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Distribuzione degli errori per tipologia di costrutto sintattico nel compito della

Per portare a termine questo tipo di compito è necessario mettere in campo varie abilità linguistiche che hanno la loro origine in diversi domini della competenza. La comprensione di ogni tipo di frase richiede l’intervento competenza semantica per poter discriminare i referenti (ad esempio, se dico la ragazza spinge il ragazzo è ovvio che il mio interlocutore debba essere in grado di distinguere la ragazza dal ragazzo), ma le frasi passive e le frasi oblique necessitano di ulteriori passaggi logici per essere compresi. Nell’elaborare una frase passiva, ad esempio, è necessario avere presente che il secondo elemento è l’agente dell’azione. In vari studi si è osservato che i soggetti affetti di Alzheimer non mostrano (Kemper et al. 1998) alcuna difficoltà nella comprensione dei passivi non reversibili che possono essere compresi sulla base del solo significato delle parole (ad esempio, la mela è mangiata da Gianni), ma collezionano invece numerosi

0 0,5 1 1,5 2 2,5 3

Frasi attive Frasi passive Frasi dislocate Frasi passive dislocate

Frasi specificazione

francese italiano

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errori nei passivi non reversibili che richiedono un’accurata elaborazione sintattica per la piena comprensione (il ragazzo è baciato dalla ragazza). Osservando ulteriormente i dati si può proporre che la difficoltà nell’elaborare le frasi proposte risieda in una problematica a livello di comprensione strutturale e che la componente di comprensione semantica non abbia in questo caso un ruolo decisivo, poiché tutti gli stimoli mirano a escludere che si possa risalire alla risposta esatta basandosi sulle indicazioni del lessico. Essendo questo uno studio di carattere esplorativo, i dati qui illustrati non sono significativi a livello statistico, tuttavia permettono di farsi un’idea della direzione in cui si potrebbe impostare la ricerca su questo argomento. Come ci siamo limitati a suggerire, se effettivamente l’impatto dell’attrito linguistico fosse la causa maggioritaria della differenza di punteggio tra i diversi compiti, si potrebbe ipotizzare, almeno a questo stadio della malattia, una diversa modalità di perdita linguistica che procede in parallelo tra lingua dominante e non dominante. Ovviamente, per ammettere l’ipotesi, servirebbe uno studio su vasta scala che prenda a campione differenti popolazioni di studio, in modo da riuscire a considerare i dati raccolti presso i bilingui affetti da diversi stadi della malattia di Alzheimer al netto di tutte le cause non pertinenti. Alcune ricerche si stanno già muovendo in questa direzione, come quello recente di Kowoll et al. (2015) che indaga le differenze neuropsicologiche tra mono e bilingui affetti da Mild Cognitive Impairment e da Alzheimer e gli effetti che la demenza ha sulla lingua dominante e su quella non- dominante, e lo studio di Gollan et al. (2010), focalizzato sulla capacità di recupero lessicale.

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CONCLUSIONI

Abbiamo iniziato il presente lavoro con una sintesi delle conoscenze attuali relativamente al comportamento linguistico della popolazione bilingue colpita da demenza di Alzheimer. L’argomento riveste un interesse sociale di grande rilievo sia per l’allungamento medio della vita e l’incremento significativo della malattia dopo i 65 anni di età, sia per il fenomeno sempre più importante dell’immigrazione. Gli immigrati potrebbero essere una delle fasce della popolazione più danneggiate dalle alterazioni linguistiche che la malattia porta con sé, soprattutto se, come sembra si possa supporre, la lingua ad essere maggiormente colpita dalla malattia di Alzheimer è, tendenzialmente, quella del paese ospitante, in quanto non lingua madre e, quindi più debole. Se così, la perdita della lingua del paese di accoglienza pone il paziente in una condizione di ancor maggiore isolamento e disagio rispetto a quanto già la malattia comporta.

Successivamente, abbiamo presentato lo studio esplorativo di un caso, al fine di ricavarne suggerimenti per linee guida che possano essere utili nell’organizzazione di futuri studi che aspirino ad indagare l’impatto della demenza di Alzheimer sul comportamento linguistico tout court e, in particolare, nei soggetti bilingui.

