I rapporti con il public enforcement
3.2 Private enforcement del giudice italiano.
Da quanto precede emerge chiaramente che le norme comunitarie, salvo prevedere la diretta applicazione dei divieti antitrust da parte dei giudici nazionali e qualche rozza forma di raccordo tra la loro attività e quella della Commissione, rimettono quasi integralmente agli stati l’attuazione del private
enforcement. Il problema generale che si pone a livello comunitario è
essenzialmente quello di garantire comunque una tutela omogenea agli interessati, anche in un quadro normativamente molto differenziato. Per quanto riguarda la cooperazione con i giudici e gli organi comunitari, cui si riferiscono anche le Comunicazioni ed il regolamento in commento, va ricordato che anche se si fonda sul risalente art. 10 del trattato, la sua esatta portata è sempre in corso di interpretazione ed è entrata solo lentamente nella mentalità dei giudici italiani425.
423 NEGRI, Giurisdizione e amministrazione, cit., p. 127 ss. 424 NEGRI, Giurisdizione e amministrazione, cit., p. 118 ss.
425 IANNONE, The duty of cooperation between national courts and authorities and community institutions for te purposes of article 10 of the Treaty of Rome, in Dir.un.eur., 2001, p. 497 ss.
Dopo questo doveroso raccordo con il paragrafo precedente è ora possibile passare ad analizzare le complessità dell’applicazione dei divieti
antitrust da parte dei giudici italiani. Da questo punto di vista quello che emerge
con maggiore evidenza in Italia è la necessità di individuare un ulteriore livello di coordinamento tra i vari giudici civili coinvolti nell’enforcement privato. Oltre all’intervento del giudice amministrativo in sede di impugnazione delle decisioni dell’autorità garante, infatti, il sistema italiano è articolato in un doppio livello di
enforcement civile, ognuno dei quali è devoluto alla competenza di un diverso
giudice ordinario. La distinzione si basa sulla circostanza che il giudice sia chiamato ad applicare la legge nazionale oppure direttamente i divieti comunitari. La possibilità che le due normative antitrust si sovrappongano, almeno in parte, soprattutto in seguito all’adozione del regolamento n. 1/2003/Ce crea ulteriori difficoltà di funzionamento al sistema.
In Italia, infatti, il giudice competente ad applicare la legge nazionale
antitrust è in via esclusiva la Corte d’appello, mentre i divieti comunitari sono
applicati dal giudice designato dalle normali regole di competenza. La competenza esclusiva della Corte d’appello riguarda solo le azioni civili di nullità e di risarcimento fondate sulla l. n. 287/90, è prevista dall’art. 33 della stessa norma e prevede un unico grado di giudizio. La riserva non è applicabile estensivamente a tutte le liti in cui si applichino i divieti antitrust, pertanto, le azioni basate sugli artt. 81 e 82 sono devolute al giudice ordinario, che in primo grado è quasi sempre il tribunale, ma che nelle ipotesi di azioni dei consumatori può comportare il ricorso al giudice di pace sulla base del valore della domanda426. Paradossalmente, questa ipotesi residuale di competenza per le
cause di modesto valore economico (i consumatori sono tecnicamente esclusi dalla l. n. 287, salvo quanto si preciserà) ha invece rappresentato per l’Italia il vero banco di prova del private enforcement antitrust e proprio davanti al giudice di pace si è sviluppato gran parte del contenzioso privato risarcitorio, sulla scia delle richieste dei consumatori contro le compagnie assicuratrici di cui si parlerà a breve.
L’individuazione della competenza antitrust nei processi civili si è tradizionalmente basata sulle allegazioni delle parti. Di conseguenza, la Corte
d’appello risultava competente ogniqualvolta la parte attrice avesse invocato l’applicazione della l. n. 287, mentre era competente il tribunale se l’attore richiedeva l’applicazione del diritto comunitario oppure (in origine) l’adozione di provvedimenti (ad es. cautelari) che superassero i limiti prescritti al sindacato esclusivo della Corte. Ovviamente, la citata regola consente sempre al convenuto l’eccezione di incompetenza nella sua prima difesa427. Per chiosare
brevemente sulla competenza territoriale, va dato atto del dibattito che ha riguardato l’individuazione del forum commissi delicti nelle azioni di risarcimento
antitrust (inizialmente individuato in modo oscillante tra il luogo di commissione
del fatto e quello di produzione del danno). Nel caso invece in cui la violazione delle norme antitrust sia riferibile ad un contratto, si fa pacificamente riferimento al luogo della sua conclusione.
