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8. Alcuni profili della disciplina codicistica in materia di gruppi di società

8.1. Autonomia ed eteronomia degli amministratori delle società

delle società subordinate nel contesto del gruppo

Un ulteriore dibattito afferente al ruolo degli amministratori delle società subordinate nel “campo problematico” dell’impresa di gruppo è quello relativo al loro residuale margine di autonomia. La questione che si pone è quella relativa all’adattamento dell’art. 2380 bis co. 1 c.c. al contesto del gruppo.

Come noto, tale norma è stata introdotta nel codice civile proprio nell’ambito della riforma del diritto societario del 2003 ed ha lo scopo di scolpire nella littera legis il principio dell’esclusiva competenza e responsabilità degli amministratori per la gestione dell’impresa sociale.

Nella prospettiva che qui maggiormente interessa, occorre ricordare che la disciplina dell’attività di direzione e coordinamento “non contiene affatto deroghe al principio, per converso rinvigorito dalla riforma, della responsabilità esclusiva degli amministratori nella gestione della singola società cui sono preposti”189.

Muovendo da questa premessa, la più autorevole dottrina ha sostenuto che gli amministratori delle società subordinate, pur essendo “consapevoli che i loro incarichi e la loro permanenza nel gruppo dipendono dalle valutazioni dei soci di riferimento e degli

extrasociale, non di rado intrecciati. Così, per segnalare una tipica situazione equivoca, la dottrina penalistica francese ritorna sovente sui pericoli di abusi insiti nelle forme di collegamento fra società: si viene a coagulare un centro superiore di interessi, e la gestione della singola società controllata non è più intesa come fine a sé stessa, ma come ingranaggio del meccanismo”. In quest’ottica, non può sfuggire come la teorica della “procedimentalizzazione” dell’interesse societario (per cui si rinvia a C. ANGELINI, Interesse sociale e business judgement rule, in C.AMATUCCI (a cura di),

Responsabilità degli amministratori di società e ruolo del giudice. Un’analisi comparatistica della business judgement rule, 2014, Milano, p. 1 ss.) possa essere

contestualizzata anche nell’ambito dei gruppi di società.

189 Così, R.SANTAGATA, op. cit., in P.ABBADESSA e G.B.PORTALE (diretto da), op.

cit., p. 810. Questa osservazione pare significativa se solo si considera che sia la norma

in esame sia la disciplina contenuta negli artt. 2497 ss. c.c. sono state introdotte mediante il d.lgs. 6/2003.

amministratori della capogruppo”, mantengono tuttavia il dovere di valutare e perseguire autonomamente l’interesse delle società cui sono preposti190. Si osserva, infatti, che non esistono né norme che consentono alla capogruppo di imporre ad essi il compimento di atti di gestione non condivisi né tantomeno norme che li esentino da responsabilità per essersi adeguati alle direttive della stessa capogruppo: al contrario, l’obbligo di analitica motivazione delle decisioni di cui all’art. 2497 ter c.c. viene inteso come conferma della circostanza per cui “le deliberazioni suggerite dalla controllante devono essere valutate nel merito dall’organo amministrativo della controllata, che si assume la piena responsabilità della loro eventuale assunzione”, dovendo esso “rifiutarsi di dare attuazione a richieste e/o direttive che non siano conformi all’interesse della società da lui amministrata”191.

Secondo tale opinione, in definitiva, pur dovendo gli amministratori delle società subordinate “tener conto dell’interesse di gruppo e di tutte le informazioni e valutazioni provenienti dalla capogruppo”, tuttavia essi mantengono comunque il prioritario dovere di gestire autonomamente le società cui sono preposti nel perseguimento del loro specifico interesse sociale, non potendo mai considerarsi deresponsabilizzati in quanto giuridicamente vincolati all’esecuzione di direttive della holding192.

