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Demenza di Alzheimer: manifestazione sintomatica ed evidenze neuroanatomiche

Tutti abbiamo un’idea di cosa sia la malattia di Alzheimer, ma rimane difficoltoso distinguerla nettamente da altre forme di demenza come quella senile e di definirne esattamente i confini nell’ambito delle patologie dell’invecchiamento, poiché rimane per il momento quasi impossibile individuarne evidenze anatomo-fisiologiche. Anche le evidenze sintomatiche si differenziano dai normali effetti dell’invecchiamento più per la loro natura quantitativa che per quella qualitativa. Si tratta di una malattia neurodegenerativa a preminenza corticale, di esordio tipicamente senile (oltre i 60 anni di età, anche se può manifestarsi più precocemente) e che ha un decorso cronico progressivo con prognosi sfavorevole. Deve il suo nome a uno psichiatra tedesco, Alois Alzheimer, che per primo, nel 1907, descrisse un caso clinico. Rappresenta il 35÷50% dell’insieme delle sindromi demenziali. Dal punto di vista clinico si caratterizza per il suo sopraggiungere insidioso e per l’assenza pressoché completa di segni neurologici caratteristici. Il suo decorso porta un deterioramento progressivo e globale delle funzioni cognitive, oltre a disturbi emozionali e comportamentali. Come abbiamo potuto vedere, sono disponibili numerosi dati che si riferiscono alle modifiche anatomiche che il cervello subisce nel corso dell’invecchiamento grazie al fatto che la risoluzione delle immagini ottenute dalla risonanza magnetica nucleare è talmente precisa da poter individuare

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minuscole variazioni di volume o di segnale. Nonostante ciò, ci sono pochi studi disponibili sulle modifiche istologiche e microscopiche: l’unico modo, infatti, di raccogliere tessuto analizzabile è tramite autopsia e sono poche le persone affette dalla malattia che donano il loro cervello alle “banche del tessuto”, ai fini della ricerca sull’involuzione cerebrale. Tuttavia, qualche studio recente, grazie allo sforzo delle associazioni delle famiglie dei pazienti, ha permesso di fare passi avanti nella comprensione di queste alterazioni microscopiche a livello cellulare, l’elemento lesionale più importante ai fini dell’identificazione dell’Alzheimer. È possibile, infatti, quantificare i danni subiti in base all’assenza o presenza di degenerazioni neurofibrillari, perdita neuronale o sinaptica, placche neuritiche e, in misura minore, amiloidi, e della loro distribuzione topografica nella corteccia. Sul piano macroscopico la malattia pare connessa con la diminuzione del peso dell’encefalo e con un’atrofia corticale, che interessano preferenzialmente le regioni temporo-parietali, frontali e dell’ippocampo; con l’aggravarsi dei deficit cognitivi, tale atrofia si estende all’intera corteccia associativa. Restano relativamente preservate, fino agli stadi più avanzati della malattia, aree cerebrali deputate a funzioni sensoriali e motorie. È importante specificare che la demenza di Alzheimer si caratterizza come sindrome di disconnessione dal punto di vista neurochimico: i deficit più rilevanti riguardano la trasmissione colinergica41 e sono dovuti primariamente alla degenerazione del nucleo basale di Meynert, un grosso agglomerato di neuroni che utilizzano acetilcolina42 come neurotrasmettitore. Questi neuroni proiettano diffusamente all’intera corteccia cerebrale, modulandone l’attività e contribuendo ai meccanismi di plasticità neuronale. In conformità a queste conoscenze neurochimiche, sono stati sviluppati farmaci denominati anticolinesterasici, attualmente in uso nella cura dell’Alzheimer. Essi, bloccando l’enzima che degrada l’acetilcolina a livello delle sinapsi nervose, ne aumentano la biodisponibilità, arginando il fenomeno di

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Trasmissione tramite neuroni che secernono acetilcolina.

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Neurotrasmettitore, principale mediatore chimico della trasmissione nervosa. Essa interviene in numerose funzioni fisiologiche, come la regolazione delle contrazioni cardiache e della pressione sanguigna, la peristalsi intestinale, la secrezione ghiandolare, ecc. In genere, l’acetilcotina è un mediatore eccitatorio, diffuso sia nel SNC (estese ramificazioni nel midollo spinale, nel talamo, nel sistema limbico e nella corteccia), sia in quello periferico (fibre pregangliari, simpatiche e parasimpatiche, postgangliari parasimpatiche e fibre motorie che innervano la muscolatura scheletrica volontaria).

