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La “curva di stress” e l’atteggiamento reale

Sentirsi estrane

3. Lo shock interculturale

3.2. La “curva di stress” e l’atteggiamento reale

Avendo personalmente fatto esperienza dello shock interculturale e della “curva di stress” così ben esposta da Castiglioni21 nel capitolo precedente, mi chiedo onestamente e

realisticamente questo: quante persone hanno ricevuto un’istruzione e un’educazione tanto idealmente intelligente, consapevole e saggia, da essere messi nelle condizioni di affrontare in modo tanto maturo e flessibile una tale crisi d’identità, in cui tutto, e ripeto tutto (lingua, costumi, schemi, abitudini, legami affettivi e sociali, esperienze percettive e a ogni livello) è diverso?

Una delle nostre più grandi antropologhe, Ida Magli22,

affermava che è impossibile uscire del tutto dal tessuto culturale in cui si è nati e cresciuti, e che nessun genio ‒ a parte Gesù di Nazaret ‒ ci sia mai riuscito23. Quest’affermazione spinge

certamente a riflettere.

Le persone hanno una psiche. E questa, nella stragrande maggioranza dei casi, reagisce all’esperienza diretta della differenza con la negazione, la difesa o la fuga, quindi in maniera etnocentrica. Forse solo una minima parte delle persone che lasciano il proprio paese per trasferirsi in un altro, è davvero così flessibile da gestire al meglio la crisi trasformando il dolore in propulsione vitale e costruttiva. Più andiamo avanti, e più persone avranno bisogno di strumenti adeguati per fronteggiare le crisi che ci sono e che ci saranno. Occorre lavorare molto e su più dimensioni: percettive, psicologiche, emotive, estetiche, cognitive, fisiche e altro ancora; perché l’esperienza della e nella estraneità è un'esperienza trasformativa a livello profondo. Per questo non può essere limitata alla dimensione del “sapere”, della conoscenza a livello mentale e cognitivo-comportamentale, ma deve comprendere anche tutte le altre sfere.

21 Ibidem.

22 Cfr. I. MAGLI, Gesù di Nazaret, BUR Rizzoli, Milano 2016. 23 Ibidem.

3.3. L’esperienza di chi è sceso nell’altrove. E ne è riuscito Il lavoro che sto portando avanti sia con gli studenti in Basilicata che in Germania, è quello di cominciare, in primo luogo, a percepire e conoscere la condizione di estraneità, leggendo l'esperienza di vita di persone che si sono trovate a dover immergersi in quest'oceano che è l’altrove, e che equivale un po’ alla morte del vecchio io. E che da questa morte tuttavia sono poi “rinate”, in un io nuovo, di coscienza più espansa. Il romanzo che leggo con i miei studenti è Vivere altrove di Marisa Fenoglio. Leggiamo l’inizio:

Per molto tempo a Niederhausen non andai a un matrimonio, né a un funerale, né a un battesimo. Sembrava che in quel paese nessuno nascesse o morisse o si sposasse, che non capitasse nulla, né di bello né di brutto. Dipendeva da me che ero l’ultima arrivata e non parlavo una parola di tedesco. Andavo per le strade e non c’era uno che mi salutasse, che mi sorridesse, che avesse conosciuto mio padre o mia madre, che avesse in comune con me un solo, unico ricordo. Potevo anche inventarmi una nuova identità e nessuno se ne sarebbe accorto.

A Niederhausen arrivai a suonarmi io stessa il campanello di casa per sentire come avrebbe suonato se mai qualcuno fosse venuto a trovarmi: una voce nota sulla mia porta, qualcuno dei miei che fosse passato di lì, semplicemente, per raccontarmi qualcosa, qualunque cosa, si fosse seduto sul sofà e avesse giocato coi miei bambini. 24

L’autrice racconta nel libro la sua esperienza di giovane donna che, nata e cresciuta ad Alba in Piemonte, è costretta a emigrare in Germania alla fine degli anni ’50 – quindi nell’immediato dopoguerra. La donna, appena sposata, deve seguire il marito, dirigente italiano della Ferrero, e si trova così catapultata a Niederhausen, uno sperduto paesino tedesco, dove non conosce nessuno, non capisce la lingua e non comprende le tradizioni. Per moltissimi anni le risulta impossibile “sentirsi a casa”. Solo grazie al tempo e con molta fatica riuscirà a inserirsi nell’ambiente, a superare il trauma di quella sua “emigrazione

privilegiata”, da donna benestante, ma pur sempre emigrazione e quindi sradicamento e ricerca ‒ mai completamente appagata ‒ di appartenenza e di convivenza con l’altro.

