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Le azioni di risarcimento danni.

L’aspetto più problematico del private enforcement, sul quale si è puntata l’attenzione della Commissione e della dottrina è, come già anticipato, quello delle azioni di risarcimento. A questo tipo di azioni sono rivolti gli auspici formulati sia nel regolamento n. 1/2003/Ce, che nel Libro verde del 2005. Si tratta del settore di più difficile accesso per gli interessati, caratterizzato da un’evidente arretratezza rispetto agli altri strumenti previsti per dare applicazione ai divieti comunitari antitrust. L’arretratezza è sia quantitativa che qualitativa e si traduce nella compressione di una delle (potenzialmente) fondamentali forme di tutela del sistema antitrust.

L’argomento va affrontato analizzando i numerosi ostacoli che frenano l’accesso ed il funzionamento del meccanismo risarcitorio attuale, valutando le prospettive del potenziamento di queste azioni, ma tenendo anche presente quali sono i mezzi a disposizione delle istituzioni comunitarie per fare sì che il risarcimento diventi quel supporto all’applicazione dei divieti da parte del giudice nazionale, che ancora non è.

Le difficoltà che hanno finora disincentivato il ricorso all’azione civile di risarcimento antitrust frenando lo sviluppo del private enforcement (inteso in questa accezione ristretta) si articolano innanzitutto sul piano della giurisdizione e della competenza, della legge applicabile e della legittimazione ad agire, proseguendo su quello istruttorio della prova391. L’incertezza sulle categorie

della legittimazione/interesse ad agire, applicate dalla giurisprudenza comunitaria in modo ambivalente e restrittivo, ma non uniforme, è stata risolta per ora con il parametro del “legittimo interesse”, che offre l’unico riferimento

391 JONES, SUFRIN, EC competition, cit., p. 1228 ss.; AUGUSTIN, HABERMANN, Quantifying antitrust damages, in Comp.law ins., 2006, vol. 5, n. 5, p. 9 ss.

utile all’interprete e agli interessati392. Questo aspetto rileva anche per le sue

ricadute sull’attualissimo tema delle azionicollettive, fenomeno generalmente in grande espansione sulla scena mondiale e non solo nella materia antitrust, che però patisce direttamente la mancanza di una normativa certa sui requisiti di legittimazione e interesse ad agire nelle ipotesi di azione dei terzi, anche appartenenti alle già note categorie dei concorrenti o dei consumatori393.

Oltre che sulle questioni pregiudiziali e preliminari, i problemi del private

enforcement si riversano anche all’interno dell’istruzione del processo. La prova

della violazione è molto ardua da reperire per le parti, ma non può essere surrogata con il ricorso all’(eventuale) provvedimento amministrativo, perchè deve essere fornita pienamente ed in autonomia all’interno del processo civile, trattandosi di un onere che incombe sulla parte. Il giudice ha limitati poteri istruttori officiosi e comunque in molti stati non è dotato di mezzi di indagine adeguati a scoprire le violazioni antitrust. A maggior ragione, queste difficoltà valgono nel caso delle intese segrete, che spesso non possono essere conosciute e provate neppure dalle autorità amministrative, tantomeno dalle parti private danneggiate ed estranee agli accordi.

Lo stesso onere probatorio incombe sulla parte a proposito del nesso di causalità ed è particolarmente arduo per le violazioni antitrust, collegate alle politiche commerciali delle imprese, spesso riversate sul mercato e ridistribuite sui vari consumatori e concorrenti senza che il singolo possa riuscire a dimostrare di essere direttamente e casualmente danneggiato dalla pratica anticoncorrenziale. Viste le difficoltà per le parti a provare il nesso di causalità, elemento saldamente rimesso al diritto nazionale, la dottrina (accolta tra le proposte della Commissione nel Libro verde) suggerisce di alleggerire l’onere della prova su questo elemento, in modo da meglio sostenere le azioni dei privati (con il supporto delle interpretazioni della Corte di giustizia e con l’armonizzazione delle procedure nazionali)394. Si tratta di una scelta che

392 AMATO, EHLERMANN, EC Competition law, cit., [in part. MILUTINOVIC, Private enforcement], p. 734

ss., cita anche la difesa passing-on e l’esperienza statunitense sulle azioni dei consumatori finali e le class

action.