A tale posizione viene obiettato da una altrettanto avveduta dottrina che, poiché nel gruppo di società l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento implica l’attribuzione del potere decisionale alla capogruppo, si deve ritenere che gravi sugli amministratori delle società

190 Così F.GALGANO e G.SBISÀ, op. cit., p. 116 e 117. Gli Autori si mostrano a p. 245 quindi consapevoli del fatto che “la mancata esecuzione delle direttive influisce solo sul rapporto di fiducia fra l’ente di gestione e l’amministratore, il quale potrà non essere confermato al termine della carica o potrà, addirittura, essere revocato in corso di carica”.

191 Ancora F. GALGANO e G. SBISÀ, op. loc. ult. cit. Si v. anche p. 244 e 245. Argomenta in termini analoghi anche R.SANTAGATA, op. cit., in P.ABBADESSA e G. B.PORTALE (diretto da), op. cit., p. 813.

subordinate il dovere di “eseguire le direttive legittime e di collaborare con la capogruppo nel perseguimento della politica imprenditoriale di gruppo”193. In altri termini, si sostiene che laddove le scelte operate dalla

holding siano conformi ai “principi di corretta gestione societaria e

imprenditoriale”194, allora sia configurabile in capo agli amministratori

delle società eterodirette un obbligo di eseguire siffatte decisioni (e una relativa assenza di responsabilità195): poiché “i poteri amministrativi e gestori relativi alla società dipendente risiedono legittimamente anche ed in primo luogo nell’organo amministrativo della società capogruppo”, allora “non può essere affermato in senso assoluto un principio di (completa) autonomia gestionale” (degli amministratori) delle società subordinate196.

193 Così U.TOMBARI, op. cit., p. 110.

194 Pur non utilizzando tale terminologia (in quanto la riforma del 2003 è successiva alle sue riflessioni), anche C. PEDRAZZI,Dal diritto penale delle società al diritto penale dei gruppi op. cit., oggi in ID.,op. cit., p. 815 ss. osservava che le direttive della

capogruppo “possono valere come fattore potenzialmente scriminante, a nostro avviso, solo sul presupposto e nei limiti di una disponibilità degli interessi sacrificati, nello spirito dell’art. 50 c.p. In tale prospettiva si dimostra senz’altro indisponibile qualunque interesse esterno alle società del gruppo […] [il che] vale soprattutto per l’interesse dei creditori sociali”. Secondo l’illustre Autore l’interesse sociale potrebbe essere disponibile (e quindi attivare la scriminante) solo per la “totalità dei soci”: “basta però la presenza minoritaria di soci “esterni” a restituire alle suddette norme incriminatrici la normale operatività: a meno che, nel caso concreto, l’operazione conflittuale o appropriativa non risulti sorretta dal consenso della totalità del capitale sociale”.

195 Osserva infatti A.VALZER, op. cit., p. 863 che si deve negare che “l’estensione della responsabilità ex art. 2497, co. 1, possa investire gli amministratori della controllata che abbiano ricoperto il ruolo di meri esecutori di direttive legittimamente impartite dalla capogruppo e che di tale situazione abbiano dato puntuale ragione nelle motivazioni di cui all’art. 2497 ter”. Solo se l’attività viola i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale allora l’amministratore della subordinata dovrà risponderne ex art. 2497 co. 2 c.c.

196 Ancora U.TOMBARI, op. cit., p. 107 e 108. L’Autore ritiene che “la capogruppo può sia imporre legittimamente le linee strategiche generali, sia ingerirsi nella gestione ordinaria della controllata”. Per sostenere ciò, egli richiama G.SCOGNAMIGLIO, op.

cit., in G.SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 202, la quale afferma che “poiché i canoni di comportamento imposti al soggetto controllante, e al tempo stesso i criteri alla stregua dei quali deve essere valutata la sua responsabilità, sono quelli tipici del gestore di un’impresa, non dovrebbe considerarsi illegittima la pretesa di esercitare fino in fondo, appunto, i poteri e le prerogative propri del gestore, ingerendosi stabilmente nelle quotidiane scelte gestorie della controllata”.

