• Non ci sono risultati.

All’esito della ricostruzione dei diversi paradigmi di imputazione astrattamente percorribili per far ricadere la responsabilità penale per i reati ascrivibili alla gestione delle società subordinate (anche) sui vertici della holding si può muovere ad alcune osservazioni conclusive.

499 V. supra, Capitolo I, § 8. L’ultima riflessione è tratta da U.TOMBARI, op. cit., p. 120. Anche le precedenti due osservazioni sugli artt. 2403 e 2403 bis c.c. sono tratte da ID., op. cit., p. 94 e 95.

Lo studio della criminalità di amministratori e sindaci nei gruppi di società ha consentito di enucleare due “costanti criminologiche” ricorrenti in tale contesto: la prima consistente nella assoluta prevalenza di forme “plurifrazionate” (collegiali e inter-organiche) di esecuzione delle condotte tipiche; la seconda rappresentata dall’interdipendenza (e dall’intercambiabilità) di azione ed omissione nella realizzazione degli illeciti.

A margine di tale analisi si è riscontrato che gli unici strumenti di cui il diritto penale dispone per tradurre e decifrare, sebbene con talune distorsioni, la complessità di siffatte costanti criminologiche sono il concorso (eventuale) di persone nel reato e la Garantenstellung.

Mantenendo sullo sfondo tali osservazioni, si è quindi proceduto all’approfondimento degli schemi imputativi degli amministratori della capogruppo.

È stata esaminata l’eventualità che costoro concorrano attivamente nel reato degli amministratori delle società subordinate. A tal proposito si è rilevato che sebbene tale scenario (solitamente consistente in un concorso morale degli apicali della holding per il tramite di condotte istigatrici) appaia in astratto quello maggiormente frequente, tuttavia risulta piuttosto arduo immaginare che in sede processuale si disponga di materiale probatorio o indiziario sufficiente ad accertarlo.

Tale constatazione ha consentito di evidenziare la rilevanza del secondo paradigma di imputazione degli amministratori della capogruppo, e cioè quello che si fonda su un loro discusso obbligo giuridico (penalmente rilevante ai sensi dell’art. 40 co. 2 c.p.) di impedire i reati degli amministratori delle subordinate. A tal proposito, dopo una breve disamina delle incertezze che si pongono anche con riferimento agli amministratori non esecutivi delle società “monadi”, sono stati considerati gli orientamenti della dottrina, che tendenzialmente esclude un obbligo siffatto, e della giurisprudenza, che

invece (sebbene in modo alquanto episodico) volge ad affermarlo. Tali differenti opinioni, tuttavia, sono parse inidonee a cogliere la eterogeneità fenomenologica dei gruppi di società, riducendo oltremodo ovvero ampliando a dismisura l’intervento del diritto penale nel contesto

de quo.

Pur a fronte di tali considerazioni critiche, si è ritenuto inevitabile accogliere i suggerimenti della dottrina, non parendo che alla luce della normativa civilistica attualmente vigente sussistano previsioni normative idonee a fondare la Garantenstellung degli amministratori della holding. L’incapacità della soluzione accolta di soddisfare adeguatamente le esigenze di tutela che si pongono innanzi all’attività di una impresa di gruppo, però, ha indotto ad elogiare la proposta avanzata sul punto dai progetti di riforma del codice penale Grosso e Nordio, i quali parevano individuare in capo agli amministratori della

holding una posizione di garanzia dai confini mobili, tale da espandersi

e restringersi a seconda dell’effettiva portata della direzione unitaria esercitata dalla capogruppo. In tale prospettiva, pertanto, si è auspicato un intervento del legislatore che si orienti in tal senso, apparendo tale soluzione l’unica realmente idonea a contemperare le ragioni di efficienza economica (in particolare, di flessibilità e diversificazione dei rischi) e le esigenze di tutela (dei beni giuridici coinvolti dall’attività economica) che si fronteggiano nel contesto del diritto penale dei gruppi di società501.

A fronte della constatazione che gli amministratori della holding non sono, alla luce della legislazione vigente, garanti rispetto agli illeciti eventualmente commessi dai vertici delle subordinate, si è sottolineata la necessità di verificare che una posizione di garanzia così connotata

501 Nonché a contemperare le “due istanze di fondo” che usualmente si confrontano in tutto il contesto problematico delle organizzazioni complesse, e cioè l’istanza “di realismo, di aderenza al dato concreto-fattuale, da un lato” e l’istanza “di certezza, di predeterminabilità dell’ambito di garanzia e dei comportamenti attesi, dall’altro”. Così A.GARGANI, op. cit., in Riv. trim. dir. pen. econ., 2017, p. 508 ss.

sia enucleabile, per il tramite dell’istituto della delega, dalle fonti di autonomia privata, e cioè dai regolamenti infragruppo e dai modelli di organizzazione e gestione delle società del gruppo. A tal proposito si è osservato che difficilmente tali strumenti negoziali accentreranno gli obblighi di garanzia relativi all’operato degli amministratori delle società subordinate sui vertici della holding, essendo ciò contrario alla

ratio della organizzazione di gruppo: tuttavia, si è anche rilevato che è

una possibilità che non si può a priori escludere e che va, di conseguenza, attentamente indagata nel caso concreto.

