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Tra autodeterminazione e tutela della salute: consenso e rifiuto negli scenari di fine vita

Consenso e rifiuto delle terapie alla fine della vita

4. Tra autodeterminazione e tutela della salute: consenso e rifiuto negli scenari di fine vita

Si è già detto come il principio del consenso informato, quantomeno in via ideale, sottintende una “costellazione” di diritti che devono essere bilanciati e valorizzati nell’ottica della miglior tutela possibile dei diversi soggetti coinvolti nella relazione di cura. Si tratta, adesso, di calare questi stessi principi nell’ambito specifico del fine vita, laddove l’orizzonte del quale bisogna tenere costantemente conto – nella prospettiva di tracciare le linee di un diritto che sappia offrire regole “proporzionate”379 e adeguate al contesto – non è una possibile speranza di miglioramento o di guarigione, bensì la morte del paziente, più o meno prossima.

Sia che si tratti di una fine provocata dalla richiesta di distacco o di non somministrazione di una terapia salvavita, sia che si tratti delle fasi terminali di una malattia, ogni riflessione sul morire non può non tener conto delle mutate condizioni in cui oggi spesso si arriva alla conclusione dell’esistenza. Il ricorso da un lato alle terapie palliative per alleviare le sofferenze del malato, dall’altro agli strumenti in grado di assistere le funzioni vitali compromesse – ventilazione meccanica, supporti cardiovascolari, alimentazione artificiale, dialisi – ha trasformato sempre più la morte da fatto naturale a oggetto di decisioni possibili, nel senso di rallentarne o prolungarne il processo380.

379 Sulla necessità dell’idea di proporzione sia nel diritto che nella medicina alla fine della vita cfr. P.

ZATTI, Diritto e medicina in dialogo: il logos della proporzione, in www.personaedanno.it

380 Come messo bene in luce da alcuni studi empirici che hanno fotografato la realtà del fine vita in

numerosi contesti di cura, nazionali e sovranazionali, due sono gli aspetti maggiormente problematici che accompagnano il passaggio della morte come dato naturale alla morte come oggetto di decisioni. In primo luogo, vi è una estrema variabilità nell’utilizzo dei trattamenti di sostegno vitale. Osserva a tale proposito C. VIAFORA, Questioni etiche di fine vita: orientamenti a confronto, in A lezione di bioetica. Temi e

strumenti, cit., p. 275 ss. che “lo stesso paziente può, all’interno di un certo contesto clinico, ricevere il

massimo delle cure intensive disponibili, mentre all’interno di un altro solo misure di conforto”. Inoltre, nonostante le declamazioni di principio, esiste una “persistente discrepanza” tra l’ampliamento dello spazio di intervento dei medici e la limitazione del coinvolgimento degli altri soggetti interessati, in particolare i pazienti e i loro familiari. Per quanto riguarda alcuni importanti studi sul fine vita si ricordano, nel contesto italiano G. BERTOLINI et al., End-of-Life Decision-Making and Quality of ICU

Performance: An Observational Study in 84 Italian Units, in Intensive Care Medicine, 36, 2010, p. 1495.

In Europa, A. VAN DER HEIDE et al. (2003), End-of-Life Decision-Making in Six European Countries:

Descriptive Study, in The Lancet, 362, 2003, p. 345. Per gli Stati Uniti si può citare, anche se risalente nel

tempo, il fondamentale studio SUPPORT del 1995, A Controlled Study to Improve Care for Seriously Ill

Hospitalized Patients: The Study to Understand Prognosis and Preferences for Outcomes and Risks of Treatments), in The Journal of the American Medical Association, 274, p. 159.

83 È chiaro che i principi ai quali si è fatto prima riferimento e che presiedono all’ordinario svolgimento della relazione di cura assumono qui una portata del tutto particolare. Di fronte all’ineluttabilità del morire, le decisioni si caricano di una forte valenza simbolica ed esistenziale: mentre il medico assume un ruolo “rilevante, ma ancillare” 381, si accentuano i toni della dimensione soggettiva e del rapporto con il personale modo del paziente di intendere “l’esistenza, la dignità, l’identità”382. Come osserva opportunamente parte della dottrina, di fronte alla possibilità non certo di migliorare le proprie condizioni di salute, bensì di accettare o rifiutare trattamenti di sostegno vitale, accanto alla somministrazione delle diverse terapie di controllo del dolore – si pensi al paziente che chieda di essere sottoposto a sedazione terminale383 – si comprende il carattere principalmente morale e “non tecnico della scelta”384. Certamente, si tratta di decisioni che devono pur sempre essere sostenute da un corredo di informazioni fornite dal personale sanitario, secondo i criteri di adeguatezza ai quali si è fatto riferimento in precedenza e attraverso pratiche di costante dialogo e condivisione. Ma le scelte di fine vita, nella loro essenza, si basano principalmente su un “giudizio di compatibilità e

