dell’art. 9 Cost., tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione, a prescindere dall’appartenenza soggettiva dei singoli beni culturali. Infatti, ciò che rileva, ai fini della tutela che l’ordinamento accorda ai beni di interesse storico e artistico, non è la persona (fisica o giuridica) cui essi appartengono, bensì il loro carattere di culturalità, vale a dire l’insieme delle caratteristiche intrinseche che conferiscono interesse culturale al bene, rendendolo meritevole della protezione che il legislatore riserva al patrimonio storico, artistico e architettonico della Nazione.
Il patrimonio culturale italiano è un sistema complesso, vastissimo e fortemente variegato, di cui una parte (invero, molto consistente) risulta
506 M. Tocci, Il regime giuridico dei beni culturali di interesse religioso, cit., pag. 65.
507 Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare, Necessità ed
appartenente alla Chiesa cattolica e, quindi, afferente ai beni culturali ecclesiastici.
La locuzione beni culturali di interesse religioso (si parla di beni culturali ecclesiastici solo in riferimento a quelli appartenenti alla Chiesa cattolica romana) è, in verità, una presenza recente, non solo per quanto riguarda l’ordinamento amministrativo italiano e la disciplina pattizia, ma anche nello stesso ordinamento canonico; atteso che ha trovato riconoscimento formale e, conseguentemente, è stata oggetto di relativa regolamentazione solo con l’Accordo di revisione dei Patti Lateranensi del 1984508.
Va, peraltro rimarcato, che il legislatore italiano, nell’approntare i diversi cambiamenti che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema di tutela dei beni culturali, ha mostrato una costante attenzione nei confronti dei beni connotati da una valenza religiosa, anche alla luce del consistente numero di edifici e di opere d’arte connessi al culto presenti sul territorio nazionale e di proprietà di enti della Chiesa Cattolica509.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’art. 9, espressamente dispone che «per i beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa cattolica o di altre confessioni religiose, il Ministero e, per quanto di competenza, le regioni provvedono, relativamente alle esigenze di culto, d’accordo con le rispettive autorità». La grande portata riformatrice dell’articolo in esame si coglie immediatamente se lo si raffronta con l’art. 8 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, il quale affermava: «quando si tratti di cose appartenenti ad enti ecclesiastici, il Ministro per l’educazione nazionale, nell’esercizio dei suoi poteri, procederà per quanto riguarda le esigenze del culto, d’accordo con l’autorità ecclesiastica».
508 S. Amorosino, I beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento amministrativo italiano, in
Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2003, pag. 375; N. Gullo, Commento art. 9, in M.A.
Sandulli (a cura di), cit., pag. 87.
509 F. Finocchiaro, Le norme pattizie sui beni culturali di interesse religioso e il sistema delle fonti,
in G. Feliciani (a cura di), Beni culturali di interesse religioso, Il mulino, Bologna, 1995, pag.
La differenza tra le due norme emerge con disarmante chiarezza e sotto differenti profili. Una prima demarcazione concerne il riferimento oggettivo compiuto dalla norma: l’art. 8 della legge Bottai tratta esclusivamente dei beni ecclesiastici, con richiamo alla sola religione cattolica, mentre l’attuale art, 9 del codice, dando atto del principio di laicità dello Stato e del pluralismo religioso che caratterizza la moderna società, ricomprende non solo il patrimonio culturale della Chiesa cattolica (la cui importanza è ovviamente imprescindibile), ma anche i beni culturali di proprietà di altre confessioni religiose che abbiano stipulato intese con lo Stato510.
Un secondo profilo divergente è ravvisabile nell’esplicito uso della locuzione beni culturali, in luogo del termine «cose» di cui alla l. 1089/1939, che una parte della dottrina ha ritenuto indice del «radicale mutamento di filosofia giuridica, ispiratrice di una diversa ratio legis cui
rispondono le due disposizioni»511. Effettivamente, deve essere sottolineato come l’art. 8 della legge Bottai fosse indirizzato ad armonizzare due interessi che venivano percepiti dal legislatore di allora come contrapposti, quello della tutela di beni di interesse storico e artistico e quello legate alle esigenze di culto da parte dei fedeli. L’art. 9 del codice, al contrario, adotta un approccio completamente differente, identificando i beni culturali di interesse religioso quali species del più ampio genus dei bei
culturali, intesi nella definizione codicistica di «testimonianze aventi valore di civiltà»512.
Va, poi sottolineato, il richiamo al riparto di competenze con le Regioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà, è frutto delle riforme legislative degli ultimi anni (su cui infra).
