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Bilinguismo, code-mixing e regressione linguistica

La maggior parte dei lavori scientifici sulle fasi di sviluppo dei disturbi linguistici nella demenza di Alzheimer si sono rivolti, fin ad ora, alla descrizione del comportamento linguistico soprattutto dei soggetti monolingui. I pochi studi che s’interessano alla situazione della popolazione bilingue si basano su un numero ristretto di pazienti, anche a causa della difficoltà nel trovare soggetti che soddisfino entrambi i criteri e che siano in grado di collaborare attivamente alle indagini. In generale, è bene distinguere tra bilinguismo simultaneo (o precoce) e bilinguismo successivo (o tardivo), che sembrano dare luogo a modelli differenti di utilizzo e di regressione delle due lingue.

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Code-mixing

Gli studi condotti su pazienti bilingui si sono in genere focalizzati sugli aspetti salienti e sulle difficoltà specifiche che interessano questa popolazione, concernenti soprattutto fenomeni di (a) scelta di codice, (b) separazione dei codici, (c) alternanza linguistica e (d) gestione dei prestiti, tutte abilità che i soggetti bilingui giovani e sani coordinano senza problemi. Fin dallo stadio precoce della malattia invece, sembra che la demenza d’Alzheimer danneggi la capacità di operare scelte linguistiche appropriate in funzione della situazione comunicativa. Quest’affermazione è confermata dallo studio effettuato su un unico caso da Dronkers, Koss, Friedland et al (1986): le analisi conversazionali di una paziente, poliglotta, parlante olandese (L1), francese (L2 appresa durante l’adolescenza) e inglese (appresa in età adulta, dopo essere immigrata in Inghilterra) se attestano, da una parte, performance di livello superiore in olandese e in inglese (lingua dominante nel suo ambiente), mostrano dall’altra una tendenza ad usare preferenzialmente la lingua madre. Gli autori hanno notato che ciò accade anche in situazioni di conversazione in cui l’interlocutore non parla olandese e accompagnandosi a una spiccata propensione a mescolare i due codici linguistici che meglio padroneggia.

Uno studio comparabile è quello condotto da De Vreese, Motta & Toschi (1988) i quali trattano con NT, un uomo trilingue di 65 anni giunto ormai a uno stadio di demenza avanzato. Le lingue originariamente parlate sono l’italiano (lingua madre), il francese (L2, appreso a 13 anni a scuola) e l’inglese (L3, 28 anni); mentre la lingua madre viene testata tramite l'International Aphasia Test Battery (Prevedi, 1975), l’esame multilinguistico prevede l’elicitazione di discorso semi-spontaneo, ripetizione di parole, pseudo-parole e frasi, recitazione di serie (giorni della settimana e numeri), riconoscimento di stimoli visivi e comprensione di comandi orali e scritti. La maggior parte di questi compiti sono tratti dal Bilingual Aphasia Test (BAT, Paradis, 1987), mentre viene aggiunto un compito di traduzione orale bidirezionale, comprensivo di 5 frasi riguardanti vari aspetti della vita del paziente e dette a voce dagli esaminatori. I risultati indicano che, sia nella conversazione sia nei test linguistici formali, la diminuzione di livello delle performance segue l’ordine di acquisizione delle lingue (l’inglese è in sostanza inesistente), sebbene la ripetizione e il discorso automatico siano preservati egualmente in tutte e tre le lingue. I problemi di

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articolazione linguistica che emergono invece nell’italiano si esplicitano nelle difficoltà di recupero di parole, discorsi farraginosi mancanti di coerenza interna e frasi incomplete e telegrafiche. Per quanto riguarda il code-mixing, il soggetto risponde quasi sistematicamente in una lingua diversa da quella dell’esaminatore e la situazione peggiora quando non viene esplicitamente richiesto di parlare in una determinata lingua, problematica che però non si riscontra nel testare la lingua scritta. In quest’ultimo ambito si evidenzia uno schema di traduzione paradossale: NT non riesce a tradurre dall’italiano all’inglese, nonostante sia del contrario e, soprattutto, a fronte di una buona traduzione dall’italiano al francese, ha grandi difficoltà a tradurre dal francese all’italiano. Questo quadro ha originato tre possibili spiegazioni:

a. Il paziente, prima dell’insorgenza della malattia aveva una preferenza per la traduzione dall’italiano al francese, cosa che in ogni caso non può essere verificata.

b. Il paziente utilizza un percorso non cognitivo, attivando una traduzione equivalente, teoria supportata dall’evidenza nella traduzione automatica.

c. Ė presente uno squilibrio nelle risorse inibitorie, teoria che però non spiega come mai la traduzione dall’italiano al francese abbia avuto successo, diversamente da quella dall’Italiano all’inglese. Sicuramente la padronanza linguistica premorbosa contribuisce a creare questo tipo di schemi, ma il problema è capire come e perché.