coerenza della proposta medica con la struttura morale del paziente, con la rappresentazione della sua umanità, con l’immagine che ha di sé e che vuole lasciare: in una parola, con la sua dignità”385.

A tale proposito, è interessante richiamare un’opinione dottrinale che, rispetto alle decisioni che riguardano il termine dell’esistenza, ritiene fuorviante il richiamo al diritto alla salute, sia pure nell’accezione ampia e comprensiva di aspetti fisici e psichici di cui si è detto. In effetti, la dimensione legata alla salute si apprezza nella prospettiva di “mantenere e magari migliorare”386 le condizioni di benessere generale del soggetto, anche solo da un punto di vista psichico. A queste due sfumature del concetto in esame – nel senso della ricerca di un ripristino o di un miglioramento – se ne può aggiungere

381 Cfr. sul punto G. FERRANDO, Fine vita e rifiuto di cure: profili civilistici, in Trattato di Biodiritto. Il

governo del corpo, cit., p. 1865 ss.

382 Ivi, p. 1868.

383 Si veda sul punto il documento rilasciato nell’ottobre 2007 dalla Società Italiana di Cure Palliative

(SICP) “Raccomandazioni sulla Sedazione Terminale /Sedazione Palliativa”. Si tratta di una pratica che consiste nel privare il malato della coscienza per alleviare i sintomi refrattari, cioè non trattabili con le normali terapie di controllo del dolore, che si presentano talvolta nelle ultime fasi delle malattie terminali.

384 Così C.CASONATO,Il malato preso sul serio:consenso e rifiuto delle cure in una recente sentenza

della Corte di Cassazione, cit., p. 546. Allo stesso modo anche G. FERRANDO, op. ult. cit.

385 Cfr. C.CASONATO, op.ult. cit.

84 una terza: la salute come difesa dal dolore387, fondamento della rilevanza delle cure palliative388, anche laddove la somministrazione delle terapie antalgiche è suscettibile di comportare una “ipotetica abbreviazione della vita”389. Quando però, le richieste del paziente – nel senso di rifiutare una terapia di sostegno vitale – hanno l’effetto di condurre alla morte, non esistono più profili di salute da salvaguardare: è il “tema della

libertà”390 a prevalere. Come osserva un Autore, esiste una distinzione sostanziale tra il diritto all’autodeterminazione terapeutica, ricavabile da una rilettura dell’art. 32 Cost., e il più specifico diritto “all’autodeterminazione circa il fine vita”391. Nel contesto a cui ci si riferisce, il “luogo costituzionale dell’autodeterminazione” si trova, piuttosto, all’art. 13 che, in quanto “erede moderno dell’habeas corpus”, fonda oggi la regola della libertà personale che si applica anche agli interventi sul corpo del malato morente, da ritenersi illeciti se prescindono dal suo consenso392. Ma i problemi maggiori sorgono quando l’esercizio della libertà di scelta è suscettibile di scontrarsi con altri valori, parimenti presenti nell’ordinamento, in funzione dei quali si rende necessario un difficile tentativo di armonizzazione tra posizioni diverse, spesso faticosamente conciliabili393.

L’ampio e dibattuto tema del rifiuto dei trattamenti medici salvavita, oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali394, dimostra che, anche in tempi recenti, “la

387 Non si intende accogliere la concezione secondo la quale la possibilità di scelta del paziente alla fine

della vita si limiterebbe ad esercitare un diritto di non soffrire attraverso la richiesta delle terapie del dolore. Così, ad esempio, A. GORASSINI, Appunti sparsi sul testamento biologico, in Rass. dir. civ., 2011, p. 58: “non si può scegliere di morire perché non si sa cosa sia. Non si può scegliere di non vivere perché la vita è un dovere nel mondo del diritto. Si può solo chiedere di non soffrire”. Ancora, “l’unica realtà che il diritto può tutelare è il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore”.