A margine di tali considerazioni si è considerato un ultimo sentiero imputativo che si può astrattamente percorrere per attingere gli amministratori della capogruppo e per configurare in capo ad essi un obbligo giuridico (penalmente rilevante ex art. 40 co. 2 c.p.) di impedire i reati degli amministratori delle subordinate, e cioè quello che si snoda attraverso una loro qualificazione come amministratori di fatto delle subordinate stesse. Si è osservato che un’interpretazione teleologica dell’art. 2639 c.c. consente di estendere la portata del principio da esso espresso e che, pertanto, nulla osta a considerare, nei settori in cui la direzione unitaria è maggiormente pregnante (in quanto riguarda non solo le decisioni strategiche ma anche quelle operative “quotidiane”), gli amministratori della holding come amministratori di fatto delle società eterodirette. Si è anche rilevato come la conclusione logica di tale iter argomentativo sia quella che individua in capo a questi ultimi una posizione di garanzia (del tipo più volte richiamato). Tuttavia, sono state evidenziate le tensioni che un’applicazione congiunta degli artt. 40 co. 2 e 110 c.p., 2639 c.c., presenta rispetto ai principi di tipicità e legalità che informano il diritto penale. Pertanto, pur parendo tale paradigma di imputazione teoricamente utilizzabile, il rischio che nella prassi si inverino derive incostituzionali ha indotto a ribadire l’auspicio di un intervento del legislatore nella materia de qua.

Infine, si è sottoposta ad analisi la possibilità che i sindaci della capogruppo siano titolari di un obbligo giuridico (penalmente rilevante) di controllo e di impedimento dei reati degli amministratori delle subordinate. Si è ritenuto che tale obbligo non sussista, né sul piano normativo né su quello assiologico.

In definitiva, si può affermare che l’organizzazione di gruppo incide in maniera consistente sulle condotte tipiche che i vertici della capogruppo possono astrattamente porre in essere nel corso dell’attività gestoria: già in tempi risalenti, del resto, autorevole dottrina aveva osservato che “l’articolazione di un gruppo di imprese può assumere rilievo penale nella ricerca di tutti i soggetti penalmente e realmente responsabili, soprattutto qualora siano realizzate lesioni, penalmente rilevanti, di interessi esterni in esecuzione di direttive […] di una politica di gruppo”502. La possibilità che essi concorrano in modo attivo o

omissivo negli illeciti ascrivibili agli amministratori delle società subordinate va quindi attentamente considerata dagli interpreti. Il rischio è altrimenti quello, più volte evocato, di arrestare l’indagine innanzi alla constatazione della pluralità delle società che compongono il gruppo: la ipotrofia giurisprudenziale in ordine ai paradigmi imputativi è, a parere di chi scrive, segno tangibile del concreto verificarsi di tale rischio, il quale implica la (inaccettabile) indifferenza del diritto penale nei confronti della reale allocazione del potere decisionale all’interno delle medio-grandi imprese organizzate in modo complesso.

Pertanto, sebbene i sentieri imputativi ricostruiti siano malcerti e sovente senza sbocco, rimane per l’interprete la necessità di percorrerli, ricercando elementi che eventualmente accertino che gli amministratori della holding sono coinvolti (attivamente o, talora, omissivamente) nella commissione dell’attività illecita. Solo così si può adeguatamente

502 Così F. BRICOLA, Lo statuto dell’impresa: profili penali e costituzionali, in AA.VV., Imprenditore e legge penale, 1985, Ancona, p. 98. L’Autore rileva come il problema si acuisca particolarmente nell’ipotesi di gruppi “multinazionali” (e cita, come esempio, il caso del disastro di Seveso).

valorizzare l’elemento dell’unità dell’attività d’impresa che per il tramite del gruppo viene condotta e non obliterare completamente il rilievo penale che potrebbe talvolta avere l’attività di direzione e coordinamento.

L’auspicio, quindi, non è solo quello che il legislatore intervenga nella materia de qua nei termini sopra richiamati, ma che, ancora prima, sia l’interprete a riscoprire le difficoltà che la “iper-complessità” organizzativa dei gruppi di società pone con riferimento all’inquadramento (non solo della responsabilità amministrativa da reato degli enti, ma anche) della responsabilità penale delle persone fisiche, attribuendogli il doveroso rilievo.

C

APITOLO

III

R

ESPONSABILITÀ EX CRIMINE

DEGLI ENTI E GRUPPI DI SOCIETÀ

1. Il silenzio del d.lgs. 231/2001 sui gruppi di società e sul