Gli autori concludono che questi risultati sono simili nelle manifestazioni sintomatiche a quelli trovati in casi di poliglotti affetti da afasia. Tuttavia, va sottolineato che cambia profondamente la causa determinata, nel caso dei pazienti di Alzheimer, dalla diminuzione di attenzione, dall’insorgere di difficoltà nell’autocontrollo durante il cambiamento di scenario linguistico e dalla presenza di deficit mnemonici.

Problemi di selezione di codice si riscontrano nei due pazienti bilingui tardivi tedesco/svedese e svedese/finlandese esaminati da Hyltenstam & Stroud (1989): i pazienti rivelano una tendenza a interagire nella lingua che gli interlocutori non condividono con loro e le loro produzioni attestano numerose intrusioni di una lingua

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sull’altra, fatto che, considerato che la scelta linguistica almeno a inizio conversazione appare appropriata, fa pensare a un problema più specifico di separazione delle lingue. Inoltre, durante l’elicitazione di discorso semi-spontaneo, la natura degli argomenti proposti sembra influire sulla scelta linguistica: la L1 viene preferita per parlare di azioni e ricordi risalenti all’infanzia o alla giovinezza e, quindi, immagazzinati in memoria nella lingua in cui sono stati codificati originariamente.

Le difficoltà di ordine pragmatico nel condurre questo tipo di studi su soggetti giunti a uno stadio avanzato della patologia, sono senza dubbio notevoli, poiché la valutazione oggettiva della combinazione dei fattori da considerarsi (età effettiva d’acquisizione delle lingue, grado di competenza e performance raggiunte in ciascuna, lingua dominante nell’ambiente), appare spesso problematica. Ciononostante, le ricerche finora compiute non mostrano risultati totalmente discordanti tra loro. De Santi et al. (1990) e Obler et al. (1995), analizzando 4 pazienti bilingui yiddish/inglese, tra i quali solo una bilingue precoce, notano ancora una volta come i pazienti spesso non riescano a rispondere nella lingua pertinente alla conversazione. Queste interferenze aumentano con l’aggravarsi della demenza, in virtù del fatto che le due lingue subiscono un danno di pari entità; nei casi più gravi il code-mixing è talmente pronunciato che diventa impossibile discernere in quale idioma il soggetto si stia esprimendo.

Di nuovo, Hyltenstam and Stroud (1993) e Hyltenstam, (1995) prendono a campione 6 pazienti bilingui tardivi finlandese/svedese appaiandoli per grado di gravità della demenza (stadio leggero, moderato e moderatamente avanzato). La valutazione delle loro

performance e la raccolta dei dati includono il discorso spontaneo, test formali di

denominazione di oggetti e azioni, compiti di ripetizione (frasi di lunghezza crescente e di calante frequenza degli elementi lessicali), sequenze automatiche, traduzione e compiti metalinguistici, e sono portate a compimento in sessioni distinte per ciascuna lingua. La maggior parte dei soggetti (4/6), nonostante la situazione di stretto monolinguismo della sperimentazione, mescola le lingue e, in generale, escluse ineliminabili variazioni a livello individuale, ha una netta tendenza a utilizzare la L1 laddove invece sarebbe pertinente la L2.

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Un aspetto interessante di questo tipo di indagini, è quello della direzione delle intrusioni (L1 verso L2 VS L2 verso L1), al quale si interessa Luderus (1995) in uno studio longitudinale di 3 bilingui tardivi tedesco/olandese, seguiti per un anno. Lo scopo è capire se l’uso inappropriato della lingua sia il risultato di un problema di scelta o di separazione delle lingue, e di cercare di comprenderne le possibili cause. Queste due problematiche sono distinte tra loro dal tipo di direzione dell’interferenza di una lingua sull’altra, che può essere univoca o biunivoca, e dal grado di densità dei fenomeni, che può subire un incremento con l’aumento della gravità della patologia. La situazione sperimentale di conversazione è strettamente monolingue. Il problema della scelta della lingua è, infatti, classificato come bidirezionale, in quanto può verificarsi nel corso di un’interazione monolingue condotta in qualsiasi lingua, non solo L2, e inconsistente dal punto di vista della densità.