388 Nel nostro ordinamento, peraltro, sono state approvate le “Disposizioni per garantire l’accesso alle

cure palliative e alla terapia del dolore” (legge n. 38 del 15 marzo 2010), allo scopo di assicurare alla

persona malata e al suo nucleo familiare un insieme di “interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici” e con l’intento di “elaborare un idoneo percorso terapeutico per il controllo del dolore” attraverso “idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra di loro variamente integrate” (art. 2, lett. a e b).

389 Si veda il documento “Raccomandazioni sulla Sedazione Terminale /Sedazione Palliativa”, cit., p. 34. 390 Così G. FERRANDO, Fine vita e rifiuto di cure: profili civilistici, cit., p. 1866.

391 Ci si riferisce a C.CASTRONOVO, Autodeterminazione e diritto privato, cit., in particolare p. 1050 ss. 392 Ibidem

393 A tale proposito, è utile richiamare il parere del CNB del 28 novembre 2008, intitolato “Rifiuto e

rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico”, nel quale si ritrova un quadro dettagliato dello stato del dibattito sul tema, dal momento che nel documento si dà conto di posizioni diversificate, ma compresenti all’interno del Comitato stesso. Le conclusioni del parere vanno, comunque, nel senso di dare un ampio riconoscimento al rifiuto di terapie, anche se necessarie al mantenimento in vita, sull’assunto che “l’ordinamento vigente non ammette l’imposizione forzata di un trattamento autonomamente e coscientemente rifiutato”. Non mancano, del resto, opinioni che ritengono tale eventualità “ammissibile sul piano giuridico” ma “non condivisibile sotto il profilo etico”.

394 G.GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, in Resp. civ. e prev., 2009, p. 2143. In

ambito civilistico, si possono ricordare le pronunce in tema di rifiuto di trasfusioni di sangue da parte di Testimoni di Geova, in particolare App. Trieste, 25 ottobre 2003 e App. Trento, 19 dicembre 2003 in

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relazione tra persona e medicina non sembra ancora riuscire a trovare, nel nostro Paese, la strada per una definizione univoca e consolidata”395. Senza dubbio, al di là del riferimento ai trattamenti sanitari obbligatori396, non sembra possibile sostenere Nuova giur. civ. comm., 2005, I, 145. Su tali pronunciamenti cfr., in senso critico, A. SANTOSUOSSO –F. FIECCONI, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, p 38 ss. Inoltre, ha suscitato numerose perplessità in tema di rifiuto di cure salvavita Trib. Roma, ord. 16 dicembre 2006, in Guida al dir., n. 1, 2007, p. 32 ss., sul noto caso Welby. In ambito penalistico, la stessa Corte di Cassazione si è più volte pronunciata sul tema della rilevanza penale del consenso e sulla possibilità di intervenire in assenza di esso, esprimendo delle posizioni non univoche. In particolare, la Cassazione sembra riconoscere massima rilevanza al rifiuto esplicito di terapie, mentre, talvolta, ritiene legittimo l’intervento del medico con esito fausto, se ritenuto necessario per la salvaguardia della salute del paziente, anche in mancanza di un consenso espresso. Cfr. sul punto E.TURILLAZZI,M.NERI,I.RIEZZO, Le sezioni unite e il consenso informato: una decisione tra miti e misteri disquisendo tra esito fausto (del trattamento) e malattia, indizi preziosi (ma non risolutivi) tra le pieghe delle frasi, in Riv. it. med. leg.. 2009, p. 1086 ss. Si veda, inoltre, M. BARNI,

L’autolegittimazione dell’attività medica e la volontà del paziente, in Resp. civ. prev., 2009, p. 2170. L’A.

ricostruisce i più importanti passaggi giurisprudenziali sul tema, tra le quali è necessario ricordare quantomeno la sentenza sul caso Volterrani, Cass. pen., Sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446, cit. che afferma come “il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di un esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte”.

