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Agli studi fin qui citati vanno aggiunte altre indagini che hanno contribuito a chiarire, almeno per il momento, il meccanismo e i fattori di ritardo nella manifestazione dei sintomi di demenza. Mortimer (1997) osserva come nel 10-40% dei casi d’autopsia sono presenti lesioni cerebrali corrispondenti ai criteri della demenza di Alzheimer, pur in assenza di alcun tipo di sintomo premortem. Similmente, Valenzuela & Sachdev (2006)

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Il Nun Study é uno studio condotto su un gruppo di 608 suore residenti negli USA e di età media attuale di 75 anni, che hanno acconsentito a essere valutate nel corso degli anni, dando l’autorizzazione affinché il ricercatore utilizzi i loro diari personali, i loro compiti di scuola e, post-mortem, il loro encefalo. I dati dello studio sono reperibili sul web, all´indirizzo www.nunstudy.org.

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Ricerche mediche associano l’allele epsilon4 dell’Apolipoproteina E (APOE) ad una maggiore vulnerabilità delle strutture cerebrali temporali e dunque ad una maggiore predisposizione verso la malattia di Alzheimer. Uno studio di Pievani et al. (2009) si è inoltre concentrato sull’effetto che ha sull’intero mantello corticale, cercando di identificare il rapporto tra presenza di APOE e atrofia corticale nella malattia di Alzheimer. Utilizzando una tecnica computazionale molto avanzata e prendendo in esame pazienti affetti da AD portatori e non portatori dell’allele APOE4, è emerso che sia i pazienti portatori che in non portatori del genotipo APOE4 esibiscano atrofia corticale diffusa rispetto agli anziani sani (circa 15% di materia grigia in meno); inoltre, il genotipo APOE4 pare modulare il fenotipo AD, risultando maggiormente associato ad un pattern diverso di vulnerabilità in sede temporale e fronto-parietale.

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riportano uno studio nel quale il 30% delle autopsie evidenzia la presenza di lesioni corrispondenti a una demenza di Alzheimer in uno stadio da moderato a severo. I soggetti non avevano mostrato in vita nessun segno di disturbi cognitivi. Una spiegazione plausibile a queste osservazioni è supporre l’esistenza di una riserva cognitiva consistente in una serie di processi cognitivi preesistenti utilizzati attivamente dal cervello per tentare di superare, grazie all’ausilio di diverse strategie compensatorie, il danno provocato in caso di lesioni. L’assunto di una riserva cognitiva comportamentale suggerisce che un’attività mentale complessa nell’arco della vita permetta di impiegare un repertorio di comportamenti cognitivi flessibili in presenza di una soggiacente disfunzione neurale (Stern, 2002). Valenzuela & Sachdev (2006) e Stern (2002, 2006) la distinguono dalla riserva cerebrale neurologica, che presenta le stesse caratteristiche strutturali, innate, biologiche e di derivazione genetica, del cervello di ciascun individuo: si parla della consistenza del volume cerebrale, di un peso maggiore della norma o di connessioni interneuronali più sviluppate. La riserva cognitiva di tipo comportamentale si caratterizza per la grande variabilità intersoggettiva e per il fatto che essa è determinata dal tipo di esercizio mentale che l’individuo compie nel corso della propria vita. Può dunque accadere che tra due pazienti con la stessa riserva cerebrale, il paziente con maggiore riserva cognitiva possa tollerare una lesione più vasta rispetto all’altro, prima che la patologia sia evidente. I possibili fattori con effetto protettivo sono stati singolarmente in termini di riduzione di rischio e incidenza della demenza. Riassumendo, sono apparsi determinanti (1) la durata e il livello d’istruzione, (2) lo status occupazionale, (3) un alto quoziente d'intelligenza premorbosa, (4) l’esercizio di attività stimolanti nel tempo libero, sia intellettuali sia fisiche. Il bilinguismo implicherebbe a tutti gli effetti delle attività mentali complesse poiché esercita una pressione costante sul sistema di controllo delle funzioni esecutive e persiste a qualsiasi età, anche la più avanzata. Una spiegazione possibile e ormai accettata è da ricercarsi nel fatto che in un soggetto bilingue le due lingue restano costantemente attivate a un certo livello, lasciando supporre che quest’attivazione congiunta abbia delle conseguenti implicazioni sui processi linguistici e non. Infatti, due codici contemporaneamente attivi lasciano spazio all’insorgere di un problema che non si pone per un soggetto monolingue: oltre agli obblighi di selezione di