Luderus utilizza il modello di produzione orale del bilingue di De Bot (1992) (in origine adattamento dello Speaking Model di Levelt realizzato nel 1989 per i monolingui) per individuare teoricamente dove le difficoltà di scelta e separazione possano verificarsi. Le componenti del modello includono:

a. Conoscenza e cultura generale: si riferiscono a informazioni generiche sulla realtà e sui correnti meccanismi d’interazione. Nonostante non siano considerate specifiche del linguaggio, è chiaro come abbiano un ruolo chiave nella scelta dei codici.

b. Capacità di concettualizzare e quindi di selezionare le informazioni rilevanti, creare una sequenza e formare messaggi preverbali.

c. Capacità espressiva, grazie alla quale il messaggio preverbale è organizzato in discorso tramite la codificazione semantica, sintattica e morfo-fonologica.

d. Capacità articolatoria, per mezzo della quale il discorso viene concretamente realizzato. Comprende tutti i fonemi e i parametri intonativi della L1 e della L2. Luderus afferma che la difficoltà di scelta linguistica può essere isolata come pertinente alle sole prime due componenti, mentre la separazione delle lingue sarebbe gestita negli ultimi due livelli dell’elaborazione. A questo scopo si stabilisce una situazione di

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conversazione sperimentale strettamente monolingue, i test sono eseguiti per tre volte a cadenze semestrali e includono principalmente sottotest tratti dalla Boston Diagnostic

Aphasia Examination (BDAE; Goodgiass and Kaplan, 1983) e un discorso-campione di 15-

20 minuti nel quale sono introdotte in modo casuale domande predefinite riguardanti la storia del paziente.

Basandosi sul fatto che età, contesto di acquisizione di L2 e procedimento del declino cognitivo dei tre soggetti, siano comparabili, l’autore afferma che le problematiche studiate sono fortemente condizionate dal grado di equilibrio premorboso del bilinguismo. Davanti a casi di bilinguismo bilanciato, i problemi di scelta e separazione delle lingue appariranno a uno stadio più avanzato della malattia. Viceversa, se la L1 allo stadio premorboso era nettamente dominante sulla L2, con l’insorgere della demenza si manifesterà un disturbo unidirezionale di separazione dipendente dal grado di abilità nel processare le informazioni. Luderus esclude che si tratti di un problema di scelta, in virtù del fatto che il parlante perde del tutto la propria abilità nello “scegliere” la lingua non dominante. Per la prima volta, quindi, malgrado le varie debolezze riscontrate in questo studio, si cerca di comprendere dei parametri che possano essere utilizzati per definire se una data interferenza linguistica sia dovuta a difficoltà di scelta o di separazione.

Mendez, Perryman, Ponton & Cummings (1999), identificano nella clinica affiliata all’Università della California, 51 pazienti che nel corso della loro vita hanno parlato in contesto non familiare una seconda lingua (inglese), appresa generalmente dopo i 13 anni d’età. I soggetti presentano difficoltà cognitive non ancora così gravi da impedire loro di essere autosufficienti nelle attività quotidiane essenziali. Nonostante le differenze di livello d’istruzione, età di acquisizione, frequenza di utilizzo e fluenza in lingua inglese, tutti i medici riportano una netta preferenza nei pazienti per la loro lingua madre e una riduzione della conversazione in inglese, caratterizzata da intrusioni incoscienti di parole e frasi della L1. Secondo i risultati di questo studio, dunque, i pazienti bilingui affetti da demenza tendono ad avere un handicap di espressione linguistica squilibrato a favore della lingua appresa per prima. Studi su casi di afasia dovuti a ictus e altre lesioni cerebrali mostrano che gli schemi di recupero della facoltà di linguaggio sono più comunemente sinergici: il recupero in una lingua è accompagnato da una fase di recupero anche

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nell’altra. Nei casi in cui il recupero sia differenziale, la lingua che viene riacquisita per prima può essere quella appresa più recentemente come quella usata più frequentemente o ancora quella utilizzata nell’ambiente quotidiano. Quando si parla di demenze in generale, invece, sono sempre le informazioni immagazzinate in memoria in più tenera età a essere preservate: in questo caso la lingua appresa in maniera implicita e che è stata per molti anni l’unica utilizzata. Per interpretare i vari fenomeni di interferenza osservati, gli autori suggeriscono inoltre di tenere conto della dinamica che caratterizza la produzione linguistica bilingue: al momento della scelta del codice, il soggetto bilingue inibisce, ma non disattiva mai completamente la/e lingua/e che al momento non utilizza. Con l’avanzare dell’età e della patologia, la capacità di esercitare tale controllo cognitivo peggiora inevitabilmente insieme alla capacità d’inibizione e di switch da una lingua all’altra, con le conseguenze che si possono immaginare.

