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Un importante corpus di studi recenti suggerisce, per quanto riguarda i pazienti bilingui, un ritardo piuttosto significativo nella manifestazione dei sintomi della demenza di Alzheimer. In un primo studio effettuato su una popolazione canadese, Bialystok, Craik & Freedman (2007) hanno esaminato le registrazioni di 228 pazienti che erano stati ricoverati per danni cognitivi alla Memory Clinic di Baycrest, Toronto, tra il 2002 e il 2005, e quindi regolarmente sottoposti sia a controlli generici come la valutazione della forma fisica e dello stato mentale, sia a CT Scan (Tomografia Computerizzata)57, SPECT (Tomografia a emissione di fotone singolo)58 e screening del sangue59. Questo campione è

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La Tomografia Computerizzata è una tecnica radiodiagnostica strumentale di imaging utilizzata nella diagnosi di patologie cerebrali e in alcuni aspetti funzionali a esse correlate (per esempio nella ricerca). Le immagini ottenute con questa tecnica sono superiori per qualità e dettaglio alle immagini radiologiche classiche e possono essere sottoposte a elaborazioni computerizzate, che riescono a garantire una vera e propria acquisizione volumetrica delle porzioni di encefalo da analizzare.

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La tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo è una tecnica d’indagine medico-nucleare che impiega radionuclidi che emettono singole radiazioni gamma, introdotti dall’esterno nel corpo umano, che si distribuiscono, secondo un’affinità specifica, nei diversi distretti corporei (Dizionario di medicina

Treccani).

59 Analisi biochimiche del sangue che mirano ad individuare la presenza di marcatori, cioè di una decina di

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stato poi ridotto tramite due criteri di esclusione: 23 pazienti (12 monolingui e 11 bilingui) hanno ricevuto una diagnosi diversa da quella di demenza, altri 21 pazienti non sono riusciti a essere classificati in modo definito o come monolingui o come bilingui. Sui rimanenti 184, 132 presentavano secondo un’équipe di medici qualificata (nella quale era presente almeno un neurologo che utilizzava i criteri diagnostici NINCDS-ADRDA di McKhan e al., 1984) tutte le caratteristiche attribuibili a casi di demenza di Alzheimer, mentre gli altri, ugualmente presi a campione, altre tipologie di demenza o altre malattie neurodegenerative. Per determinare l’età di comparsa dei primi sintomi si sono basati su interviste al neurologo che aveva visitato il paziente alla prima visita clinica e che aveva quindi domandato ai parenti o ai tutori quando avessero notato i primi sintomi. Questo tipo di approccio implica senza dubbio una valutazione soggettiva da parte delle famiglie, ma lascia comunque un margine di errore trascurabile, poiché si tratta di una valutazione fatta all’oscuro dello studio. Per quanto riguarda la classificazione dei pazienti come bilingui o monolingui, ci si è affidati alla valutazione di 11 esperti in ricerche comportamentali, i quali hanno ricevuto informazioni riguardanti le lingue parlate, il livello di fluenza in inglese, luogo di nascita, data di nascita ed eventuale anno d’immigrazione in Canada. Il criterio decisivo per considerare un paziente bilingue è stato individuato nell’aver speso la maggior parte della propria vita utilizzando regolarmente almeno due lingue. Nessuna differenza rilevante è emersa tra i due gruppi relativamente al numero di anni trascorsi tra i primi sintomi e la prima visita medica, al tipo di professione esercitata e al punteggio ottenuto al Mini Mental State Examination (MMSE; Folstein, Folstein & McHugh, 1975); al contrario, si rileva che per quanto riguarda il livello d’istruzione, i monolingui (12,4 anni) mostrano un numero d’anni di scolarità significativamente maggiore di quello dei bilingui (10,8 anni). Nonostante questo vantaggio educativo, normalmente considerato un importante fattore protettivo nei confronti dell’insorgere di demenze e altri disturbi cognitivi soprattutto dovuti all’invecchiamento, i sintomi della demenza di Alzheimer si manifestano 4,1 anni più tardi per i bilingui (a 75,5 anni) che per i monolingui (71,4 anni).

(forse prodotte appunto dalla rottura delle membrane dei neuroni e sintomo precoce di neurodegenerazione), associati alla comparsa della malattia di Alzheimer.

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In un secondo studio, Craik, Bialystok & Freedman (2010), avvalendosi di criteri di selezione dei partecipanti, di cernita delle informazioni, nonché di analisi delle variabili simili a quelli utilizzati nello studio precedente (unica differenza: la raccolta dei dati relativi alle lingue parlate viene fatta più dettagliatamente), includono 109 pazienti con demenza di Alzheimer monolingui e 102 bilingui. Anche in questo studio emerge un vantaggio per quanto riguarda il livello d’istruzione scolastica per i pazienti monolingui, ma non conferma alcun riscontro nei risultati, i quali confermano l’apparizione dei primi sintomi della malattia con un ritardo di 5,1 anni per i pazienti bilingui, a 77,7 anni di età contro la media dei 72,6 anni dei monolingui.

