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Differenze nella rappresentazione neuroanatomica e funzionale delle lingue

Possiamo in generale affermare che l’apporto delle teorie delle scienze cognitive e dei nuovi metodi di neuro-immagini ha, senza dubbio, modificato la nostra concezione del funzionamento cerebrale concernente l’apprendimento e l’elaborazione del linguaggio. Si parla oggi, infatti, di “zona del linguaggio” in senso lato e non più di “centro del linguaggio” circoscritto alle aree di Broca e Wernicke e poche altre. Il cervello nella sua totalità ha un ruolo più importante rispetto a quello ipotizzato in passato, grazie alla scoperta dell’esistenza di vaste reti neurali interconnesse che porta a rinnovare le ipotesi sull’organizzazione cerebrale. Nello specifico, per focalizzarci sul nostro argomento, si aprono una serie di problemi teorici sulla padronanza linguistica di due o più lingue. Abbiamo detto che gli studi in neuropsicologia convergono ampiamente nel pensare che al bilinguismo si accompagni una maggiore flessibilità cognitiva, manifestata come abbiamo visto nel paragrafo precedente da un vantaggio della gestione delle funzioni esecutive. Resta ora da capire quale sia il riscontro a livello fisiologico di tali osservazioni. In uno studio del 2004, Mechelli et al. hanno ipotizzato che la capacità degli esseri umani di imparare più di una lingua sia mediata da cambiamenti cerebrali più funzionali che strutturali, dovuti alla plasticità dell’organo. Gli autori mostrano che l'apprendimento di una seconda lingua aumenta la densità di materia grigia nel lobo parietale inferiore sinistro e che il grado di riorganizzazione strutturale in questa regione è modulato dalla competenza raggiunta e dall'età di acquisizione, lasciando ipotizzare che questa relazione, tra densità della sostanza grigia e performance, possa rappresentare un principio generale dell'organizzazione cerebrale. La tecnica di analisi con neuroimaging utilizzata è la morfometria basata sui voxel (VBM, voxel-based morphometry)31, la quale misura le

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Ciascuno dei volumi elementari identici in cui viene scomposto il corpo in esame o una sua immagine tridimensionale.

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differenze focali nell'anatomia del cervello tramite un approccio statistico normalmente utilizzato per l’analisi dei dati funzionali in risonanza magnetica (SPM, Statistical

Parametric Mapping). La popolazione-target di cui gli autori indagano la plasticità

strutturale è composta di bilingui italiano-inglese destrimani sani. Per verificare le differenze di densità della materia grigia e di quella bianca tra bilingui e monolingui, sono stati reclutati 25 monolingui con una conoscenza di seconda lingua scarsa o nulla, 25 bilingui precoci che avevano imparato e praticato regolarmente una seconda lingua europea da un'età precedente ai 5 anni e, infine, 33 bilingui tardivi che avevano imparato una seconda lingua europea in età compresa tra 10 e 15 anni, messa in pratica regolarmente per almeno 5 anni. Tutti i volontari erano di madrelingua inglese di età e livello di istruzione comparabili. La morfometria basata sui voxel ha rivelato una densità della sostanza grigia nella corteccia parietale inferiore maggiore nei soggetti bilingui rispetto ai monolingui, osservabile in modo particolarmente indicativo nell'emisfero sinistro. Nonostante questo fenomeno si possa riscontrare sia nei bilingui precoci sia in quelli tardivi, si presenta preponderante nei primi; nessun altro dato degno di nota è stato rilevato a livello della materia grigia o di quella bianca. In seguito, gli studiosi hanno preso in esame una possibile relazione tra struttura del cervello, competenza nella seconda lingua ed età di acquisizione, selezionando 22 soggetti di madrelingua italiana e di inglese L2, appresa in età compresa tra i 2 ei 34 anni. La seconda lingua dei volontari viene valutata misurando la competenza nella lettura, nella scrittura e nella comprensione e produzione orali con una batteria di test neuro-psicologici standardizzati. La competenza generale appare negativamente correlata con l'età al momento dell'apprendimento, mentre la VBM rivela che la competenza linguistica della L2 è in stretta relazione con la sopracitata densità della sostanza grigia nella regione parietale inferiore sinistra e che quest’ultima è inoltre correlata negativamente all'età di acquisizione della L2. Riassumendo, si può identificare un incremento della densità nella materia grigia della corteccia parietale inferiore sinistra dei bilingui rispetto ai volontari monolingui, più pronunciato in quelli precoci che nei bilingui tardivi, e si può affermare che essa aumenti in parallelo alla competenza linguistica, ma diminuisca quando l'età di acquisizione aumenta.