Quello che gli studenti devono fare è analizzare il romanzo alla luce del modello di sensibilità interculturale di Bennett25, così

com’è rappresentato in Castiglioni26:

Figura 2 – L’esperienza della differenza secondo M. J. Bennett

Fonte I.CASTIGLIONI, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche27

Bennett28 definisce la sensibilità interculturale in termini di fasi

della crescita personale. Il suo modello di sviluppo presuppone un continuo miglioramento nel raffronto con le differenze culturali, spostandosi dall’etnocentrismo ‒ le cui fasi sono:

negazione, difesa, minimizzazione ‒, all’etnorelativismo ‒ le cui

fasi sono: accettazione, adattamento e integrazione. Alla base del modello c’è la “differenziazione”, ovvero la capacità di riconoscere le differenze e imparare a convivere con esse. Per avere un’idea di come il romanzo possa essere letto alla luce di questo quadro di riferimento, ne riporto un passo, analizzato nella prospettiva della fase etnocentrica:

25 Cfr. M. J. BENNETT, Towards Ethnorelativism: A Developmental Model of Inter-

cultural Sensitivity, op. cit.

26 I.CASTIGLIONI, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, p. 14. 27 Ibidem.

28 Cfr. M. J. BENNETT, Towards Ethnorelativism: A Developmental Model of Inter-

Com’erano vestiti? A parte qualche biondina seduta in quelle macchine, a cui la moda non doveva essere del tutto indifferente, gli altri volevano chiaramente soltanto ripararsi dal freddo, proteggersi dal gelo, senza alcuna ambizione di eleganza o vanità. Io venivo da una antica città, piccola e provinciale finché si vuole, ma dove le famiglie vivono da generazioni, popolano strade e piazze, dove neanche i poveri si vestono in maniera così noncurante, così squallida… Chi erano queste grigie formiche industriose che camminavano per strade senza marciapiedi, battute dal vento della fonderia, spinte da una volontà indomabile e per me misteriosa? Erano tedeschi provenienti dalle zone orientali della Germania, quelli che alla fine della guerra, all’arrivo dei russi, erano dovuti fuggire, abbandonandovi case e beni […].29

La protagonista si trova in quella che Bennett chiama “fase di difesa”: ha preso atto della grande diversità culturale, ma dà a tutto ciò che è diverso una valenza negativa. In questa fase «Tutto ciò che è altro da sé è negativo ed è manifestato attraverso l’uso di stereotipi negativi per gli altri e di stereotipi positivi per se stessi e per il proprio gruppo, ritenuto spesso superiore per civiltà, intelligenza, radici storiche, intraprendenza ecc.»30.

Nel passo letto, gli stereotipi in azione sono fondamentalmente due: quello dell’italiano che ha gusto per l’eleganza e il vestire alla moda, e del tedesco privo di questa qualità. (Da noi ‒ scrive l’autrice ‒ «neanche i poveri si vestono in maniera così noncurante, così squallida»). L’altro stereotipo attivo è quello del tedesco operoso, efficiente ma noioso e privo di creatività e fantasia (la protagonista parla di «grigie formiche industriose»). Il punto da focalizzare con gli studenti è il fatto che la protagonista ‒ ancora nella fase etnocentrica ‒ interpreti il modo in cui gli abitanti tedeschi si vestono solo attraverso il filtro dei propri schemi culturali. Non è ancora in grado di vederli come “persone”, come individui, ma li ingloba tutti in una linea monocolore (la fila di formiche), da cui nessun

29 M. FENOGLIO,Vivere altrove, p. 20.

30 I.CASTIGLIONI, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, op. cit.,

individuo si differenzia. (E qui è sicuramente ancora presente, nell’inconscio della protagonista, l’immagine delle file e delle colonne naziste).

Leggiamo un altro passo, questa volta tratto non dall’inizio, ma dalla fine del libro, quando la protagonista è cominciata ad entrare nella dimensione etnorelativa

Mai avevo percepito la mia appartenenza alla Germania così profonda, così legittima e naturale. L’estero non sarebbe più stato estero, pensavo. Invece quei giorni se ne andarono, semplicemente […]. L’estero era la mia normalità. Sarei rimasta sempre un’italiana trapiantata in Germania, e il pendolo del mio cuore avrebbe continuato ad oscillare per tutta la vita, mantenendomi in quella condizione di stabile instabilità, di doppio coinvolgimento, di tormentata spaccatura, che io così ben conosco. 31

La protagonista ora, dopo tanti anni, è uscita dalla dimensione etnocentrica e vive in una dimensione etnorelativa. Ma come la vive questa condizione?