393 AMATO, EHLERMANN, EC Competition law, cit., [in part. MILUTINOVIC, Private enforcement], p. 756

s.

394 AMATO, EHLERMANN, EC Competition law, cit., [in part. MILUTINOVIC, Private enforcement], p. 749

privilegia l’effetto utile della possibilità di tutelare il privato rispetto alla coerenza sistematica, ma le implicazioni di una simile deviazione dal generale modello di azione civile dispositiva richiederebbero quantomeno correttivi tecnici adeguati.

In sintesi, le norme comunitarie non prevedono per ora alcun meccanismo per garantire che i processi civili in cui i privati agiscono per il risarcimento del danno antitrust possano essere efficaci e funzionare correttamente, ma si limitano ad un rinvio agli ordinamenti nazionali, di fatto addossando alle parti un onere probatorio insostenibile e affiancandole a giudici non sempre e non tutti ugualmente attrezzati per l’istruzione delle cause. Neanche il ruolo dell’elemento soggettivo è stato oggetto di precisazioni da parte delle norme e della giurisprudenza comunitaria. La colpa e il dolo sono pacificamente irrilevanti ai fini dell’accertamento della violazione, ma solo in via interpretativa si può desumerne l’estraneità al contesto anche della responsabilità risarcitoria che si qualifica quindi come oggettiva e si allontana in parte dallo schema aquiliano proprio. Un’ulteriore sostegno all’interpretazione proposta è offerto dalla giurisprudenza comunitaria. La sentenza Manfredi, non

da infatti alcuno spazio agli elementi del dolo e della colpa nel disegnare i presupposti della responsabilità, in questo modo chiudendo implicitamente ogni spazio ad una loro rilevanza, almeno comunitaria.

Alcuni passi sono già stati mossi in ambito comunitario per migliorare la tutela civile del diritto al risarcimento. Il principale punto di riferimento in questo senso è indubbiamente la celebre sentenza Corte giust., Courage Crehan C-453/99, del 20 settembre 2001, in cui la Corte ha stabilito espressamente che la violazione

dei divieti antitrust attribuisce al privato un diritto al risarcimento in sede civile del danno patito395. Senza voler ridimensionare la portata innovatrice di questa

395 Tra i molti commenti alla sentenza, ANDRENGELI, Courage Ltd v Crehan and the enforcement of article 81 EC bifore national courts, in Eur.comp.law rev., 2004, p. 758 ss. ricostruisce il processo di merito

nazionale dopo la pronuncia della Corte di giustizia, sostanzialmente disattesa dal giudice del rinvio pregiudiziale, in qualche modo recuperata dal giudice di appello che ha stabilito il dovere del giudice nazionale di essere “deferente” rispetto alle decisioni della Commissione, potenziando la cooperazione a discapito dell’indipendenza. Il dovere di “sincera” cooperazione del giudice nazionale richiederà ulteriori precisazioni da parte della Corte. NAZZINI, ANDENAS, Awarding damages for beach of competition law in

English courts – Crehan in the court of appeal, in Eur.buis.law rev., 2006, p. 1192 ss., sottolineano la

maggior vicinanza tra la sentenza della corte d’appello e quella della Corte di giustizia, oltre alle implicazioni inevitabili tra “remedies” amministrativi e civilistici. Il valore vincolante delle decisioni della Commissione comporta, come si vedrà, la necessità di ricorrere alla sospensione del processo in caso di contemporanea pendenza, compatibilmente ai limiti del singolo ordinamento nazionale. La sentenza estende gli effetti della decisione amministrativa ai terzi che siano parti di un procedimento civile. L’estensione degli effetti dovrebbe però configurare il diritto dei terzi a partecipare anche al procedimento amministrativo e ad impugnarne la decisione finale. Inoltre, il valore probatorio della decisione amministrativa andrebbe precisato per renderlo compatibile con le garanzie processuali, come si vedrà in