In questo scenario si è inserita la disciplina del regolamento n. 1/2003/Ce, che impone al giudice nazionale di scegliere la normativa antitrust di riferimento, eventualmente applicando in parallelo quella nazionale e quella comunitaria. Si tratta di un’evoluzione destinata a riflettersi sull’applicazione del criterio di competenza sinora utilizzato. Adesso, per statuire sulla propria competenza i giudici dovranno preliminarmente verificare, oltre alle allegazioni dell’attore in relazione alla legge applicabile, se la condotta oggetto di accertamento pregiudichi il commercio tra gli stati membri e comporti pertanto (anche o soltanto) l’applicazione diretta degli artt. 81 e 82. Questa valutazione preliminare, che si spinge sul merito e supera i limiti della normale verifica di competenza rimessa al giudice in ogni processo, può comportare conseguenze imprevedibili a priori: la designazione di una giurisdizione straniera, della Corte d’appello o del tribunale.
Da un quadro generale, già complicato, va tenuto distinto il problema della possibilità di applicazione contemporanea della disciplina nazionale e di quella comunitaria da parte del giudice nazionale. Si tratta di una possibilità riconosciuta espressamente dal regolamento n. 1 e ribadita dalla successiva giurisprudenza, che in Italia si traduce in una grossa complicazione processuale, visto che nel disegnare il meccanismo di applicazione
giurisdizionale della legge nazionale antitrust il legislatore ha optato per la competenza esclusiva.
L’individuazione della norma antitrust applicabile (al di là delle allegazioni), presenta una prima difficoltà per il giudice, che deve riuscire a delimitare un oggetto molto complesso in limine litis. A questo primo problema generale, che può comunque essere gestito dal giudice, si può aggiungere la necessità di escludere o di coordinare i processi eventualmente instaurati parallelamente, in autonoma applicazione delle due normative. Per concludere, la flessibilità comunitaria crea un autentico enigma sulla competenza, nei casi in cui il giudice nazionale può applicare “anche” la norma nazionale insieme a quella comunitaria (ossia, in un unico processo l’applicazione parallela delle norme antitrust nazionali e comunitarie è rimessa ad uno stesso giudice).
Per quanto riguarda la seconda questione, ossia i rapporti tra il processo davanti alla Corte e quello davanti al giudice ordinario, l’applicabilità della litispendenza è stata tradizionalmente esclusa a causa della diversità di petitum e di causa pretendi tra i due giudizi. Tuttavia, il problema del coordinamento e del possibile conflitto di giudicati non appare ancora risolto. Infatti, le categorie giuridiche riescono in alcuni casi ad essere più sottili della realtà e la distinzione molecolare che permette di escludere la litispendenza, non necessariamente sottintende una altrettanto evidente autonomia nell’ambito e negli effetti dell’accertamento. Per tentare di colmare la lacuna si potrebbe usare lo strumento della connessione, piuttosto che quello della continenza, nonostante la difficoltà posta a questa forzatura dalle ragioni del rigore sistematico e processualistico. La competenza esclusiva inderogabile della Corte d’appello osta all’impiego di meccanismi di modifica della competenza e la riunione è esclusa perchè comporterebbe la perdita di un grado di giudizio per le parti che avevano originariamente adito il tribunale. Ciononostante, si tratta probabilmente degli unici istituti che possono utilizzarsi per cercare di coordinare i processi antitrust428.
La soluzione da più parti auspicata per risolvere la situazione italiana percorre la via più radicale della concentrazione (normativa) presso il giudice ordinario o presso la Corte d’appello di tutti i giudizi in materia di concorrenza.
Si richiede dunque a gran voce l’unificazione delle competenze ad applicare sia la legge nazionale che quella comunitaria429. L’accentramento davanti ad un
solo giudice di tutta la materia antitrust pare una scelta inevitabile. Entrando nel merito di tale scelta, non pare di poter condividere quella dottrina che preferirebbe privilegiare la Corte d’appello, in virtù della sua maggior specializzazione430. E’ infatti indubitabile che la materia antitrust richieda (già)
grande specializzazione da parte dei giudici ordinari, caratteristica che potrebbe facilmente essere potenziata con l’istituzione di apposite sezioni e con la sottrazione di questa materia al giudice di pace, decisamente non attrezzato allo scopo. Per motivi di ordine sistematico e pratico è dunque preferibile optare sulla competenza generale del giudice ordinario, eliminando la competenza esclusiva in unico grado della Corte d’appello che mette molto a disagio le parti, soprattutto quando si tratta dei consumatori. Inoltre, non pare disprezzabile l’idea di deflazionare le Corti, già in difficoltà ad evadere altre competenze esclusive come quelle attribuite loro dalla Legge Pinto. Purtroppo, l’opportunità di un intervento tanto importante non è stata finora colta dal legislatore italiano.