Il paziente da noi considerato è bilingue precoce, nato in Francia da genitori italiani che, nel contesto familiare, utilizzavano la lingua di origine (il dialetto trevigiano). Il soggetto ha quindi acquisito la propria L1 (trevigiano) in tale contesto, che è rimasta peraltro l’unica occasione d’uso di tale lingua, a parte poche e sporadiche altre occasioni. Dato questo suo profilo biolinguistico, è molto probabile che la sua competenza linguistica fosse, già in fase premorbosa, carente in alcune componenti della L1 rispetto alla L2 (il francese), nella quale è avvenuta la scolarizzazione. Ad oggi, il paziente presenta una netta dominanza della L2, lingua che, come ben si comprende, ha beneficiato di contesti di utilizzo più vari. A ciò si aggiunge il fatto che la possibilità e la necessità di utilizzare il dialetto si sono quasi completamente azzerate dal 2001, anno della morte della madre. Date queste premesse e in considerazione del declino cognitivo dovuto alla neuro degenerazione associata alla malattia, le nostre previsioni sullo stato oggettivo delle due lingue erano a sfavore del trevigiano, specialmente per la componente più sensibile al danno linguistico in caso di Alzheimer, il lessico. Di fatti, i risultati mostrano un netto

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squilibrio nei punteggi proprio nei compiti lessicali. Tuttavia, va ricordato, per completezza, che tale esito sbilanciato a favore della lingua dominante, è condiviso anche dai casi non patologici di attrito ed è, quindi, da valutare con la dovuta cautela. Il lessico è, infatti, la parte più vulnerabile del sistema linguistico: dal lato quantitativo, implica un numero amplissimo di informazioni e coinvolge un network di elementi connessi e, soprattutto, tra loro interdipendenti. Ricordiamo altresì che non tutte le interferenze interlinguistiche (prestiti tra L1 e L2, convergenze di significato) sono classificabili come “attrito”: il termine designa solo il processo che porta a una generale ristrutturazione interna del sistema della L1, causando sia perdita di vocabolario, sia una generale riduzione in complessità. Più in generale, ricordiamo che gli studi più recenti suggeriscono che l’attrito non è un fenomeno facilmente classificabile che si verifica in casi estremi. Tracciare una netta linea di separazione tra parlanti interessati da attrito e parlanti che non lo sono si è dimostrato quasi impossibile (cfr. Köpke & Schmid, 2004 per una rassegna). Pertanto, la riscontrata influenza della L2 sulla L1 può essere una conseguenza della competizione tra più sistemi linguistici nello stesso cervello. Ne consegue che il soggetto analizzato dal presente studio possa, in una certa misura, essere interessato da accentuati fenomeni di attrito indipendenti dall’Alzheimer. Questa probabilità va tenuta per due motivazioni principalmente: (1) la chiara dominanza della L2, che porta con sé un aumento dell’interferenza perpendicolare a tutti i livelli linguistici, (2) la drastica riduzione dell’uso e dell’esposizione alla L1.

Pur trovandoci di fronte ad una possibile situazione di ambiguità, riteniamo di poter documentare la presenza di alcuni fenomeni specifici riconducibili alla malattia di Alzheimer in entrambe le lingue. A partire dall’osservazione che

(a) la competenza nella lingua non dominante appare preservata nelle sue componenti più implicite o, meglio, risulta danneggiata o preservata tanto quanto la lingua dominante;

(b) anche nel lessico francese si manifestano fenomeni tipici come la perdita di parole e la semplificazione delle categorie semantiche, con conseguente produzione di parafasie e ripetizioni;