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perdita neuronale. Vi sono inoltre altre terapie in fase di sperimentazione, mirate a modificare i processi fisiopatologici della patologia come lo sviluppo di vaccini per l’induzione di una risposta immunitaria contro la deposizione di proteina β-amiloide. L’esordio tipico vede principalmente l’insorgenza di deficit cognitivi la cui individuazione è fondamentale per la diagnosi precoce e la presa in cura dei pazienti. Le ricerche condotte da una ventina d’anni a questa parte hanno reso evidente che, se la malattia tocca, in effetti, l’insieme dei domini del funzionamento cognitivo (memoria, attenzione, linguaggio), non sono alterati sistematicamente tutti i processi a essi connessi e che vi è una grande eterogeneità negli schemi con cui questi deficit si manifestano. Nelle fasi più avanzate della malattia, si assiste a un progressivo aggravamento della sintomatologia che porta al raggiungimento di un livello di disabilità cognitiva in cui i soggetti divengono incapaci di svolgere gran parte delle attività quotidiane. Consideriamo in primo luogo l’impatto sul dominio del funzionamento mnestico in tutte le sue componenti.

Memoria a breve termine.

La memoria a breve termine ha la funzione di mantenere una piccola quantità di informazione temporaneamente attiva durante la realizzazione di differenti compiti cognitivi (linguistici, di ragionamento, etc.). Nei pazienti affetti da Alzheimer si presenta un deficit di archiviazione a breve termine dell’informazione verbale in maniera piuttosto sistematica. Diminuiscono l’effetto di recenza43 e lo span44 verbale risulta minore rispetto a quello dei soggetti sani. Ciononostante, almeno per quanto riguarda i primi stadi della malattia, queste capacità di stoccaggio ridotte non sembrano spiegabili in termini di insufficienze specifiche nel conservare quest’informazione, poiché gli effetti di similarità fonologica (maggiore facilità nel ricordare parole fonologicamente dissimili piuttosto che simili) e di lunghezza della parola (maggiore facilità nel ricordare parole corte piuttosto che quelle lunghe) sono analoghi a quelli riscontrati nei soggetti anziani sani.45 In questo

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L’effetto di recenza rinvia al fatto che, quando si presenta una lista di parole superiore allo span, accade più di frequente che i soggetti riescano a ricordare le ultime parole della lista, le quali si trovano sempre nella memoria a breve termine.

44 Lo span di memoria è la quantità massima di informazione che un individuo è in grado di ricordare,

secondo l’ordine di presentazione e di un solo tentativo di apprendimento.

45 Nell’ambito del modello della memoria di lavoro, questi due effetti permettono di valutare l’integrità del

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contesto, sono state proposte due ipotesi alternative per rendere conto delle

performance deficitarie di stoccaggio a breve termine dell’informazione verbale:

 Diminuzione del supporto delle rappresentazioni semantiche e fonologiche che risiedono nella memoria a lungo temine;

 Diminuzione del contributo dei processi di controllo.

Il contributo delle rappresentazioni nella memoria a lungo termine viene valutato comparando l’ampiezza degli effetti di lessicalità46 e di frequenza fonotattica47 nei soggetti anziani sani e in quelli affetti da Alzheimer, risultando simili in entrambe le popolazioni. Le cause dell’indebolimento delle capacità di stoccaggio sono allora da ricercarsi in una scarsità di intervento dei processi di controllo (funzioni esecutive) durante le realizzazioni di compiti di span e di ripetizione di parole.

Memoria episodica.

Esiste un gran numero di dati convergenti che indicano che i pazienti affetti da Alzheimer incontrano serie difficoltà nei compiti che coinvolgono la memoria episodica, cioè quelli di richiamo o di riconoscimento che esigono il recupero cosciente di informazioni apprese in un particolare contesto spazio-temporale. L’origine di queste difficoltà appare tuttavia multideterminata e sembra dovuta tanto a deficit di codifica, di stoccaggio e di recupero dell’informazione quanto all’alterazione di processi rilevanti di altri domini del funzionamento cognitivo. Le persone affette da Alzheimer presentano problemi nel mettere in campo una codifica elaborata (profonda, semantica) dell’informazione da trattare: se, per esempio, viene loro richiesto di ricordare liste di parole accomunate da un legame semantico, caratteristica quest’ultima che in genere facilita i soggetti sani, non si registra alcun miglioramento della performance. Se ne deduce che i malati di Alzheimer

magazzino fonologico a breve termine cioè una memoria uditiva a rapido decadimento, e un sistema di ripetizione articolatoria, che evita il declino di una particolare traccia. L’integrità del magazzino fonologico è misurata tramite l’effetto di similarità fonologica, mentre quella del processo di ripetizione articolatoria per mezzo dell’effetto di lunghezza.