A tale differente impostazione la dottrina precedentemente richiamata ribatte osservando come essa si fondi “su una generica circostanza di fatto (esercizio della direzione unitaria), la quale costituisce un mero presupposto per l’applicazione degli art. 2497 ss. c.c.” e la quale deve quindi essere “interpretata in conformità alle previsioni inderogabili del sistema”197, tra cui evidentemente rientra

l’art. 2380 bis co. 1 c.c. Si aggiunge inoltre che immaginare che gli amministratori delle società subordinate siano meri esecutori delle direttive della holding impedirebbe di “distinguere un gruppo di società, pur sempre dotate ciascuna di propria autonomia giuridica e patrimoniale, da un’unica società articolata al proprio interno in diverse divisioni del tutto prive di una siffatta autonomia”198.

La giurisprudenza, civile e penale, pare aver recepito l’orientamento che sostiene la piena valenza anche nel contesto del gruppo di società del principio di esclusiva competenza e responsabilità degli amministratori per la gestione dell’impresa sociale dettato dall’art. 2380 bis co. 1 c.c.199. In effetti, l’opinione che sostiene la vincolatività delle direttive della holding pare cadere in contraddizione laddove

197 In tali termini F.GALGANO e G.SBISÀ, op. cit., p. 120.

198 Ancora F.GALGANO e G.SBISÀ, op. cit., p. 130. Anche A.VALZER, op. cit., p. 180, nell’escludere la liceità dei contratti di dominazione c.d. forti, afferma che “il coordinamento e l’armonizzazione dell’attività di più società alla luce di un piano strategico comune nega di per sé una loro reductio ad unum che implichi l’elisione della loro potenzialità di azione come autonomi centri di profitto”,

199 In sede penale si v. Cass. pen., sez. V, 8 novembre 2007, n. 7326, in Cass. pen., 2009, p. 291 ss. con nota di V.NAPOLEONI. Nella sentenza si legge che si deve “ritenere

che l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società imponga all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse, ancorché riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito”. In sede civile, invece, si v. Trib. Roma, 13 settembre 2007, in Riv. dir. comm., 2008, p. 222 ss., in cui si afferma che le direttive della holding non modificano in alcun modo “il dovere generale degli amministratori della società controllata di agire nell’interesse preminente della società amministrata […] non potendo essi addurre a propria discolpa il fatto di essersi limitati a prestare obbedienza alle direttive della società o dell’ente che esercita l’attività di direzione e controllo” nonché Cass. civ, sez. I, 24 agosto 2004, n. 16707 in Banca, Borsa, Tit. cred., 2005, p. 373 ss. con nota di V.CARIELLO, ove si rinvengono le medesime parole poi utilizzate dalla pronuncia della Cass. pen. richiamata in questa nota.

rimarca il ruolo di “filtro” che, comunque, gli amministratori delle società subordinate debbono svolgere in quanto tenuti ad eseguire esclusivamente quelle decisioni che non contrastino con i “principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale” delle società cui sono preposti200. La valutazione in ordine alla corretta “gestione societaria e imprenditoriale” pare, infatti, comportare un elevato grado di discrezionalità e, quindi, di autonomia in capo a chi la compie.

In definitiva, quindi, anche tale posizione dottrinale conserva un consistente margine di indipendenza per gli amministratori delle subordinate, i quali saranno obbligati a valutare se l’atto di gestione richiesto dalla holding corrisponda all’interesse sociale e

imprenditoriale delle società cui sono preposti e, solo in caso di riscontro positivo di siffatta verifica, ad eseguirlo, assumendosene la relativa responsabilità.