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possiamo mettere a confronto gli errori e le peculiarità che ricorrono in modo analogo nelle due lingue. Il raffronto ci orienta verso un’ipotesi di deterioramento che, nella misura in cui è determinato dal declino cognitivo patologico, procederebbe in parallelo per le due lingue. Sulla simultanea disgregazione del lessico in entrambe le lingue nei bilingui affetti da Alzheimer si sono espressi studi come quello, già citato, di Gollan et al. (2010) e di Costa et al. (2012). I risultati mostrano che un livello simile di padronanza linguistica e, quindi, un bilinguismo bilanciato, si associa ad uno schema simile di deterioramento lessicale. Questa ipotesi è del resto resa plausibile dai meccanismi comunemente osservati attraverso le neuroimmagini, che evidenziano l’attività cerebrale dei bilingui sani nell’atto di svolgere compiti che coinvolgono lingua dominante e lingua non dominante. In questi casi il substrato neuronale attivato per ciascuna lingua si sovrappone, rendendo impossibile determinarne modi di attivazione differenziati. Queste osservazioni hanno fatto sì che nel caso di bilinguismo precoce gli studiosi parlino, almeno per quanto riguarda il livello macroscopico, di tessuto cerebrale condiviso tra le due lingue (Abutalebi & Green, 2007; vedere anche la prima parte di questa trattazione). Alla luce di queste considerazioni, per spiegare il deterioramento lessicale di simile entità al quale vanno incontro entrambe le lingue, Costa et al. (2012) considerano, quindi, che nei bilingui precoci l’elaborazione lessico-semantica e della rappresentazione concettuale delle lingue avvengono nella stessa zona cerebrale a sua volta colpita in modo evidente in caso di Alzheimer: i lobi temporali.

Tuttavia, nonostante le nostre premesse sull’attrito linguistico e sulla condivisione del substrato neuronale da parte di due lingue acquisite precocemente, non possiamo ignorare la differenza ottenuta tra performance in trevigiano e performance in francese, seppur attenuata dall’analisi della biografia linguistica del paziente. Ci limitiamo a suggerire una via di interpretazione che potrebbe essere esplorata in studi quantitativamente significativi e strutturalmente organizzati.

Si è detto nel corso dell’analisi dei dati emersi dal test che la malattia di Alzheimer si caratterizza come deficit di rappresentazione semantico-lessicale. Dal punto di vista psicolinguistico, un modello di organizzazione del lessico bilingue adottato da molti studiosi (Paradis, 1978; de Groot, 1993; Francis, 1999; Kroll & Stewart, 1994; Abutalebi,

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2007) prevede che i bilingui colleghino il magazzino delle rappresentazioni concettuali a due differenti rappresentazioni lessicali, utilizzate dai due diversi sistemi linguistici. Il sistema semantico-lessicale nei bilingui esperti consiste principalmente in concetti lessicalmente e sintatticamente specificati e nelle forme verbali associate. La questione da definire riguarda come i bilingui selezionino le rappresentazioni della lingua che si vuole utilizzare al momento, evitando contestualmente l’interferenza dell’altra. Come si è ricordato nella rassegna degli studi (prima parte), i meccanismi di flessibilità e di attivazione/inibizione delle informazioni (pertinenti nel primo caso, estranee al target nel secondo), e di attenzione, sono regolati dal funzionamento esecutivo. Gli esperimenti citati hanno suggerito che i bilingui, anche anziani, beneficiano di un network di controllo esecutivo più efficace (Abutalebi & Costa, 2008; Bialystok 2001; 2004; Bialystok et al. 2004, 2006, 2007, 2008) e che quindi riescono a gestire due lingue senza compiere errori di selezione (se non raramente). La causa di tale superiore funzionamento cognitivo sarebbe il bilinguismo stesso che, esercitando una pressione costante sul sistema di controllo delle funzioni esecutive, costringe ad attività mentali complesse, lungo l’intero arco della vita, fino all’età più avanzata. Infatti, rispetto ai monolingui, il parlante bilingue si trova sempre a dover scegliere la lingua appropriata tra due opzioni in competizione che, ad un certo livello, restano costantemente attivate. Questo tipo di scelta è senz’altro una tappa tra le più complicate nella pianificazione del discorso. Tale riserva cognitiva costituisce secondo Bialystok (2012; 2014) una competenza pratica altamente perfezionata, che rende il sistema cognitivo capace di un uso più efficiente di risorse cerebrali ridotte o compromesse. Nel caso della demenza, come si è già più volte ricordato, il funzionamento cognitivo colpito nelle prime fasi è quello della memoria dichiarativa; i primi sintomi, infatti, coinvolgono questo processo mnestico, elaborato in aree cerebrali diverse rispetto a quelle coinvolte dal funzionamento esecutivo (corteccia cerebrale prefrontale, circuiti cortico-sottocorticali associati). In questo senso, il funzionamento esecutivo permetterebbe di utilizzare strategie compensatorie al fine di attenuare i sintomi del disfunzionamento mnestico e dell’atrofia tipica della malattia di Alzheimer, nelle fasi iniziali e intermedie della patologia.