decisione, va ricordato che l’orientamento espresso dalla Corte nel caso

Courage era già presente in nuce nella precedente giurisprudenza. Tra i

precedenti specifici è opportuno ricordare le sentenze Corte giust., Francovich,

C-6/90, del 19 novembre 1991 e Brasserie du pecheur - Factortame, C-46 e 48/93, del 5 marzo

1996, che ha precisato i presupposti in presenza dei quali sussiste il diritto al

risarcimento antitrust, nel nome del diritto ad una tutela effettiva. E’vero, però, che la sentenza Courage supera i precedenti citati, non solo perché è più

esplicita nel riconoscere il diritto al risarcimento, ma soprattutto perché lo estendeanche a chi sia stato parte del contratto illegittimo ex artt. 81 o 82, se dimostri di aver patito un danno. La decisione ribadisce che spetta ai giudici nazionali proteggere i diritti comunitari dando ad essi l’attuazione compiuta che meritano. Il richiedente può però essere escluso dal risarcimento, se abbia avuto una responsabilità significativa nella violazione, perché è principio noto che non si può trarre vantaggio dal proprio comportamento illecito. Ad esempio, il giudice può verificare se la parte danneggiata che ha partecipato all’accordo illecito fosse realmente la parte debole del rapporto contrattuale e, quindi, se abbia o meno subito la volontà dell’altro contraente nel sottoscrivere il contratto. Per completezza, va segnalato che i giudici nazionali che avevano operato il rinvio pregiudiziale deciso dalla Corte nel caso Courage ne hanno poi disatteso

l’interpretazione negando, comunque, la sussistenza del diritto al risarcimento nel processo di merito. Le successive impugnazioni hanno solo in parte permesso di recuperare il precedente comunitario, richiamandosi al nebuloso dovere di cooperazione giurisdizionale.

Dal punto di vista interpretativo però, la citata giurisprudenza comunitaria ha permesso di sviluppare la c.d. dottrina Courage, che a parere di alcuni autori

è stata metabolizzata nel regolamento n. 1/2003/Ce e ne rappresenta il secondo aspetto caratterizzante, insieme al decentramento. L’ apertura del regolamento all’azione privata risarcitoria, secondo gli stessi autori contiene in seguito; ANDREANGELI, The enforcement of article 81 EC before national courts after the House of

Lords’decision in Intntrepreneur Pub Co Ltd v Crehan, in Eur.Law Rev., 2007, p. 261, riporta la posizione

della House of Lords inglese sul caso Courage, in cui viene precisato il concetto di cooperazione. Secondo il supremo giudice inglese, le pronunce rese in casi analoghi dalla Commissione vanno considerate come orientamenti informali che il giudice nazionale valuta discrezionalmente. Quest’ultima interpretazione rafforza il principio di indipendenza a discapito della cooperazione. Annullando la precedente decisione della corte d’appello, la House of Lords ha di fatto eliminato dal sistema inglese il precedente Courage sul risarcimento dei danni. Il diritto al risarcimento è però stato ribadito dalla Corte di giustizia nel più recente caso Manfredi.

sé la prospettiva di un sistema speciale di sanzioni complementari all’esistente impianto comunitario396. Sul punto non si ritiene di condividere l’ottimismo e va

segnalato subito che la reale portata innovativa del regolamento n. 1/2003/Ce è stata messa in dubbio da altra dottrina, anche sotto il profilo della sua funzione incentivante per il private enforcement. Questa prospettiva più critica e preferibile è meno incline ad identificare gli intenti della Commissione con i risultati reali del suo intervento riformatore. Si tratta di una ricostruzione politicamente più cauta e tecnicamente più attendibile, atteso che il regolamento non si occupa espressamente del private enforcement, salvo le intenzioni sistematiche e l’ampio rinvio agli ordinamenti nazionali, di fatto, senza approntare nessun nuovo strumento processuale per risolvere i problemi che sinora hanno penalizzato il settore.