L’altra grande novità contenuta nell’art. 9 del codice Urbani la si rinviene con la lettura del secondo comma, il quale dispone che «si osservano, altresì, le disposizioni stabilite dalle intese concluse ai sensi dell’articolo 12 dell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense,
510 M.A. Cabiddu – N. Grasso, Diritto dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 292. 511Ibidem.
firmato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, ovvero dalle leggi emanate sulla base delle intese sottoscritte con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, ai sensi dell’articolo 8, comma 3, della Costituzione».
Per quanto riguarda i beni ecclesiastici (per i beni di interesse religioso di confessioni diverse da quella cattolica, si veda infra § 6), il precedente
Concordato del 1929 (l. n. 810 del 1929) si occupava di beni culturali solo marginalmente. L’unico riferimento alla materia, oltretutto fatto in via indiretta, lo si trova all’art. 33, ai sensi del quale era «riservata alla Santa Sede la disponibilità delle catacombe esistenti nel suolo di Roma e delle altre parti del territorio del Regno con l’onere conseguente della custodia, della manutenzione e della conservazione». Peraltro, la stessa disposizione è stata ripresa all’art. 12, n. 2 dell’Accordo del 1984 e un omologo istituto, relativo alle catacombe ebraiche, si trova all’art. 17, n. 3 della legge 101/1989.
L’assenza di norme relative alla tutela e alla conservazione dei beni culturali nel Concordato del 1929 era frutto di una precisa scelta legislativa, espressione della concezione giuridica in materia in quel dato momento storico. Invero, in quel periodo, la disciplina inerente alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico era considerata di esclusiva competenza dello Stato, il quale (per il tramite dell’art. 8 della legge 1089/1939) riconosceva un interesse altrettanto meritevole di tutela sulle cose di interesse storico e artistico appartenenti agli enti ecclesiastici, per le esigenze legate al culto e solo in rapporto a tali necessità ammetteva la possibilità di procedere in accordo con l’autorità ecclesiastica, ma senza accennare alla possibilità di norme concordate513.
A ciò va sommato il fatto che, fino al 1974, la Santa Sede non aveva ancora elaborato una disciplina della materia dei beni culturali. Anzi, come sopra affermato (§1 del presente capitolo), nel codice di diritto canonico del 1917, la materia dei beni di interesse storico e artistico era pressoché
assente e non era rinvenibile nello stesso Codice piano-benedettino alcun riferimento normativo in tal senso514.
Il nuovo concordato, invece, all’art. 12, comma 1, stabilisce che «la Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico e artistico» con una disposizione che, unitamente alle omologhe norme di cui alle Intese con le confessioni differenti da quella cattolica, costituisce un principio di «concordatarizzazione» della disciplina giuridica dei beni culturali di interesse religioso515. Parte della dottrina, tuttavia, si è mostrata critica nei riguardi di questo principio di collaborazione, affermando che tali intese concordatarie non solo operano un rinvio a tale regolamentazione, ma vincolano fortemente lo Stato, anche per quel che concerne i beni in sua esclusiva proprietà, così «segnando un passo indietro di oltre cento anni in un settore nel quale le sue competenze si erano sempre più differenziate e articolate, per cui sarebbe stato preferibile fermarsi all’iniziale impegno di collaborazione»516, genericamente assunto all’art. 12, comma 1, senza eccedere fino a sfociare nelle intese di cui ai commi 2 e 3, consentendo alla Santa Sede di condizionare l’attività legislativa dello Stato517.
Il Codice Urbani, comunque, fa tesoro del principio di collaborazione di cui al comma 1 dell’Accordo del 1984 e, ai sensi del comma 2 dell’art. 9, ribadisce tale assunto, anche per le altre confessioni religiose. Lo Stato, così, mostra di considerare la Chiesa cattolica (e le altre confessioni minoritarie) non più (e non solamente) come istituzioni (talvolta intrusive) delegate in via esclusiva alla tutela dell’interesse culturale, bensì come soggetti che possono validamente collaborare nelle funzioni di tutela, conservazione e valorizzazione dell’interesse culturale518.
514 Ibidem.
515Ivi, pag. 294; M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 2010,
pagg. 273-274.
516 M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, cit. pagg. 273-274. 517Ivi, pag. 274.
518 A. Fuccillo, Diritto ecclesiastico e attività notarile, Giappichelli, Torino, 2000, pagg. 106
4. Il principio di collaborazione tra Stato e Regioni nella tutela dei beni