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Figura 3: L'incremento di materia grigia come misurato da Menichelli et al. 2004.

Gli effetti osservati possono derivare da una predisposizione genetica o, più probabilmente, da una riorganizzazione strutturale indotta dall'esperienza. L’acquisizione di una seconda lingua da parte dei bilingui precoci, piuttosto che essere il risultato di una predisposizione genetica, avviene attraverso l'esperienza sociale. Questi risultati suggeriscono quindi che la struttura del cervello umano è modificata dall’esperienza dell’acquisizione di una seconda lingua: la regione parietale inferiore associata all’apprendimento di L2 corrisponde esattamente a una zona che, in ambito di imaging funzionale, si attiva durante i compiti di fluenza verbale. Le osservazioni di questo studio sono in linea con le crescenti prove del fatto che il cervello umano cambi strutturalmente in risposta alle esigenze ambientali, come già provato in domini dell’apprendimento diversi da quello linguistico. Lo stesso rapporto tra la densità della sostanza grigia e la

performance linguistica potrebbe costituire un esempio di un principio più generale che

correla struttura e funzione.

Per quanto riguarda la rappresentazione cerebrale delle lingue i primi articoli su studi che si sono avvalsi di neuroimmagini funzionali su bilingui sani hanno portato a ritenere che le due lingue condividano in larga parte lo stesso sistema neuronale (Abutalebi & Costa, 2008), quale che sia l’età di acquisizione. È stato inoltre suggerito che più l’apprendimento è tardivo più è sollecitato il controllo esecutivo o, comunque, maggiore è l’attività osservata del sistema neuronale, fatto dovuto probabilmente alla competizione o al conflitto che si estrinseca tra le due lingue finché non si sia stabilita una padronanza più “nativa” e dunque “procedurale”. Secondo il riassunto della letteratura sugli studi in

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neuroimaging, l’elaborazione sintattica della L1 e della L2 coinvolge in larga parte le

stesse zone del cervello, condivise pertanto dai due sistemi. Nondimeno, emergono, nel dettaglio, questioni più complicate che studi più recenti hanno individuato nelle differenze dipendenti dal grado di padronanza linguistica delle due lingue. Chee (2009) indica per esempio che i bilingui “deboli”, o comunque moderatamente a loro agio con la seconda lingua, utilizzano la propria L1 come filtro, utilizzandola come punto di partenza di un’esplicita traduzione nella L2 per quanto riguarda la produzione e, viceversa, come punto di arrivo di una traduzione da L2 a L1 nel processo di comprensione. I bilingui più equilibrati sembrano, invece, non aver bisogno di esplicitare questo passaggio.

Questa idea è stata confermata da uno studio mediante neuroimmagini di Hernandez (2009), il quale ha osservato importanti differenze a livello di attività neuronale a seconda del grado di padronanza, di età di acquisizione e di esigenze di elaborazione specifiche di ciascuna lingua, dettate ad esempio dalla trasparenza ortografica. Per fare un esempio, un compito di denominazione lessicale impegna i bilingui più bilanciati a livello di selezione lessicale (a livello fonologico e del significante), provocando maggiore attività a livello degli opercoli (BA44), mentre nei bilingui con padronanza linguistica meno paritaria sfrutteranno maggiormente, per lo stesso compito, i processi di selezione semantica che avvengono a livello del giro prefrontale inferiore (BA47). Secondo l’autore, nel primo caso si decreta un’attività neuronale ed esecutiva più diffusa e durante lo switch, nello specifico, entrano massicciamente in gioco le funzioni esecutive, coinvolgendo di conseguenza le aree cerebrali deputate alla loro elaborazione.