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L’effetto di lessicalità fornisce una stima indiretta del contributo delle rappresentazioni lessico- semantiche alla performance dello span ed è valutato per mezzo di prove di memorizzazione seriale immediata di parole e non-parole di frequenza fonotattica elevata.

47 L’effetto di frequenza fonotattica riflette l’influenza delle rappresentazioni fonologiche sub-lessicali sulle

performance di memoria ed è valutato tramite prove di memorizzazione seriale immediate di non-parole di frequenza fonotattica sia elevata, sia bassa.

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non riescono a trarre profitto dalle caratteristiche peculiari degli stimoli esterni che di norma sono sfruttate positivamente nella codifica degli avvenimenti. Esiste anche un tasso di oblio piuttosto rapido nell’ambito di questa malattia, anche quando il livello iniziale di apprendimento dei pazienti e dei soggetti di controllo è paritario. Un’altra ipotesi possibile vede la performance episodica carente dei pazienti Alzheimer determinata da un deficit a livello della fase di recupero dell’informazione. Gli studi che hanno affrontato questa questione hanno comparato la performance dei pazienti in compiti di richiamo libero con quello di richiamo indicizzato o di riconoscimento. Tali prove fanno intervenire, durante il momento di recupero, processi associativi che attivano automaticamente la traccia degli elementi in memoria, mentre quelle che coinvolgono il richiamo libero mettono in gioco processi strategici, più controllati, che mirano a reinstallare un contesto di recupero sul quale si potranno appoggiare i processi associativi. Per questo motivo, una performance regolare nelle prove indicizzate e una deficitaria in quelle libere suggeriscono la presenza di una difficoltà di recupero di informazioni nella memoria episodica, che rivela che i pazienti affetti da Alzheimer non beneficiano particolarmente dell’aiuto fornito nel primo tipo di test. Nell’insieme si osserva che essi:

 sembrano avere maggiore difficoltà nell’utilizzare strategie di recupero efficaci;  non riescono più (contrariamente ai soggetti sani anziani) a compensare questi

deficit di recupero con l’uso di processi associativi più automatici.

Anche l’alterazione di altri schemi si inscrive nella spiegazione di questo quadro, ad esempio il marcato disagio nella codifica del contesto spaziale e/o temporale nel quale si presenta l’informazione-target e la ripercussione che su essa ha la capacità di elaborazione semantica e visuo-percettiva del paziente Alzheimer.

Memoria implicita.

Contrariamente a quella esplicita, la memoria implicita assolve funzioni mnestiche nelle quali si valuta l’influenza di un’esperienza preliminare e già metabolizzata sulla

performance di un soggetto, senza esigere un recupero intenzionale e cosciente di un

episodio di apprendimento specifico. Nel caso di questa patologia, se c’è convergenza unanime sul fatto che la memoria esplicita parrebbe deteriorarsi in maniera massiccia, la

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situazione riguardo alla memoria implicita sembra molto più ambigua, poiché gli esperimenti mostrano notevoli differenze di performance. Una proposta iniziale per rendere conto di questi dati ha focalizzato l’attenzione sulla distinzione tra priming percettivo e priming concettuale: i pazienti affetti da Alzheimer, infatti, per lo più, falliscono nei compiti di associazione libera o di produzione di esempi categoriali (priming concettuale), ma hanno una prestazione soddisfacente nei test di identificazione di parole e di non-parole, denominazioni di immagini o di lettura di parole isolate (priming percettivo). Questa distinzione generica che vede, da un lato, preservato il priming a livello percettivo e, dall’altro, alterato il priming concettuale, è stata però messa in dubbio da nuovi dati, che hanno portato alla formulazione di due spiegazioni alternative per i profili dei pazienti: 1) individuazione di una distinzione in compiti di identificazione e compiti di produzione, 2) considerazione della contaminazione dei processi impliciti da parte di quelli espliciti.

Per testare il primo punto si sottopongono i pazienti a compiti di priming nei quali devono identificare (in seguito a un’esposizione preliminare) stimoli intatti o danneggiati, indicandone forma e senso e a compiti di priming di produzione, nei quali devono avvalersi di un’indicazione (inizio parola o categoria semantica) che guidi il recupero delle risposte tra moltissime possibilità. L’effetto priming diminuisce nel secondo tipo di compito, ma non in quelli di identificazione: pare, infatti, che la diminuzione delle risorse attentive associate alla malattia abbia ripercussioni più marcate su quelli che necessitano di un maggiore sforzo cognitivo, cioè quelli di produzione.