Beckett (2004), nello studio condotto su due bilingui precoci inglese/afrikaans, suggerisce di interpretare i fenomeni di alternanza linguistica come elementi di un continuum: la conversazione bilingue, la cui struttura è caratterizzata da una transizione che va dal code

switching alla fusione di varietà linguistiche, passando attraverso una fase di language mixing. In questo continuum, i bilingui i più bilanciati si collocano all’altezza del language mixing che presuppone l’utilizzo significativo in senso omnicomprensivo di entrambe le

lingue.

La rassegna dei differenti studi presentata permette di tracciare un profilo generale delle difficoltà linguistiche riscontrate nei pazienti Alzheimer bilingui per quanto concerne scelta/separazione delle lingue. Resta pur vero però che la grande eterogeneità che esiste nella scelta dei paradigmi di sperimentazione e nei profili clinici e linguistici dei soggetti, la grande variabilità interindividuale e la scarsezza delle osservazioni non rendono possibile circoscrivere in maniera univoca l’impatto della demenza di Alzheimer su quei fenomeni di alternanza e di mescolanza dei codici che portano, come stadio ultimo della patologia, alla regressione e quindi alla scomparsa, di una delle due lingue precedentemente parlate.

82 Regressione linguistica

La capacità di dominare due o più lingue diminuisce con l’invecchiamento biologico, anche in soggetti che sono stati bilingui nel corso della loro intera esistenza e aldilà della presenza di patologie; è dunque ovvio che questo declino sia più rilevante in casi di demenza di Alzheimer e di altri deficit cognitivi tipici dell’anzianità. Gli studi citati (uno per tutti, Mendez, Perryman, Ponton & Cummings, 1999), lo abbiamo già accennato, segnalano la tendenza generale dei pazienti a preferire l’utilizzo della L1, qualunque sia l’età d’acquisizione della L2 e la frequenza di utilizzo. Quest’osservazione non può che portare alla conclusione che il sistema linguistico preservato più a lungo e in maniera più completa sia quello acquisito per primo. In uno studio condotto su pazienti affetti da demenza nati in Finlandia e poi immigrati in Svizzera, si nota come le capacità di comunicazione in svedese (L2) rendano difficile l’interazione, al contrario di ciò che si rileva quando la conversazione è condotta in finlandese (Ekman, 1996; Ekman, Wahlin, Norberg & Winblad, 1993). Nella ricerca di Dronkers et al. (1986) una paziente Alzheimer che inizialmente mostra una buona padronanza sia dell’olandese (L1), sia dell’inglese (L2 appresa all’età di 31 anni), con il progredire della malattia mostra una preferenza sempre più marcata per la L1.

La situazione però potrebbe cambiare se si considerassero casi di bilinguismo precoce o simultaneo, nei quali la L2 sia stata appresa durante l’infanzia. È quello che fanno Gomez Ruiz et al. (2012)esaminando un gruppo di 12 bilingui sani e uno di 12 bilingui affetti da Alzheimer, della stessa età. Per 8 dei partecipanti, il catalano e il castigliano sono le due lingue utilizzate sin dalla nascita, per i restanti 16 il catalano è la lingua madre e il castigliano la lingua di scolarizzazione, appresa tra i 3 e i 5 anni. Le competenze linguistiche sono valutate per mezzo del BAT Bilingual Aphasia Test (BAT), attraverso varie fasi di analisi:

 Valutazione della storia linguistica

 Valutazione delle abilità linguistiche in ciascuna lingua (32 sottotest);

 Valutazione delle capacità di traduzione e localizzazione di interferenze in ogni coppia di frasi/parole;

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In generale, i deficit linguistici osservati sono simili in entrambe le lingue e concernono compiti legati all'accesso lessicale (denominazione, formazione di parole e fluenza verbale) e alla semantica (comprensione orale e scritta, creazione di relazioni concettuali), manifestandosi in fenomeni di anomia per poi sfociare nell'incapacità di comprendere in maniera completa le frasi più complesse. La performance in questo tipo di compiti è influenzata anche dal progressivo attenuarsi della capacità di focalizzare e di mantenere attiva l'attenzione, e dal manifestarsi di altri deficit nei processi gestiti dalla memoria di lavoro. Al contrario, gli aspetti automatici della lingua sono ben preservati, i risultati dei test attestano dei buoni punteggi laddove le istruzioni non richiedono di affidarsi principalmente alla memoria dichiarativa. Non si notano significative differenze tra le