Un’altra ricerca condotta da Gollan et al. (2011) su un gruppo di 44 pazienti bilingui spagnolo-francese ricoverati all’UCSD Alzheimer’s Disease Research Center e con diagnosi di una probabile demenza di Alzheimer, si muove in una simile direzione d’indagine. Le variabili fondamentali prese in considerazione sono il grado di bilinguismo, gli anni d’istruzione scolastica e l’età di diagnosi della malattia; il primo è stabilito sottoponendo i pazienti al Boston Naming Test (BNT) e calcolando l’indice di bilinguismo dividendo la proporzione delle figure denominate correttamente nella lingua che ha prodotto il risultato migliore per la proporzione delle figure denominate correttamente nella lingua che ha prodotto il risultato più basso, in modo che il risultato non sia influenzato dall’abilità generale nell’eseguire quel tipo di compito. Per esempio, un bilingue che denomina correttamente 3 figure in una lingua e 6 in un’altra sarà considerabile bilingue al 50% come lo sarà una persona che riesca a denominare 30 parole in una lingua e 60 in un’altra. Una volta fissati questi parametri e proceduto all’analisi delle variabili dipendenti, le correlazioni tra di esse si sono rivelate di diversa natura, a seconda della lingua dominante di ciascun soggetto: nel caso di lingua dominante spagnola è evidente la relazione tra indice di bilinguismo, il quale sale in accordo al livello d’istruzione, e i punteggi MMSE, i quali sono più alti laddove lo sono anche i punteggi del Dementia

Rating Scale (DRS; Matting, 1988), strumento più preciso e accurato nel misurare lo status

cognitivo di un soggetto affetto da specifici tipi di deficit. A loro volta questi punteggi sono legati al grado di bilinguismo e all’età di diagnosi della demenza, fornendoci un quadro riassuntivo che porta a osservare come i soggetti con un livello più alto

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d’istruzione abbiano un grado di bilinguismo maggiore, ottengano punteggi DRS più alti e abbiano avuto una prima diagnosi in età più avanzata rispetto agli altri. Per quanto riguarda i dati sui pazienti di lingua dominante inglese solo due tipi di correlazione si sono rivelati eloquenti: la prima, tra i punteggi MMSE e quelli DRS, la seconda tra i punteggi riguardanti la valutazione soggettiva del proprio bilinguismo e l’indice oggettivo. Non appare invece associata al grado di bilinguismo l’età della diagnosi, incongruenza che porta quindi a cercare un’altra via di interpretazione dei dati reperibili e a notare come i bilingui di lingua dominante spagnola presentino un livello d’istruzione considerevolmente inferiore a quello dei pazienti con lingua dominante inglese. In conseguenza di queste rilevazioni, il campione è diviso in due gruppi numericamente bilanciati e determinati dal livello d’istruzione, “alto” (≥ 12 anni) e “basso” (≤ 11 anni), decisione che permette di osservare come la relazione tra indice di bilinguismo ed età al momento della diagnosi sia operativa e direttamente proporzionale solo nel secondo gruppo di pazienti e come sia del tutto trascurabile nel primo.

Altri studi non fanno che replicare parzialmente o modulare questi risultati. Una ricerca canadese di Chertkow et al. (2010) seleziona come panel 638 pazienti divisi in tre gruppi, monolingui, bilingui (nativi del luogo, parlanti sia francese sia inglese, le lingue ufficiali del Canada), immigrati plurilingui. Esamina due variabili: l’età di comparsa dei primi sintomi e l’età al momento della diagnosi. In sintesi, gli autori arrivano alla conclusione che ci sia un effetto positivo non eclatante ma evidente del bilinguismo, riscontrabile però nei soli parlanti più di due lingue, i quali beneficiano di un ritardo di circa 5 anni sia nella comparsa dei sintomi, sia nella diagnosi. Un’interpretazione della parziale divergenza con lo studio pubblicato da Bialystok et al. (2007, 2010) può essere la confusione che viene a crearsi tra bi- o plurilinguismo e immigrazione, selezionando la popolazione canadese più avvantaggiata, poiché, di fatto, l’età della prima diagnosi può dipendere da numerose variabili associate allo status socioculturale o socioeconomico, quale ad esempio la frequenza di consultazioni cliniche. Proprio allo scopo di eliminare quest’oscillazione, Hack (2011) utilizza come campione un sotto-gruppo di partecipanti al Nun Study

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(Snowdown, 1997)60 e un certo numero d’informazioni raccolte post mortem: il numero di lingue parlate (tenendo conto che la L1 di tutto il gruppo è l’inglese), la situazione anatomo-patologica dopo autopsia e la vulnerabilità genetica ipotizzata dalla presenza o meno dell’allele ApoE-E461. I risultati mostrano un vantaggio unicamente per le partecipanti che parlano quattro o più lingue, le quali mostrano una probabilità significativamente minore rispetto ai monolingui di sviluppare la malattia di Alzheimer, e che persiste anche per le portatrici dell’allele biologicamente a rischio ApoE-E4. La debolezza di questo studio sta nel fatto che la definizione di bi- o plurilinguismo appare molto vaga, poiché prende in considerazione le lingue che i soggetti hanno dichiarato di parlare, senza un’effettiva valutazione della competenza in ciascuna di esse e senza possibilità di recuperare l’informazione, giacché le partecipanti sono, al momento dell’indagine, già decedute. Si può concludere quindi che lo studio non permette di confermare che il fatto di parlare due o tre lingue diminuisca il rischio di sviluppare la demenza di Alzheimer.