Come si è già evidenziato, le competenze della Corte d’appello in unico grado per le azioni di nullità e risarcimento nascenti dalla l. n. 287 e quelle del giudice ordinario in tutti gli altri casi di illecito antitrust, oltre alle ipotesi di applicazione concomitante delle due normative da parte dello stesso giudice pongono complicazioni ingiustificabili in un sistema già tanto articolato e bisognoso di certezza e celerità. A tacer d’altro, anche se la legittimità costituzionale della competenza in unico grado della Corte d’appello è stata pacificamente affermata dalla Suprema corte, la discriminazione rispetto ai casi in cui viene invocato il diritto comunitario pare difficile da giustificare. Tornando alle ragioni addotte dalla Corte costituzionale per ribadire la legittimità della scelta del foro esclusivo operata dalla l. n. 287, colpisce che uno degli argomenti più utilizzati sia stato quello di garantire la celerità al giudizio
antitrust, con il conforto dell’assenza dell’ obbligo di un doppio grado di
giurisdizione dalle norme costituzionali e dai precetti internazionali431.
429 GUERRI, L’applicazione del diritto antitrust, cit., p. 232.
430 TAVASSI, SCUFFI [SCUFFI], Diritto processuale antitrust, cit., p. 198 s. 431 TAVASSI, SCUFFI [SCUFFI], Diritto processuale antitrust, cit., p. 186 s.
Addentrandosi ora nelle complessità del sistema attuale delle competenze previste dal legislatore italiano, va dato atto del dibattito che se ne è occupato diffusamente, senza mai abbandonare del tutto un’interpretazione restrittiva della competenza della Corte d’appello aderente alla l. n. 287. In particolare, questa interpretazione restrittiva si è manifestata in materia di provvedimenti cautelari d’urgenza. La tutela cautelare antitrust davanti alla Corte d’Appello è infatti limitata dalla lettera della l. n. 287/90 ai provvedimenti d’urgenza relativi alle azioni risarcitorie e di nullità, in funzione strumentale alle azioni di competenza esclusiva. L’iniziale interpretazione rigorosa ha ricondotto alla competenza della Corte la pronuncia dei soli provvedimenti strumentali alle domande di nullità e di risarcimento (cui si riferisce la norma sulla competenza esclusiva), e solo con una successiva evoluzione questa competenza ad adottare misure cautelari è stata estesa anche agli altri casi di azioni fondate sull’applicazione della l. n. 287/90. Superando il già citato orientamento restrittivo, l’art. 33 della l. n. 287/90 è stato inteso come norma esemplificativa, che prescrive la competenza esclusiva della Corte d’appello per tutte le questioni di tutela legate alla l. n. 287, senza esaurire la casistica dei rimedi esperibili in unico grado nelle azioni risarcitorie e di nullità432. Meno
problematico è invece il caso della potestà cautelare del giudice ordinario, riconosciuta da tempo dalla dottrina indipendentemente dal giudizio di merito, ora confortata anche dal tenore del nuovo regolamento n. 1/2003/Ce433.
La competenza ante causam è attribuita al giudice singolo, mentre la Corte in composizione collegiale funge da giudice del reclamo434. Quanto al rito
applicabile, l’orientamento prevalente ritiene applicabile le forme del processo ordinario di cognizione davanti al tribunale435. Come paradigma di misura
cautelare, il giudice italiano antitrust ha tradizionalmente utilizzato l’art. 700 c.p.c., anche perché la l. n. 287 parla di “provvedimenti urgenti”, probabilmente intendendo tutte le misure cautelari, con un’imprecisione che però non può essere superata senza pesanti forzature tecniche. Indubbiamente l’art. 700 c.p.c. possiede la versatilità necessaria ad ospitare un contenuto molto vario,
432 ACERBONI, Controllo giudiziario, cit., p. 816 ss. 433 ACERBONI, Controllo giudiziario, cit., p. 821 ss.
434 TAVASSI, SCUFFI [TAVASSI], Diritto processuale antitrust, cit., p. 223 s. 435 ACERBONI, Controllo giudiziario, cit., p. 823 ss.
che può comprendere il provvedimento inibitorio, ma anche l’obbligazione a contrarre. A questo proposito, va segnalato che inizialmente si era escluso che l’azione antitrust davanti alla Corte d’appello potesse comportare modificazioni dei rapporti giuridici tra le parti o la creazione di nuovi vincoli contrattuali436.