395 G.GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, cit., p. 2143. Questa affermazione si

attaglia, tragicamente, alla recente vicenda di Giovanni Nuvoli che, peraltro, ha avuto un certo risalto nell’opinione pubblica. Affetto da sclerosi laterale amiotrofica, Nuvoli ha cercato di ottenere, allo stesso modo di Piergiorgio Welby, il distacco del ventilatore artificiale che ne permetteva la sopravvivenza. A tale proposito, osserva A.FERRATO, Il rifiuto di cure e la responsabilità del sanitario: il caso Nuvoli, in Resp. civ. e prev., 2009, p. 1150: “ciò che accomuna le due vicende giudiziarie è l'avere drammaticamente

messo in luce come, allo stato attuale, il diritto di rifiutare un trattamento sanitario fosse anche quello indispensabile a mantenere in vita il paziente sembra essere affidato alla sola pronuncia giurisprudenziale. Per meglio dire il medico è chiamato a prendere una decisione che dovrà poi essere vagliata in sede giudiziale”. Si veda infra, Appendice. Si parlerà diffusamente in seguito anche delle sentenze che hanno accompagnato la vicenda umana di Piergiorgio Welby. Per quanto riguarda Giovanni Nuvoli, basti per il momento ricordare che è stato costretto a lasciarsi morire rifiutando la somministrazione di liquidi e della nutrizione, dopo che l’intervento della procura di Sassari aveva impedito la possibilità che un medico anestesista provvedesse all’interruzione della terapia di ventilazione artificiale, nonostante il paziente avesse espresso un rifiuto consapevole, attuale ed informato.

396 Da un breve riferimento alla questione dei trattamenti sanitari obbligatori (inde cit. TSO), peraltro, si

possono trarre degli interessanti spunti per l’indagine sui profili maggiormente critici del rifiuto di terapie. Rispetto a tali trattamenti, la dottrina maggioritaria ha ormai da tempo raggiunto un sostanziale assestamento su alcuni requisiti essenziali perché un trattamento sanitario possa essere reso obbligatorio legittimamente. Nello specifico, i TSO devono innanzitutto essere diretti alla cura e alla prevenzione delle malattia e non possono rispondere ad esigenze esterne – quali, ad esempio, i motivi di sicurezza pubblica o di giustizia – rispetto alla tutela della salute intesa nei due aspetti di diritto individuale e interesse della collettività. Deve sussistere, poi, una coincidenza tra la tutela della salute in senso individuale e in senso collettivo, nel senso che il singolo, lungi da qualsiasi strumentalizzazione a fini statali, deve trarre in ogni caso un beneficio dalla cura che gli viene somministrata forzatamente per impedire che egli possa arrecare danno alla salute degli altri: la corretta definizione di interesse della collettività, del resto, si qualifica come l’esigenza di proteggere la salute dei tanti singoli e non quale generico interesse al “benessere sociale”; ancora, i TSO devono essere indispensabili, ossia non deve sussistere una diversa possibilità per fronteggiare l’esigenza che dà vita all’imposizione del trattamento. Per quanto riguarda l’oggetto dei TSO, essi non possono riguardare cure sperimentali che comportano un margine più o meno ampio di rischio per il paziente, né risultare discriminatori sulla base del sesso o della razza o delle convinzioni politiche o religiose. Infine, quanto alle modalità di realizzazione, la Costituzione prevede una riserva di legge per l’imposizione di “un determinato trattamento”, rafforzata dal riferimento, cui il legislatore deve necessariamente ottemperare, al “rispetto della persona umana”. Secondo l’interpretazione dominante, tale limite non riguarda l’attività dello stesso soggetto, bensì il legislatore,

86 l’esistenza di un generale dovere di curarsi come principio di ordine pubblico397, legato alla dimensione collettiva del diritto alla salute398 e ai doveri di solidarietà richiamati dalla Costituzione399. Quest’ultima ricostruzione, invero risalente nel tempo, “aprirebbe

pericolose prospettive di imposizioni, di divieti, di controlli del tutto inaccettabili”400

alla luce delle principali norme di riferimento in materia. Piuttosto, la dottrina assolutamente dominante ha ormai riconosciuto “quello che sinteticamente è stato

definito il c.d. diritto di essere ammalato, di non curarsi o di lasciarsi morire”401, da intendersi come libertà per il soggetto di autodeterminarsi nelle scelte terapeutiche, anche per mezzo di un rifiuto di terapie che si risolva nel sacrificio della propria integrità fisica o, nei casi estremi, della vita. Non mancano, però, le resistenze di quella parte della dottrina402 e della giurisprudenza403 che vede nell’indisponibilità della vita il

nel momento che questi stabilisce ed impone un determinato trattamento sanitario e quindi un limite a tutela della libertà negativa di decidere in ordine alla propria salute. Sul tema cfr. A.SANTOSUOSSO,G.C. TURRI, I trattamenti obbligatori, in Medicina e diritto, cit., p. 103; R. ROMBOLI, La libertà di disporre del

proprio corpo, cit., in particolare p. 337 e ss.; P. D’ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, cit., p. 201

397 Cfr. Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.

398 Si veda A. SANTOSUOSSO G.C. TURRI, I trattamenti obbligatori, p. 117: “l’art. 32, e solo esso,

costituisce l’orizzonte e il limite entro i quali l’interesse della collettività può risultare prevalente rispetto al diritto individuale”.