Il passaggio continuo da una cultura all’altra – che è il tratto che contraddistingue la condizione del migrante – causa sempre, anche quando si è integrati, problemi e sofferenze, ed è tutto fuorché facile. É sempre un oscillare (l’autrice parla di un «pendolo del cuore») tra la sensazione dell’integrazione (nel testo: «stabile instabilità», «doppio coinvolgimento») e della marginalizzazione («tormentata spaccatura»).

Solo chi è emigrato sa questo: che se si percepiscono onestamente e profondamente i propri sentimenti, se si è in contatto e connessi alla propria anima, non si potrà mai pensare che il cambiare da una cultura all’altra sia un passaggio leggero e gioioso, che può solo arricchire e trasmettere positività. Per chi è in contatto profondo con le proprie emozioni, sarà molto difficile riuscire a vivere la condizione di marginalità sempre e solo come una «interculturalità dinamica»32 senza sentirsi feriti.

Riuscire a passare ‒ come si dice in gergo33 ‒ da una

31 Ivi, p. 195. 32 Ivi, p. 121. 33 Ivi, pp. 120-121.

“marginalità incapsulata” a una “marginalità costruttiva” (che sembrano essere le uniche modalità di chi vive un’identità multiculturale), è un’impresa rara e difficile; ci vogliono ‒ come scrive Ida Magli34‒ qualità geniali.

Un modo è ad esempio esprimersi attraverso l’arte ‒ come ha fatto Marisa Fenoglio e che, per inciso, oltre a essere benestante è anche “sorella d’arte”, essendo suo fratello Beppe Fenoglio, uno dei maggiori scrittori della Resistenza ‒, ma si deve poi anche avere la fortuna che quest’arte venga socialmente riconosciuta e apprezzata. Penso quindi che quello che scrive Castiglioni35 citando Yoshikawa, e cioè che le persone integrate

vivono felicemente l’identità biculturale, non solo, ma che ne sono attratte perché «non sono mai “a casa”, poiché è sufficiente il radicamento nel proprio corpo, quindi nel proprio sé profondo, frutto di elaborazioni costanti della propria esperienza»36, mi appare superficiale e idealmente d’élite,

perché si rivolge solo a quella minima percentuale di persone che hanno la fortuna di reagire con creatività e flessibilità allo shock interculturale. E, del resto, come vivono questi “esseri speciali” le proprie emozioni? A me sembra che questo concetto porti a ‒ o sia all’origine di ‒ una virtualizzazione del corpo, a una sorta di “smaterializzazione identitaria” che ‒ di fatto neutralizzando ogni coscienza culturale, storica e biografica ‒ assume tratti anaffettivi, alienati e alienanti, perché deve ‒ per forza di cose ‒ rimuovere il dolore. Mentre, per esperienza propria e degli altri, sappiamo che la condizione del “vivere altrove” è vissuta dalla maggior parte delle persone che vivono a contatto con la propria anima, come una condizione di frattura emotiva.

34 Cfr. I.MAGLI, Gesù di Nazaret, op. cit.,

35 I.CASTIGLIONI, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, op. cit.,

p. 121.

Conclusione

Il processo di accettazione, d’integrazione del diverso, dell’altro, è innanzitutto un percorso di autoconoscenza. Se non recuperiamo un giusto rapporto con noi stessi e le nostre radici, cosa che ha molto a che fare con l’amore e il rispetto per se stessi, non è possibile andare incontro volentieri all’altro, rispettandolo.

Può sembrare un luogo comune che una persona, se sta bene con sé, sta bene con gli altri, ma ho l’impressione che sia un luogo comune ben poco praticato. O almeno, sembra che si faccia parecchio per evitare che le persone possano stare bene con se stesse.

Una via per conoscere se stessi è anche conoscere e approfondire la vita degli altri e rifletterci sopra; intendendo in questa sede per altri, coloro che sono passati consapevolmente attraverso l'esperienza dell’estraneità; che ne hanno sentito il dolore, anche profondo e terribile, ma che lo hanno saputo

trasformare in positivo. Persone che sono uscite dall'incapsulamento ‒ tipico dell'identità marginale ‒ per fare nascere un'identità marginale costruttiva.

Marisa Fenoglio è una di queste persone; ma ha dovuto imparare a convivere con ferite e fratture profonde dell’anima. Riferimenti bibliografici

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BALBONI P. E., La comunicazione interculturale, Marsilio Editore, Venezia 2007.

BENNETT M.J., Towards Ethnorelativism: A Developmental Model of Intercultural Sensitivity, in M. PAIGE (ed.). Education for the Intercultural Experience, Intercultural Press, Yarmouth (ME) 1993.

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MÜLLER BERND-DIETRICH, Wortschatzarbeit und Bedeutungsvermittlung. München: Langenscheidt, Berlin 1994. WEIDENHILLER U., La competenza interculturale, in C. Serra Borneto