L’originaria restrizione delle possibilità che la Corte adottasse misure cautelari è stata indirettamente attenuata dalla recente modifica della l. n. 287/90, con cui si è previsto che esse possano essere richieste all’autorità garante, nel corso del procedimento amministrativo. In questo modo, pur limitando alla lettera della legge i poteri della Corte, alle parti viene restituito uno strumento alternativo di procedimento cautelare ante causam. Questa modifica ha in realtà trasferito nel procedimento amministrativo dei provvedimenti che hanno prevalenti caratteristiche processuali, con ben poco a che vedere con l’inibitoria o la sospensiva dell’azione amministrativa. Eppure queste misure vengono adottate direttamente da un organo amministrativo (l’a.g.c.m.) creando un’anomalia, oppure l’ennesima commistione di piani.
A proposito del coordinamento tra il procedimento giurisdizionale e quello amministrativo, tema già delineato a livello europeo su un piano generale, va tenuto presente che il problema si pone anche tra l’autorità garante e il giudice civile italiano, con le complessità che la duplicazione delle competenze giurisdizionali comporta. Sul ruolo delle decisioni amministrative nel processo civile l’ interpretazione prevalente in dottrina (ma comprensibilmente rifiutata in giurisprudenza), ritiene che i provvedimenti dell’a.g.c.m. siano vincolanti per il giudice, almeno in linea di principio. Conseguentemente, il giudice civile non potrebbe discostarsi dalla valutazione amministrativa data alla condotta vietata, salvo i casi in cui possa essere rilevato un vizio di legittimità che giustifichi la disapplicazione del provvedimento, in particolare, nei casi generali di incompetenza, violazione della legge o eccesso di potere437. Riconoscere un
vincolo del giudice ne comporta di fatto la subordinazione alla decisione amministrativa, limitandone grandemente il potere di apprezzamento (soprattutto per quanto si è rilevato nel secondo capitolo a proposito dell’area in cui il provvedimento amministrativo è sottratto anche al controllo impugnatorio). Il presupposto alla base di questa interpretazione che lega il processo alla
436 TAVASSI, SCUFFI [SCUFFI], Diritto processuale antitrust, cit., p. 294 s. 437 NEGRI, Giurisdizione e amministrazione, cit., p. 65 ss.
decisione dell’autorità garante, più che alle ragioni pratiche e istruttorie esaminate in ambito comunitario, nell’ordinamento italiano è legato all’idea che esista un’area di decisione amministrativa che non è surrogabile da nessun giudice.
La previsione di un dovere di adeguamento deriva da una interpretazione restrittiva del ruolo del giudice che non si sente qui di condividere, ritenendo piuttosto di doversi sottrarre al condizionamento amministrativo anche tutta l’attività di interpretazione del diritto, che in nulla abbisogna del supporto amministrativo, da limitare eventualmente al piano probatorio e fattuale. Ad una ricostruzione amministrativistica, è quindi possibile contrapporre un approccio più processualistico, che parte dal diverso dato della completezza dei precetti
antitrust. Trattandosi di norme che non abbisognano del completamento
amministrativo per raggiungere il proprio scopo, i divieti in oggetto si dimostrano perfettamente sufficienti a guidare l’accertamento dei fatti da parte del giudice. Il corollario naturale di questo ribadito legame tra il giudice e la sola legge è quello di negare al provvedimento amministrativo qualsiasi efficacia vincolante nel processo civile. L’autorità vincolante del precedente amministrativo nel processo è esclusa anche dalla prassi delle Corti d’appello, che però, di fatto, riconoscono all’autorità garante un’autorevolezza che si riflette sul giudizio. Questa ricostruzione teorica restituisce ai due livelli (amministrativo e giurisdizionale) la loro piena autonomia concettuale, essendo entrambi fondati solo e direttamente sulla legge, quindi, reciprocamente irrilevanti.
