L’art. 64-bis, introdotto con il correttivo al codice del 2008, apre la
disciplina codicistica dedicata alla circolazione internazionale. La disposizione rappresenta il consolidamento del combinato disposto di cui alle precedenti leggi 88/1998 e 84/1990, al netto degli aggiustamenti provenienti dalle fonti di diritto internazionale, e possiede l’indiscutibile pregio di armonizzare l’ordinamento nazionale con quello comunitario391. Se la ratio della disciplina previgente — tanto di quella italiana quanto
di quella internazionale — era quella di tutelare il patrimonio culturale durante i conflitti armati e, successivamente, in tempo di pace, il regime giuridico attuale non è più circoscritto alla protezione dei beni culturali, ma si allarga fino a comprendere la valorizzazione degli stessi, anche nelle forme della circolazione diffusa392.
L’art. 64-bis disciplina i principi che ispirano il controllo esercitabile
sulla circolazione internazionale dei beni culturali.
390 P. Otranto, Commento art. 71, in A. Angiuli – V. Caputi Jambrenghi (a cura di), cit.,
pag. 206; C. Fraenkel-Haeberle, Commento all’art. 71, in M.A. Sandulli (a cura di), cit.,
pag. 628.
391 A. Simonati, Commento art. 64-bis, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali
e del paesaggio, cit., pag. 549.
392 M. Del Chicca, Commento art. 64-bis, in G. Famiglietti – N. Pigniatelli (a cura di), cit.,
pag. 477; D. Amirante – V. De Falco, Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Aspetti sovranazionali e comparati, Giappichelli, Torino, 2005.
In ispecie, il comma 1 definisce il fine teleologico del controllo come obiettivo di «preservare l’integrità del patrimonio culturale in tutte le sue componenti, quali individuate in base al presente codice ed alle norme previgenti». Tale assunto comporta che, tra l’interesse alla valorizzazione dei beni culturali e quello a preservarli, lo Stato accorda la prevalenza al secondo, come dimostra anche il terzo comma del medesimo articolo. Quest’ultimo, infatti, statuisce che «i beni costituenti il patrimonio culturale non sono assimilabili a merci», onde sottrarli alle molteplici norme di diritto comunitario che favoriscono la libera circolazione delle merci e che andrebbero a vanificare tutte le cautele e il controllo che lo Stato intende esercitare sui beni culturali393. Sul punto, alcuni commentatori sostengono, al contrario, che il comma 3 costituisca una mera affermazione di principio, priva di effetti innovativi a livello normativo394, atteso che l’art. 36 del TFUE afferma che — nonostante i divieti alle restrizioni quantitative all’importazione all’esportazione di merci negli stati membri, di cui agli artt. 34 e 35 del Trattato — restano fermi i divieti giustificati dalle esigenze di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, purché non costituiscano «mezzo di discriminazione arbitraria». Ciò ha indotto parte della dottrina ad affermare che i beni culturali, nell’ordinamento comunitario, rientrano nell’ampia nozione europea di merci, pur se sottoposti a regime giuridico eccezionale e derogatorio, in forza del loro alto livello di interesse. Le cose d’arte prive di peculiare interesse culturale, nella disciplina europea restano soggette al regime della libera circolazione395.
Per quanto concerne le norme internazionali richiamate al comma 2, esse appaiono in buona parte non direttamente applicabili, con la conseguenza che le norme di diritto dell’Unione Europea e quelle di diritto
393 M. Del Chicca, Commento art. 64bis, in G. Famiglietti – N. Pigniatelli (a cura di), cit.,
pag. 478.
394 L. Casini, La disciplina dei beni culturali dopo il d. lgs n. 63/2008: “erra finché l’uomo cerca”,
in Giornale di diritto amministrativo, 1008, pag. 1062.
395 C. Barbati – M. Cammelli – L. Casini – G. Piperata – G. Sciullo, Diritto del patrimonio
internazionale pattizio riferibili alle fattispecie in esame devono essere ricercate nelle forme in cui sono state introdotte nell’ordinamento italiano396.
Occorre, altresì, precisare che il regolamento CE 116/2009 — per sua natura direttamente applicabile negli ordinamenti degli stati membri (ai sensi dell’art. 288, par. 2 TFUE) e che, quindi produce i suoi effetti anche sul territorio italiano, senza che sia a tal fine necessario l’intervento del legislatore interno — si occupa di un solo aspetto relativo alla circolazione internazionale dei beni culturali, cioè quello relativo all’esportazione. In ispecie, tale atto normativo disciplina la sola ipotesi di uscita del bene culturale dal territorio di uno stato membro con conseguente accesso in quello di uno stato terzo rispetto all’Unione Europea397.
Alla luce del quadro sopra delineato, il legislatore italiano non ha compiutamente recepito la disciplina comunitaria in materia di circolazione dei beni culturali, manifestando quello che è stato definito un «atteggiamento difensivo»398.
396Ibidem. 397Ibidem.
398 F. Lafarge, Beni culturali, in M.P. Chiti – G. Greco (a cura di), Trattato di diritto
amministrativo europeo, Parte speciale, II, Giuffrè, Milano, 2007, pagg. 672 ss.; A.
Simonati, Commento art. 64-bis, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 555.
SEZIONE II
LA CIRCOLAZIONE SUL TERRITORIO DELL’UNIONE EUROPEA
1. La disciplina comunitaria
Il legislatore europeo ha iniziato a occuparsi di beni culturali e delle problematiche connesse alla materia relativamente tardi, con il Trattato di Roma del 1957. Invero, con i Trattati precedenti (CECA, 1951, CEE ed EURATOM, 1957) aveva preferito concentrarsi su tematiche quali l’agricoltura, l’economia, l’energia e i trasporti399.
