vivere in un “altrove”, significa solo fargli imparare le nuove regole del gioco? Significa solo imparare nuove strategie di comportamento?”. Gestire l’estraneità, è solo conoscere i nuovi schemi in cui è “pre-confezionata” la conoscenza della cultura dell’altro paese?

9 Cfr. C. ALTMAYER, Kultur als Hypertext, Iudicum, München 2004.

Non si rischia in questo modo – come ricorda Altmayer11 ‒ di

ridurre e fissare dall’esterno gli individui a rappresentanti della propria cultura, definita quest’ultima come nazionale o etnica (Standardkultur), e così facendo a sopprimerne la singola individualità? In questo modo si rischia ‒ continua Altmayer12

di sostituire in blocco l’originaria sensazione di estraneità e incomprensione con una conoscenza streotipata, globale, che sì simula la confidenza o la conoscenza, ma che con il “comprendere l’altro” e se stessi nell’incontro con l’altro ha poco a che fare.

La dimensione che considero centrale nel lavoro sulla dimensione interculturale dell’essere umano, è la componente di coscienza affettiva. Anche a livello europeo si parla di

sensibilità culturale, ma che significa in concreto? Una parola

come “empatia” ‒ anche questa ormai logora ‒ è un concetto che rimanda alla componente psicologica dell’identità del

soggetto. E dobbiamo renderci conto che, prima di essere

un’astrazione concettuale, è un’esperienza di persone, vissuta nella totalità del loro corpo, della loro mente e della loro anima. Nella maggior parte dei casi, l'incontro con una cultura diversa dalla propria, si manifesta spesso come uno scontro. Perché gli incontri interculturali rappresentano delle grosse sfide per l’identità individuale13, essendo, l’identità di ogni individuo,

formata in gran parte dalle proprie origini culturali (anche se certamente ogni individuo elabora poi gli influssi culturali nel proprio modo).

Ciò significa che quando s’interagisce con persone appartenenti ad altre culture o quando si vive in una cultura sconosciuta, l’individuo viene a conoscere delle parti di se stesso fino a quel momento ignote; ed è costretto a relativizzare la definizione di sé fino a quel momento valida.

Quello che troppo spesso si dimentica è che l’incontro con l’”altro”, con lo “straniero”, comporta sempre una costante

11 C. ALTMAYER, Kultur als Hypertext, op. cit., p. 74. 12 Ibidem.

riformulazione della propria identità. E comporta il prodursi di una frattura tra la ricerca di costruire un’identità personale che sia il più possibile una (unitaria) e la sensazione invece di essere una “pluralità” d’individui. Una percezione, questa, sempre più attuale e diffusa, in un momento storico in cui ‒ volente o nolente ‒ siamo costretti tutti a confrontarci con una pluralità d’identità. E gestire il dolore di questa frattura non è affatto semplice: è un limite che può portare al disagio psichico e fisico.

In sintesi, conoscere l'altro significa “ridefinire se stessi”. Se non prendiamo questo sul serio, non volgeremo in positivo la potenzialità trasformativa dell'esperienza della differenza. 2.2. Estraneo è l’ignoto. E l’ignoto fa paura

L’identità ‒ come scrive lo scrittore libanese Maalouf14 ‒ «non

è data una volta per tutte, ma si costruisce e si trasforma durante tutta l'esistenza». L’identità ‒ continua l’autore‒ «è fatta di molteplici appartenenze, ma è indispensabile insistere altrettanto sul fatto che essa è una, e che noi la viviamo come un tutto. L'identità di una persona non è una giustapposizione di appartenenze autonome, non è un “patchwork”, è un disegno su una pelle tesa; basta che una sola appartenenza venga toccata ed è tutta la persona a vibrare»15.

Quello che spesso dimentichiamo quando parliamo di “mandare i nostri figli a studiare all'estero” o di “trasferirci per sempre all’estero”, è che insieme alla valigia le persone portano se stesse con tutte le loro parti: quelle consce, e soprattutto quelle inconsce (con tutte le loro “subpersonalità”). Ed è questa dimensione che rischia di deflagrare quando la tensione tra il noto e l'ignoto ‒ prodotta nell'immersione nel mondo estraneo ‒ si fa insostenibile; venendo a mancare, perché messo in dubbio dalle molteplici e incomprensibili differenze, quell’“io-governo animico” che dovrebbe percepire l’intero nel molteplice,

14 A. MAALOUF, L’identità, Bompiani, Milano 1999, p. 29. 15 Ivi, pp. 32-33.

restituendo al soggetto quel senso di unità che lo rende persona, individuo sano e integro.

Freud ‒ come ricorda Erdheim16 ‒ una volta ha parlato

dell’inconscio come di un “estero interiore”; lo avrebbe anche potuto chiamare: “la propria estraneità”. L’esperienza di ciò che è estraneo o del sentirsi estranei (das Fremde) è connotata da una profonda ambivalenza: essa si muove tra i due poli di paura e fascinazione: ciò che si ripete e che conosciamo ci dà fiducia, ciò che è nuovo e inaspettato c’insospettisce; eppure il cambiamento spesso corrisponde a uno svago, è ciò che ci fa uscire dalle solite abitudini. L’inaspettato, quindi, può portare gioia e piacere. Inoltre, l’ignoto e il noto ‒ continua Erdheim ‒ non sono valori assoluti: ciò che è ignoto può diventare noto, mentre ciò che è noto potrà a tratti rivelarsi estraneo; ed è questo continuo processo, in cui l'estraneo diventa il conosciuto e il noto diventa estraneo, a creare una tensione che tiene in vita il soggetto.

Tutto questo è certamente vero, ma ‒ aggiungo ‒ in ogni tensione che non viene gestita nel modo adeguato si nasconde un grande pericolo. Dobbiamo essere sinceri con noi stessi: chi ha fatto l’esperienza della migrazione, non può augurarsi questo come un destino ideale. Perché una cosa è certa: questa tensione tra il noto e l’ignoto, che si vive nell’esperienza dell’estraneità ‒ e ora mi riferisco in particolar modo all’esperienza della migrazione ‒ seppur vitale, deve essere saputa gestire. E fare questo non è cosa semplice.

L’esperienza della differenza può non solo generare insicurezza, ma può portare a vere e proprie crisi d’identità. Certamente ‒ come ogni crisi ‒ anche l’incontro interculturale può rivelarsi un’occasione per crescere e sviluppare, a patto però che si sia messi nella condizione di saperlo gestire e di saper gestire l’eventuale crisi identitaria.

16 Erdheim, M., Verzerrungen des Fremden in der Psychoanalytischen Perspektive:

http://www.uni-konstanz.de/figur3/scripte/archiv/Basiskolleg%20WS%2006- 07/Erdheim,%20Mario%20-%20Verzerrungen%20des%20Fremden.pdf

A questo riguardo mi chiedo sinceramente: quante e quali abilità, quanto sostegno e di che qualità ci vogliono per questo? Io credo che ancora non siamo realmente coscienti (o non vogliamo esserlo) di quello che significa andare via o mandare via la gente dal proprio paese per anni (o addirittura per una vita). Nel momento in cui sono costretto a lasciare il mio paese per sopravvivere, all’inizio sarò anche contento di potere quantomeno vivere, ma dopo? Che succede dopo, quando ‒ calmate le acque e usciti dal “tunnel della sopravvivenza” ‒ mi ritrovo con me stesso e tutte le ferite dentro rimosse per necessità? Quando poi, l’esperienza quotidiana, mi mette a confronto con tutte le schegge e i frammenti della mia personalità?