Si tratta però anche in questo caso di un’opzione troppo estremizzata, che non riesce a sposare le esigenze pratiche dell’accertamento e della tutela con la rigorosa coerenza sistematica. Il più importante difetto dell’adesione integrale all’interpretazione “autonomista” è evidentemente quello di pregiudicare le possibilità di ottenere tutela per le parti, quindi frustrando le ragioni stesse del livello privato di enforcement. Il rischio è quello di privare la parte di uno strumento di prova ineludibile e spesso fondamentale quale è l’accertamento della violazione compiuto dall’autorità. Non va dimenticato, infatti, quanto osservato a proposito dello scarso ricorso alla tutela privata, che ha finora trovato applicazione quasi esclusivamente se trainata dall’accertamento amministrativo, per potersi avvalere dei risultati pregressi. La
totale irrilevanza dei due piani di enforcement crea la stessa situazione che si verifica quando l’azione è proposta solo in sede civile, senza il previo esperimento del rimedio amministrativo. I dati dimostrano che la piena autonomia non interessa alle parti perchè non garantisce a sufficienza i loro diritti. Per questo motivo ci si sforza di recuperare al provvedimento amministrativo un ruolo probatorio nel processo, ruolo atipico e bisognoso di una delimitazione, trattandosi spesso di un misto di valutazioni tecniche e giuridiche che è difficile separare438. L’unica soluzione pare comunque quella di
includere la decisione amministrativa nella strumentazione probatoria del processo.
Se la parte non è in grado di produrre il provvedimento amministrativo per non aver partecipato al procedimento (è il caso classico del terzo danneggiato ma non denunciante), il giudice potrà utilizzare l’art. 213 c.p.c. per ottenerne l’esibizione da parte dell’autorità, o anche l’art. 210 c.p.c. su istanza di parte. L’inquadramento del provvedimento del garante tra le prove, evidentemente, atipiche, va comunque circondato di cautele. Si tratta di un elemento che non può bastare da solo a dimostrare i fatti rilevanti, né può fondare una presunzione, perché mancano i requisiti della concordanza e della gravità, mentre quello della precisione forse potrebbe essere recuperato. Si tratta quindi di un elemento indiziario e come tale sussidiario all’istruzione probatoria439. Questa opzione limitativa rischia di annullare gran parte dell’utilità
del provvedimento amministrativo, ma si muove sulla linea della coerenza sistematica e nel rispetto dei limiti del nostro ordinamento.
All’estremo opposto, l’orientamento più risalente proponeva addirittura che le Corti d’appello potessero decidere solo le controversie su diritti conseguenti a decisioni dell’a.g.c.m. Questa opzione è stata poi abbandonata, ma giova menzionarla per sottolineare che anche in Italia la ricerca di un punto di equilibrio o di una prevalenza netta tra i due piani è stata a lungo controversa. All’esito del dibattito, si è giustamente affermata una ricostruzione meno limitativa del ruolo del giudice ordinario, aprendo alle teorie più sensibili ad una piena autonomia di ogni enforcement. Secondo l’interpretazione
438 NEGRI, Giurisdizione e amministrazione, cit., p. 72 ss., sulla disapplicazione dei provvedimenti di
autorizzazione in deroga p. 220 ss.
“biraria”, da preferire, i due livelli di tutela e di procedimento sono infatti autonomi perché proteggono interessi diversi (pubblico e privato, affermazione fissata anche all’inizio di questo lavoro). Posto che le fattispecie dei divieti
antitrust sono precetti completi, che non vengono concretizzati dalla decisione
dell’a.g.c.m. ma che hanno di per sé un valore vincolante autonomo cui il giudice si deve riferire, la dottrina ne ha derivato l’impossibilità di una qualsiasi subordinazione del giudice, negando la sussistenza di un suo dovere di attendere la decisione dell’autorità, anche se il regolamento n. 1/2003/Ce spinge forse a rivedere questi rapporti in una luce di prevalenza amministrativa. In questo senso si fa riferimento alle norme che vietano al giudice nazionale di decidere in conflitto con la decisione della Commissione440.
La necessità di un coordinamento emerge anche nella prassi, che porta il sistema antitrust ad ammettere un tendenziale dovere di adeguamento del giudice alle valutazioni dell’autorità. Questo atteggiamento riflette esattamente quanto previsto dal regolamento n. 1/2003/Ue a proposito del dovere del giudice nazionale di rispettare le decisioni della Commissione, parificando ad esse quelle delle autorità nazionali in modo piuttosto plausibile. Come si è visto, la dottrina ha comunque ormai escluso che l’eventuale adeguamento giurisdizionale possa intensificarsi fino al vincolo, e ha ritenuto che la qualificazione dei fatti operata dall’autorità amministrativa, se illegittima, possa liberamente essere disattesa dal giudice441.
Da quanto precede risulta evidente che anche a livello nazionale l’interazione tra giudizio civile e procedimento amministrativo richiede una