Le considerazioni già svolte in ordine al continuum tra accentramento e decentramento nei gruppi di società vengono dunque confermate dalla constatazione che, sul piano normativo, non è possibile configurare un completo accentramento del potere decisionale in capo alla holding. Inoltre, per quel che concerne il binomio tra “pattuizione” e “imposizione” da parte della capogruppo nell’assunzione della specifica decisione in esame201, si osserva come fisiologicamente non possano esistere atti di gestione delle subordinate integralmente imposti dagli amministratori della holding agli amministratori delle subordinate poiché a questi ultimi spetta il compito di vagliare, ai sensi dei principi di cui all’art. 2497 c.c., ciascuna direttiva ricevuta e di eseguirla solo laddove la ritengano “corretta”: si può dunque ora comprendere il reale significato dell’affermazione secondo la quale “nella normalità dei casi il rapporto fra i due ordini di organi di amministrazione è un rapporto

200 U.TOMBARI, op. cit., p. 112.

dialettico, fatto cioè di reciproca persuasione, di rettifica degli originari punti di vista e di finale accettazione delle direttive rettificate”202.

In questa prospettiva, di conseguenza, laddove gli amministratori delle società eterodirette assumano in concreto “atteggiamenti di supino ed acritico recepimento”203 delle direttive impartite dalla capogruppo,

essi risponderanno comunque (anzi, verrebbe da dire a fortiori) degli eventuali illeciti che siano originati dall’esecuzione di suddette decisioni.

Tale considerazione ha un particolare rilievo ai fini dell’indagine penalistica che si intende condurre in quanto postula una necessaria cooperazione (rectius, un concorso)204 tra gli amministratori della

holding e gli amministratori delle subordinate nell’adozione di quegli

atti di gestione delle subordinate in cui si sia concretamente ingerita la capogruppo e da cui sia eventualmente scaturito un reato205. In altri

termini, tale considerazione consente di escludere che di atti siffatti possano essere chiamati a rispondere solo gli amministratori della capogruppo206. Peraltro, val la pena ricordare che, in virtù di quanto in

202 Così ancora F.GALGANO, op. cit., p. 163.

203 Così R.SANTAGATA, op. cit., p. 813, ovviamente da una prospettiva civilistica. Ma l’osservazione pare avere un valore generale.

204 Osservano ancora F. GALGANO e G.SBISÀ, op. cit., p. 215, che “di regola, la direttiva della capogruppo, pregiudizievole per la società coordinata e diretta, non può prescindere dalla cooperazione volontaria dell’organo amministrativo di quest’ultima”.

205 Ancora F.GALGANO e G.SBISÀ, op. cit., p. 186, osservando il rapporto dal punto di vista della capogruppo (e quindi dei suoi amministratori), rilevano che “la holding non compie mai, direttamente, concreti atti di gestione delle società coordinate e dirette. La holding propone il compimento di singole operazioni, ma non le esegue. E non ha neppure autonomia decisionale, dal momento che – per le ragioni già illustrate – la capogruppo non può imporre agli amministratori delle società controllate il compimento di atti che non siano da essi condivisi ed anzi questi ultimi hanno il dovere di rifiutarsi di compiere operazioni che possano pregiudicare l’integrità del patrimonio sociale, come unanimemente afferma la giurisprudenza”.

206 Del resto, come già osservava C.PEDRAZZI,Profili problematici del diritto penale

d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, p. 125 ss., oggi in ID.,cit, p. 219 ss., “[…]

anche nell’ambito dei gruppi di società: i rapporti di “controllo” nelle varie configurazioni elencate nell’art. 2359 c.c. – diretti o indiretti, fondati su adeguati possessi azionari o su particolari vincoli contrattuali - non intaccano la posizione di garanzia che compete, nell’ambito di ciascuna società del gruppo, ai rispettivi amministratori (espressi o meno da un centro unitario di comando)” (p. 225 e 226).

precedenza detto in ordine alla direzione unitaria, potrà invece accadere che la holding sia completamente estranea rispetto agli atti di gestione ordinaria (e non strategica) delle subordinate: in tale scenario, ovviamente, ad assumersi la responsabilità degli eventuali illeciti commessi mediante tali atti saranno proprio (e solamente) gli amministratori delle società subordinate.