Dopo la sentenza Courage la giurisprudenza comunitaria è tornata recentemente ad occuparsi del tema dei risarcimenti antitrust, ribadendo e rafforzando il proprio orientamento. La sentenza Corte giust., Manfredi, C-295/04, del 13 luglio 2006 ha chiarito che i limiti alla legittimazione ad agire previsti in Courage

erano frutto di un’elencazione indicativa e non esaustiva, potendo le leggi nazionali prevederne altri397. La sentenza ha comunque ribadito che, per il diritto

comunitario, chiunque può chiedere l’annullamento dell’accordo illegittimo ed oltre a ciò, ottenere anche il risarcimento del danno patito. E’rimesso alla normativa processuale nazionale l’esercizio di questo diritto, in particolare, nei suoi aspetti essenziali: nesso di causalità, competenza del giudice, regole processuali, prescrizione, quantificazione del danno e sua qualificazione (danno emergente e lucro cessante), salvo il rispetto del principio di equivalenza. Proprio questo rinvio agli ordinamenti nazionali sposta il problema parcellizzandolo a livello dei singoli stati, impedendo la soluzione degli aspetti più complicati e sistematici dovuti all’interazione di ordinamenti disomogenei.

Sul piano normativo comunitario, oltre ai già citati regolamento n. 1/2003/ Ce e Libro Verde del 2005, anche la Comunicazione sulla cooperazione con le giurisdizioni nazionali si richiama ai principi che impongono al giudice di garantire, nelle forme consentitegli dal diritto nazionale, l’equivalenza di tutela

396 REICH, The “Courage” doctrine, cit., p. 37 ss., da atto dell’interpretazione restrittiva della dottrina Courage da parte delle giurisdizioni nazionali, tra cui, significativamente, il giudice inglese del merito Courage.

per i precetti comunitari compresi quelli antitrust398. Tale equivalenza si

specifica, come ricordato anche dalla sentenza Courage, nel divieto di rendere

impossibile o eccessivamente difficile far valere il diritto a livello nazionale, che non può prevedere meccanismi più sfavorevoli. Questa considerazione, ben nota al diritto comunitario, pare però sfuggire allo stesso legislatore laddove, come nel caso in esame, predispone un quadro incompleto, rinviando a sistemi nazionali complessivamente disomogenei e singolarmente inadeguati a sostenerne il carico, come si dirà a proposito dell’Italia.

All’altra estremità dell’equivalenza va poi sempre posta l’altrettanto pressante necessità di rispettare l’autonomia processuale degli stati membri, che si specifica nella libertà di determinazione delle procedure giurisdizionali. Si tratta di due principi che si contrappongono anche nel campo del public

enforcement, seppure in forma meno accentuata. Le normative processuali

degli stati riflettono, infatti, considerazioni non solo politiche ma culturali profonde, difficili da sacrificare sull’altare dell’efficienza e dell’eguaglianza, con cui vanno però, quantomeno, coordinate. L’idea di una coerente integrazione processuale sfuma allora nell’opzione dell’armonizzazione, a metà strada tra l’omologazione e l’estrema individualità attuale. Sempre su questo terreno, oltre al legislatore, va ricordato che intervengono con le loro interpretazioni anche i giudici e la dottrina, a cui si aggiungono le parti private, tutti alla ricerca di un codice comune per poter interagire in modo utile. L’esigenza è simile a quella di elaborare un linguaggio, o regole di gioco condivise, con cui organizzare il molteplice intorno all’obiettivo comune. Allo stesso modo, le regole processuali nazionali devono poter convergere gradualmente verso una parificazione che ne anticiperà l’assimilazione.