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A uno stadio più avanzato della malattia, infatti, se ragioniamo sull’impatto che gli accumuli di proteina Tau e le microlesioni provocate dall’Alzheimer hanno sul network corticale e subcorticale sotteso al controllo linguistico (si ricordi che la demenza di Alzheimer è definita dal punto di vista neurochimico “sindrome di disconnessione”), si può supporre che i sintomi siano collegati all’insorgenza di una disfunzione esecutiva. Recentemente vari studi hanno mostrato l’esistenza di deficit correlati all’Alzheimer nell’esecuzione di compiti che implicano differenti aspetti del funzionamento esecutivo, come quelli di inibizione, attenzione divisa, nella manipolazione dell’informazione e nella flessibilità cognitiva. Le disfunzioni descritte coinvolgerebbero, dunque, le capacità superiori determinanti nel controllo linguistico bilingue, e le zone cerebrali ad esse sottese quali la corteccia anteriore e le aree frontali inferiori (Abutalebi & Green, 2008; Abutalebi et al., 2011; Garbin et al., 2010, 2011). In linea con quanto osservato anche nell’invecchiamento non patologico, il problema della gestione semantica pertinente potrebbe essere correlato a un deficit di inibizione e di controllo esecutivo non specificamente linguistico, con modalità tutte da esplorare. Burke et al., (2000) hanno invece proposto un quadro interpretativo più specificamente circoscritto al dominio linguistico e che riconduce i problemi di recupero lessicale a una mancanza di trasmissione dell’attivazione delle connessioni semantiche, compromesse dall’età e dalla patologia. Questa impostazione si inserisce nel quadro di una teoria dell’attivazione interattiva (Node Structure Theory) che considera l’informazione linguistica immagazzinata sotto forma di rete che connette rappresentazioni simboliche di tipo semantico e fonologico. La perdita dell’informazione linguistica coinvolgerebbe più facilmente, dunque, gli elementi con meno connessioni: si osserva, infatti, ad esempio, nel caso della difficoltà di tutti i soggetti anziani, siano essi mono o bilingui, nel recuperare i nomi propri. I risultati di Gollan et al. (2010), fanno riferimento allo stesso modello connessionista, ma suggeriscono che la malattia “attacchi” primariamente l’integrità di quelle rappresentazioni semantiche che hanno una maggiore ricchezza di connessioni concettuali: nel caso del bilinguismo, quindi, il lessico della lingua dominante. Questo stato di cose sarebbe in controtendenza con l’idea che la malattia di Alzheimer

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implichi un precoce deficit nel recupero degli elementi di solito attivati con il ricorso ad un maggior sforzo cognitivo.

Resta, tuttavia, ancora molto acceso il dibattito sui meccanismi precisi che regolano l’attivazione o l’inibizione, soprattutto in relazione alla produzione lessicale.

Per quanto ci riguarda, il nostro suggerimento è di indirizzare la ricerca dei meccanismi di regressione e perdita linguistica nei casi di demenza di Alzheimer sul ruolo che detengono le funzioni esecutive nei meccanismi di controllo e gestione del linguaggio e, nello specifico, di lingue differenti. Varie sono le considerazioni che ci orientano in questa direzione.