Il secondo punto si spiega con il fatto che i compiti di memoria implicita, per quanto portati a termine con processi in preponderanza automatici, non possano fare a meno del contributo di processi espliciti durante determinate fasi dell’acquisizione. Le divergenze dei risultati presenti nella letteratura sarebbero quindi dovute proprio al deterioramento dei processi di controllo.

Memoria procedurale.

Un discorso simile può essere fatto nei riguardi dei dati relativi all’impatto della malattia sulla memoria procedurale. La memoria procedurale riguarda la nostra capacità di acquisire progressivamente nuove abilità a seguito di una lunga pratica reiterata nel

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tempo, a immagazzinarle e a recuperarle quando necessario. Tali abilità sono fissate da procedure che non possono esprimersi che nell’azione. Le ricerche interessate al rapporto tra memoria procedurale e Alzheimer si sono dedicate principalmente a due grandi campi di indagine: 1) l’esplorazione della capacità da parte dei pazienti di acquisire nuove abilità (percettivo-motorie, percettive o cognitive); 2) il monitoraggio della preservazione di abilità acquisite anteriormente alla patologia (nelle quali i pazienti mostravano un grado elevato di esperienza). Il secondo campo è legato alla nozione di riserva cognitiva, concetto che sarà utile nel terzo capitolo e che riprenderemo. La possibilità di acquisire nuove abilità percettivo-motorie resta invece in campo, e rimane comparabile a quella dei soggetti anziani sani. I risultati contraddittori potrebbero essere imputabili, come accennato e come detto per la memoria implicita, al coinvolgimento di altre funzioni cognitive nelle prime fasi di apprendimento: certe informazioni sono, infatti, elaborate dalla memoria di lavoro, dalle funzioni esecutive e/o dalla memoria episodica.

Memoria autobiografica.

Nonostante solo pochi studi si siano focalizzati sulla memoria autobiografica nei pazienti Alzheimer, pare che essi vadano incontro a una progressiva perdita delle loro conoscenze autobiografiche, a partire dai ricordi più recenti. Piolino et al. (2003) hanno somministrato un questionario semi-strutturato riguardante tutti i periodi della vita e che permette di valutare lo stato dei ricordi autobiografici di natura episodica e di natura semantica (richiamo di avvenimenti specifici, senza bisogno di un contesto specifico). L’analisi qualitativa degli elementi raccolti ha permesso di etichettare i ricordi preservati da questi pazienti come di natura semantica.

Metamemoria.

La metamemoria designa un insieme di processi cognitivi di alto livello che operano sulla memoria e che comprendono le nostre convinzioni riguardo alla nostra efficacia cognitiva, le nostre conoscenze generali sulla memoria e sui processi di autoregolazione del nostro funzionamento mnestico. Il quesito che nasce spontaneo è se i pazienti affetti da Alzheimer siano coscienti della loro condizione cognitiva o se essi presentino anche dei deficit di meta memoria. Da quanto che emerge dalle ricerche, paiono essere interessati da insufficienze specifiche: sottostimano, infatti, le proprie difficoltà mnestiche

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(anosegnosia, mancanza di coscienza dei propri problemi), sopravvalutano le proprie capacità di recupero mnemonico, ma, dopo essersi confrontati con un compito di valutazione della memoria, la loro capacità predittiva migliora. Non solo, sono in grado di correggere il tiro della loro predizione in funzione delle caratteristiche del test o del materiale da memorizzare, mostrandosi quindi capaci di formulare un giudizio mirato nel breve periodo. Studi che utilizzano test di Feeling of Knowing (FOK)48 hanno mostrato che la dissociazione tra episodico e semantico vale anche nei giudizi metamnemonici; i pazienti Alzheimer riescono, infatti, a predire con precisione se, in mezzo a varie proposte, potranno identificare la parola che corrisponde alla definizione data (FOK semantico), ma falliscono laddove devono predire le loro prestazioni in ulteriori riconoscimenti nel FOK episodico.

Per avere un quadro completo delle possibili cause delle incongruenze fino ad ora rilevate, è opportuna una panoramica sulle altre componenti del sistema cognitivo e del loro rapporto con la demenza di Alzheimer.

2.4 Incidenza della demenza di Alzheimer sul funzionamento attentivo