399 In questo senso, cfr.P.PERLINGIERI, Note introduttive ai problemi giuridici del mutamento di sesso, in

Dir. e giur., 1970, p. 830: “ogni persona ha verso se stessa il dovere di realizzare il suo pieno sviluppo, di

rispettare e conservare la propria integrità fisica”. Così anche, tra gli altri, M.SANTILLI SUSINI, Rifiuto di trattamenti sanitari per motivi religiosi, in Resp. civ. e prev., 1977, p. 408 ss.

400 Così G.FACCI, Il rifiuto dei trattamenti sanitari: validità e limiti, in Contr. impr., 2006, p. 1681. 401 R.ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo, cit., p. 337.

402 Si fa riferimento, in particolare, alla dottrina penalistica. Cfr., tra gli altri, G.IADECOLA, Note critiche

in tema di «testamento biologico», in Riv. it. med. leg., 2003, p. 477: “ora, appare indiscutibile che il

nostro ordinamento giuridico, complessivamente considerato, non riconosca al soggetto il diritto di disporre della propria vita (dal che scaturisce […] l’insufficienza della volontà del paziente a porsi sempre come criterio-guida delle scelte del medico”; G. IADECOLA – A. FIORI, Stato di necessità medica, consenso del paziente e dei familiari, cosiddetto diritto di morire, criteri per l'accertamento del nesso di causalità, in Riv. it. med. leg., 1996, p. 314: dopo aver ribadito l’indisponibilità del diritto alla vita, gli

autori affermano che “il medico non può essere esonerato in forza di una manifestazione di volontà di rifiuto delle cure da parte del paziente, pur in pericolo di vita, in quanto tale dissenso, implicando un atto dispositivo del bene della vita, non risulta in alcun modo tutelato dall’ordinamento ed anzi si pone contro questo, che considera assolutamente indisponibile quel bene ed esprime avversione rispetto a tutti gli altri che compromettano l’attitudine sociale della persona”; L.EUSEBI, Sul mancato consenso al trattamento

terapeutico: profili giuridico-penali, in Riv. it. med. leg., 1995, p. 735: “deve concludersi per

l’inadeguatezza del consenso a rendere lecita la ricerca della morte mediante rinuncia a terapie salvavita”.

403 App. Trento 19 dicembre 2003, cit.: la Corte, nonostante sia in presenza di un rifiuto attuale rispetto

alla terapia trasfusionale da parte del Testimone di Geova, ritiene che “il dissenso del paziente rende senz’altro l’atto terapeutico praticato un’indebita violazione della sua libertà di autodeterminarsi (garantita all’art. 32 cost.) ed anche della sua integrità a meno che, condizione fondamentale, non si versi in situazione di pericolo attuale e grave per la vita del paziente”. A proposito del caso Englaro, di cui si parlerà più avanti, si possono intanto ricordare Trib. Lecco, decreto 2 marzo 1999, in Bioetica, 2000, p. 83, nel quale si afferma che “l’art. 2 della Costituzione tutela il diritto alla vita come primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, la cui dignità attinge dal valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni, anche disperate in cui si esplica la sua esistenza”; e, ancora, Trib. Lecco, decreto 15 luglio 2002, in Bioetica, 2004, p. 85, nel quale si richiama il principio di “totale difesa della vita umana che non

87 limite ultimo al rifiuto di terapie, sulla base di argomenti che meritano di essere esaminati in questa sede.

In primo luogo, si fa leva sul divieto degli atti disposizione del corpo suscettibili di ledere in modo permanente l’integrità fisica (art. 5 c.c.) e sulle norme del codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.)404, per sostenere che il medico non potrebbe in nessun modo ottemperare alla richiesta di sospensione o rifiuto di cure che pongano il paziente in pericolo di vita, “in quanto tale dissenso, implicando un atto dispositivo di un bene

indisponibile, si pone contro l'ordinamento”405.