1. La cosiddetta riserva cognitiva, superiore nei soggetti bilingui, così come sottolineato da molti autori, causerebbe la differenza di età di debutto e l’attenuazione della sintomatologia nella fase di insorgenza. In vari studi che hanno messo a confronto parlanti monolingui e parlanti bilingui, è emerso come questi ultimi, sia sani sia affetti da patologia, presentino performance migliori nei compiti che coinvolgono inibizione, processi attentivi, problem solving e flessibilità (Antisaccade Test, Wisconsin Card Sorting Test, Simon Task). Tale primato sembra da attribuirsi alle differenze operative del funzionamento esecutivo che esistono tra bilingui e monolingui.

2. Questa migliore operatività nel funzionamento esecutivo, che permette ai bilingui di avere questo vantaggio cognitivo descritto nei casi di demenza, sarebbe causato dal bilinguismo stesso, in quanto “allenato” nella continua inibizione di stimoli costantemente concorrenti rispetto alla lingua non in uso al momento. Le rappresentazioni lessicali della lingua non in uso, ad esempio, richiederebbero la presenza di un meccanismo di inibizione che ne sopprima l’attivazione, quando viene richiesta la rappresentazione dello stesso concetto in un’altra lingua.

Questo tipo di vantaggio permetterebbe poi di creare dei meccanismi di compensazione a seguito delle difficoltà di tipo mnestico che si incontrano in caso di Alzheimer.

3. Tuttavia, questo tipo di compensazione sarebbe efficace solo nella prima fase della malattia, lasciando supporre che l’Alzheimer si caratterizzi, nella sua fase

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conclamata, come deficit che interessa le funzioni esecutive, ipotesi che trova dei riscontri anche nell’analisi delle zone cerebrali da essa colpite, non ultima l’ippocampo (per una spiegazione dettagliata del ruolo svolto dall’ippocampo nel recupero semantico e per la sua relazione con le funzioni esecutive si veda la prima parte di questa trattazione).

Se, inoltre, si confermasse che i casi di bilinguismo precoce non presentano un deterioramento selettivo in una delle due lingue nettamente imputabile alle lesioni della malattia, allora si potrebbe pensare che il danno della specificità linguistica derivi da un livello pre-linguistico di meccanismi che coinvolgono vari processi cognitivi e che questo schema si riveli decisivo nel caso della regressione linguistica in casi di bilinguismo. La malattia non attaccherebbe, infatti, una delle due lingue in modo settoriale, bensì la capacità di padroneggiarle in modo che non ci siano tra le due interferenze e interazioni tali da compromettere la comunicazione. Ci si potrebbe, inoltre, spingere a domandarci se, con il progredire della malattia, tali deficit di controllo e inibizione, che lasciano liberi di competere i sistemi linguistici nel soggetto bilingue, potrebbero determinarne una differente vulnerabilità delle due lingue provocando una totale perdita di una delle due e cercare, quindi, di chiarire la natura del loro rapporto con la memoria.

Non è questa la sede per rispondere a questi quesiti. Il nostro studio punta principalmente a sollecitare la riflessione sulle tematiche e sui punti che si potrebbero approfondire in futuro relativamente a perdita e regressione linguistica patologica e di tracciare una direzione per le future indagini. Il campo delle ricerche su linguaggio e invecchiamento, fisiologico e non, è in piena espansione e di interesse crescente. Questo tipo d’indagine offre, infatti, numerosi spunti per la comprensione dell’organizzazione neuropsicologica del linguaggio nei parlanti bilingui, fornendo in particolare informazioni sulla natura del recupero lessicale, uno dei punti più dibattuti sia sulla competenza bilingue e offre dei riscontri pratici nella comprensione e nella cura della patologia nei soggetti sia monolingui sia bilingui. Numerose tecniche sia di prevenzione, sia terapeutiche possono essere messe a punto anche a seguito delle osservazioni sul linguaggio. Un esempio su tutti riguarda l’elaborazione di nuovi protocolli di riabilitazione logopedia e che tengano conto di tutte le tipologie di pazienti, con particolare attenzione

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alla popolazione anziana, troppo spesso, è trascurata in relazione agli aspetti di terapia linguistica.

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