L’équipe di Garbin et al. (2010) ha confermato questo stato di cose, sottolineando come la linea di discrimine sia l’apprendimento precoce della seconda lingua, cioè prima dei 4 anni. Lo studio di Garbin et al. (2011) ha indagato le basi neurologiche coinvolte nello

switching da una lingua all’altra, comparando soggetti con differenti livelli di bilinguismo.

In generale, sembra che i bilingui con padronanza di L2 più debole utilizzino piuttosto la corteccia frontale sinistra inferiore, il nucleo caudato e la corteccia cingolare anteriore, mentre i bilingui bilanciati attivano l’area motrice pre-supplementare e la corteccia cingolare anteriore, aree direttamente legate al controllo linguistico o ai processi di controllo esecutivo generale. Gli autori avanzano l’ipotesi secondo la quale i circuiti

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neuronali che supportano o gestiscono il controllo del linguaggio durante la produzione orale sarebbero influenzati dal livello di padronanza della L2.

Un altro filone di ricerca interessante è rappresentato dalle implicazioni dello studio di Hernandez (2009) citato poc’anzi, il quale ha segnalato il coinvolgimento dell’ippocampo nei bilingui precoci durante i compiti di denominazione, ipotizzando che certi processi sarebbero meno coscienti o più sensoriali nei bilingui precoci che in quelli tardivi. Una maggiore attività a livello dell’amigdala lascerebbe pensare che anche le emozioni abbiano un ruolo più netto in questo tipo di competenza.

Come abbiamo visto, l’insieme degli studi a oggi disponibili evidenzia una differenza anche a livello anatomico nell’elaborazione bilingue rispetto a quella monolingue. Tuttavia, vista l’estrema varietà del panorama di indagine, è opportuno interessarsi a questo argomento facendo tesoro dei dati e dei risultati resi disponibili dalle precedenti ricerche, ma mantenendo, allo stesso tempo, un approccio libero da preconcetti e convinzioni affrettate.

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INVECCHIAMENTO COGNITIVO FISIOLOGICO VS

PATOLOGICO: SINTOMI E SVILUPPO DELLA DEMENZA DI

ALZHEIMER

Più volte utilizziamo la parola “invecchiamento” nei nostri discorsi quotidiani, senza doverci riflettere troppo sopra e dandone per scontato il significato, poiché effettivamente è ben chiara in noi la percezione di ciò che generalmente questa parola implica. Darne una definizione scientifica esaustiva si dimostra però più complicato sia per la molteplicità dei fattori e le prospettive dalle quali può essere analizzato il processo dell’invecchiamento, sia per la difficoltà a fissarne i limiti temporali e le tappe fondamentali.

Per avere un’idea di base partiamo dalla definizione che ne dà il Dizionario di Medicina dell’Enciclopedia Treccani (2010), che alla voce “invecchiamento” scrive:

Insieme di vari cambiamenti che avvengono nelle cellule e nei tessuti con l’avanzare dell’età, responsabili di un aumento del rischio di malattia e morte. La maggioranza degli animali che vive in un ambiente naturale raramente invecchia (perché muore prima per fattori ambientali o patologie): questo suggerisce che l’invecchiamento sia un fenomeno che interessa unicamente la specie umana. In altre parole, il miglioramento delle condizioni di vita, in particolare delle condizioni igieniche e dell’alimentazione, accompagnato dai progressi scientifici della biomedicina, ha permesso alla specie umana di scoprire il processo dell’invecchiamento, un processo per il quale teleologicamente non è programmata.