I primi interventi in materia di tutela dei beni culturali, tuttavia, erano sostanzialmente limitati e poco efficaci, circoscritti solo ad aspetti strettamente correlati allo sviluppo socioeconomico del patrimonio architettonico preso in considerazione dal Consiglio d’Europa400.
Gli artt. 30-36 del Trattato di Roma si occupavano, quindi, dei beni culturali, in deroga all’art. 9 — che istituiva l’unione dogale su cui si formava la Comunità Europea, volta a realizzare lo scambio delle merci e che imponeva il divieto di dazi e di qualsiasi altra tassa di effetto equivalente all’importazione e all’esportazione — e ponevano implicitamente un limite alla competenza della Comunità. L’art. 36, invero, sottraeva alla libertà di circolazione, da cui traeva fondamento la stessa Comunità Europea, quei beni che, per le loro caratteristiche intrinseche, compongono l’identità culturale di uno Stato membro. Tali beni, d’altronde, sono di difficile valutazione economica e, proprio perché contribuiscono a fondare l’identità culturale dei Paesi di appartenenza, è a questi ultimi che deve essere attribuito il compito di individuarne il valore,
399 W. Cortese, Il patrimonio culturale: profili normativi, cit., pag. 455. 400 Ivi, pag 456.
in ispecie culturale e sociale, e l’onere di provvedere alla loro tutela, conservazione e valorizzazione401.
Alla Comunità Europea spettava, d’altro canto, il compito di intervenire qualora si fosse resa necessaria un’attività di vigilanza in ordine al rispetto di quanto stabilito in materia di beni culturali, al fine di giungere a criteri uniformi per la gestione e la valorizzazione e così evitando un’eccessiva parcellizzazione del sistema402.
Tale linea di pensiero venne ripresa anche nell’Atto Unico Europeo del 1986, ratificato dall’Italia con l. 23 dicembre 1986, n. 909 (artt. 13 e 19), nel quale si stabiliva che gli Stati possono adottare le misure che ritengono adeguate in materia di lotta contro il traffico illecito di oggetti di antichità e di arte e condivisa dalla comunicazione della Commissione CEE del 22 dicembre 1989 in cui, finalmente, fu esplicitamente affermato che i beni culturali non sono assimilabili a merci comuni. Questo fondamentale principio, affermato dal legislatore nazionale con l. 84/1990 è stato poi trasfuso nel comma 3 dell’art. 64-bis del codice dei beni culturali
e del paesaggio, segnando il carattere differente e nient’affatto equiparabile dei beni culturali con le merci comuni.
Il Trattato sull’Unione Europea (Trattato di Maastricht) del 1992, poi, ha introdotto ex novo nel Trattato di Roma il titolo IX (artt. 128 ss.),
dedicato alla cultura, ammettendo che il Trattato, nella sua formulazione
401Ivi, pagg. 456-457.
402 La Corte di Giustizia, con sentenza del 10 dicembre 1968, aveva giudicato l’Italia
colpevole della violazione dell’art. 16 del Trattato di Roma, in quanto, ai sensi dell’art. 37 della legge 1089/1939, continuava ad applicare una tassa sull’esportazione di oggetti d’interesse storico, artistico o archeologico dal territorio nazionale. La Corte ha ritenuto che la tassa fosse equivalente a un dazio doganale e che, come tale, ostacolasse la libera circolazione degli oggetti d’arte sul territorio dell’unione, ritenendo non valida la motivazione addotta dall’Italia, ossia che tali beni non potessero essere equiparati a comuni beni di consumo, attesa la natura particolare dei beni stessi e la loro rilevanza culturale e che la tassa aveva il preciso scopo di salvaguardare e tutelare il patrimonio culturale presente sul territorio nazionale. La Corte ha ritenuto (piuttosto superficialmente, invero), che i beni oggetto della disputa, nonostante il loro carattere “culturale”, fossero comunque suscettibili di valutazione pecuniaria e, come tali, commerciabili. Pertanto, la Corte ha ritenuto la tassa applicata dalla l. 1089/1939 una violazione dell’art. 9 del Trattato di Roma, che istituiva il divieto di dazi doganali, ai fine della libera circolazione delle merci nel territorio della Comunità Europea.
originaria del 1957, considerava il patrimonio culturale sotto il solo profilo economico, spogliandolo del suo imprescindibile valore culturale403.
Il Trattato di Maastricht ha previsto il conferimento della competenza legislativa alla Comunità Europea in via sussidiaria, qualora gli obbiettivi preposti non possano essere adeguatamente realizzati dagli Stati membri e possano essere meglio raggiunti con un intervento comunitario.
Di talché, l’azione della Comunità Europea, da un lato, si è fondata sul principio di cooperazione tra gli Stati membri, al fine di appoggiare, quando necessario, l’azione di questi per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale; dall’altro, ha inteso rispettare le diversità culturali nazionali e regionali, onde garantire il pieno sviluppo spirituale e culturale degli Stati membri, in tal modo (finalmente) disancorando i beni culturali dalla prospettiva meramente economica cui la normativa precedente li aveva assoggettati404.
La Commissione della Comunità Europea ha elaborato, quindi, due differenti discipline: il regolamento n. 3911 del 9 dicembre 1992, riguardante l’esportazione dei beni culturali, e la direttiva n. 7 del 15 marzo 1993, in materia di restituzione dei beni illecitamente fuoriusciti dal territorio nazionale di uno Stato membro.
Il regolamento 3911/1992, modificato in modo sostanziale a più riprese, risulta abrogato e attualmente, in tema di esportazione di beni culturali, l’Unione Europea ha adottato il regolamento 116/2009, che ora ci apprestiamo a esaminare.
2. L’esportazione dei beni culturali nell’ordinamento comunitario