performance nelle diverse lingue, eccetto che per il test di fluenza e comprensione orale,

nei quali i punteggi risultano leggermente più alti per le produzioni in spagnolo (L2), probabilmente a causa del maggior prestigio sociale che ha rispetto al catalano e la conseguente maggiore estensione del vocabolario castigliano dei pazienti. Per quel che riguarda le performance nella traduzione e nei compiti di giudizio di correttezza grammaticale, intervengono invece più massicciamente operazioni coscienti che permettono di richiamare alla memoria termini equivalenti, di monitorare la produzione orale e di utilizzare le conoscenze metalinguistiche per decidere dove una proposizione sia corretta e dove no. I partecipanti di questo studio sono bilingui sin dalla tenera età, di conseguenza gli esaminatori si aspettano risultati simili in entrambe le direzioni di traduzione e nei compiti di giudizio grammaticale nelle due diverse lingue. Nel gruppo dei pazienti Alzheimer la traduzione di parole isolate pare essere migliore dalla L2 (spagnolo) alla L1 mentre avviene il contrario per quanto riguarda la traduzione di frasi intere. In confronto ai soggetti di controllo, i pazienti affetti da Alzheimer ottengono punteggi più bassi in questo tipo di traduzione, suggerendo che il sistema semantico-lessicale sia stato danneggiato dalla malattia in entrambe le lingue. Si nota tuttavia che il numero di errori tende a essere maggiore nella traduzione da L1 a L2 e che la motivazione può essere data dalla combinazione di due cause: una più larga perdita di vocabolario della L2 e difficoltà di accesso al lessico dalla L1 alla L2 in seguito ad un innalzamento della soglia di attivazione di quest’ultima. Tale richiesta di un maggior numero d’impulsi per attivare una

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voce lessicale in L2 può essere dovuto al fatto che i partecipanti a questo studio utilizzano più frequentemente il catalano che lo spagnolo. Per quanto riguarda le competenze di traduzione di frasi intere, i pazienti con l’Alzheimer hanno prestazioni di bassa qualità in entrambe le direzioni, e l’unica asimmetria si osserva in favore della L2, probabilmente a causa di fattori sociolinguistici. Nei compiti di giudizio grammaticale trattano più propriamente frasi che incorporano un errore d’interferenza di L2 in una frase in L1 e in generale ottengono punteggi leggermente più alti rispetto a quelli ottenuti nei test di traduzione, suggerendo, spiegano gli autori, un possibile divario tra il ruolo delle conoscenze metalinguistiche individuali e quello delle conoscenze linguistiche implicite nel determinare la correttezza o la non correttezza di una frase (Paradis, 2009). Le analisi del discorso spontaneo rivelano invece una buona fluenza sia in catalano sia in spagnolo, segnata dalla difficoltà nel reperimento delle parole, laddove la prosodia, l’articolazione e la struttura sintattica sono preservate. Il catalano risulta la lingua preferita in termini numerici nella produzione di parole e frasi, tuttavia il fatto di essere lingua dominante non è accompagnato né da una maggiore ricchezza lessicale, né da una ridotta difficoltà nel reperimento delle voci e in generale da alcun vantaggio in termini di accessibilità al lessico. Le produzioni nelle due lingue si caratterizzano di conseguenza come molto simili e anche i fenomeni di code-switching e d’interferenza sono in percentuale molto bassi. Nell’interpretare i dati raccolti, gli autori evidenziano come le differenze osservate in favore dello spagnolo da tutti i partecipanti si spieghino grazie alla forte influenza sociolinguistica che questa lingua ha sul catalano e ricordano quindi l’importanza di considerare le specifiche caratteristiche di ciascuna comunità bilingue al momento della codifica dati dei test linguistici. Tenuto conto di questa variabile, le differenze tra i risultati in ciascun idioma appaiono molto deboli e consentono agli autori di presupporre una rappresentazione e un’elaborazione analoghe delle due lingue, indici di una dipendenza dal medesimo substrato neuroanatomico.

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Esposte le premesse teoriche, necessarie alla comprensione della dinamica bilingue e dei processi di invecchiamento patologico e non patologico che coinvolgono il linguaggio, è possibile esplorare il comportamento linguistico di un paziente che rientra nei nostri parametri di indagine, allo scopo di indagare i possibili schemi di regressione e perdita linguistica e di suggerire una direzione di studio che possa rivelarsi proficua per delle