Per quanto riguarda la specie umana, nello specifico troviamo queste parole:

L’inizio dell’invecchiamento biologico nell’uomo coincide con la fine della fase dell’accrescimento. I processi funzionali relativi all’invecchiamento variano da individuo a individuo, anche se le alterazioni fondamentali sono simili. In particolare, il sistema muscolare può mantenere un soddisfacente stato di forma fino ai 40÷50 anni, mentre gli apparati cardiocircolatorio e respiratorio iniziano il processo di invecchiamento più precocemente. Oltre alle progressive alterazioni a carico dei vari apparati e sistemi,

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l’invecchiamento è caratterizzato da un generale rallentamento delle funzioni biologiche e da una diminuzione della resistenza dell’organismo […].

Come possiamo capire dalla prima definizione, in termini evolutivi, l’invecchiamento è generalmente considerato un prodotto secondario della selezione naturale. In una popolazione, i caratteri ereditari sono, infatti, selezionati favorevolmente attraverso la riproduzione dell’individuo portatore, il quale per poterli trasmettere ai discendenti deve, anche se pare banale da dire, vivere abbastanza a lungo da poter procreare, traguardo non scontato per l’individuo che eredita caratteri portatori di malattie o malformazioni che possono portare al decesso in età giovanile. Al contrario, il fatto di possedere caratteri che predispongono a determinate patologie in età senile o a un certo tipo d’invecchiamento non è d’ostacolo alla trasmissione degli stessi, poiché nulla impedisce di vivere fino all’età della riproduzione: per questo motivo, in una popolazione tendono ad accumularsi i geni dannosi tardivi piuttosto che quelli precoci, senza che ci sia una selezione a sfavore dell'invecchiamento e di tutte le patologie a esso associate.

La seconda definizione ci dà invece un’idea di quanto poco univoco possa essere il termine e da quanti punti di vista e domini scientifici ci si possa dedicare allo studio di questo processo. Per chiarire meglio il campo d’indagine nel quale ci muoviamo e le diverse categorizzazioni possibili del processo d’invecchiamento, ricordiamo che (1) in generale l’invecchiamento non si misura solamente attraverso il numero di anni trascorsi dalla nascita o dall’usura del corpo, ma ci sono numerosi altri fattori che ne modificano il processo naturale, in particolar modo gli avvenimenti e le tappe fondamentali della vita di ciascuno; (2) esistono più metodi per determinare un’età. Mishara e Ridel (1994), per esempio, considerano l’invecchiamento da quattro punti di vista: cronologico, fisico- biologico, psico-affettivo e sociale. È molto difficile determinare da una sola di queste prospettive una linea di demarcazione che fissi l’inizio dell’anzianità, considerando che la diminuzione delle capacità funzionali dei vari organi, l’aumento di talune malattie croniche, il declino di determinate capacità cognitive, delle funzioni esecutive e delle abilità motorie pare abbia inizio subito dopo la fase di crescita e il raggiungimento della maturità32, cioè in età molto giovane per i nostri attuali parametri sociali. Tenuto conto

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però dell’argomento sul quale ci focalizzeremo, la demenza di Alzheimer, il campo si restringe al periodo critico del deterioramento dei meccanismi omeostatici e delle alterazioni morfologiche che riguardano il cervello, l’inizio del quale è cronologicamente designato intorno ai 65 anni di età, momento a partire del quale una certa “anzianità” è, in effetti, riconosciuta anche a livello sociale.

In questa sede, ci occuperemo dell’invecchiamento cerebrale e del suo conseguente impatto sulle capacità di elaborazione delle informazioni, sia in condizioni di normalità sia in caso di demenza di Alzheimer, per arrivare a investigare le ripercussioni che questo ha sul linguaggio e la capacità di comunicare.