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registro e lessico normalmente presenti, il parlante bilingue si trova a dover scegliere la lingua appropriata tra due opzioni in competizione. Tra le difficoltà imposte dalle scelte di pianificazione del discorso, la scelta di un idioma è sicuramente una delle più difficili da compiere, giacché le due lingue soddisfano egualmente un gran numero di criteri per cui l’unica differenza è determinata dal contesto sociale (Bialystok 2011). Di conseguenza il sistema di controllo esecutivo generale di un parlante bilingue è permanentemente implicato nel processo di elaborazione linguistica, cosa che non accade per i parlanti monolingui.

Grazie alle tecniche di neuroimaging si possono fare osservazioni oggettive piuttosto approfondite senza dover attendere la morte del paziente e con il vantaggio di poter procedere alla ricerca di correlati neuroanatomici allo status comportamentale e cognitivo che, allo stesso tempo, si osserva con altri supporti. Uno studio recente di Schweizer, Ware, Fischer, Craik & Bialystok (2012) si pone l’obiettivo di verificare l’ipotesi che i soggetti bilingui affetti di Alzheimer con uno status cognitivo paragonabile a quello di pazienti monolingui, presentino, invece, all’osservazione neuroanatomica, un’atrofia cerebrale più estesa: un risultato di questo tipo suffragherebbe l’ipotesi che la riserva cognitiva dei soggetti Alzheimer bilingui permette un funzionamento cerebrale maggiore di quello che lo stesso stadio clinico della malattia permette ai monolingui. Il metodo utilizzato prevede di mettere a confronto un gruppo di monolingui e uno di bilingui sulla base dello stato cognitivo o del grado di gravità patologico valutato grazie a test psicologici, e di supporre che il gruppo con una riserva cognitiva più estesa debba mostrare uno stadio di maggior gravità clinica. Gli autori selezionano 20 pazienti bilingui lungo tutta la durata della loro vita e 20 monolingui che presentano una tomografia computerizzata come parte integrante del processo di diagnosi. In generale, le alterazioni nelle strutture cerebrali si presentano già nelle prime fasi della malattia e le zone più colpite da atrofia risultano i lobi medio-temporali. Il grado di atrofia viene definito tramite misurazioni elaborate nel corso di studi precedenti: Zhang et al. (2008) analizzano le immagini ottenute tramite CT in 248 casi di demenza e di 59 soggetti di controllo utilizzando una serie di proporzioni basate su misurazioni lineari volte a valutare l’atrofia globale, locale, corticale e centrale. Sono soprattutto gli incrementi proporzionali tra le

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misurazioni lineari del corno temporale, del terzo ventricolo e della cisterna soprasellare che differenziano i pazienti Alzheimer dai soggetti di controllo; Frisoni, Rossi & Beltramello (2002) sottolineano un tasso di precisione straordinariamente alto nel differenziare i pazienti utilizzando la misurazione dell’ampiezza radiale del corno temporale. Le misurazioni lineari tramite CT sono quindi ottenute usando i calibri digitali contenuti in Analize 9.062 ed effettuate come descritto da Zhang et al. (2008, 2009): si ricavano quindi l’ampiezza massima trasversale intercraniale (A), la cisterna soprasellare (B), il diametro del corno temporale (C), la minima distanza tra i gangli della base (D), la massima ampiezza del corno frontale (E), la massima ampiezza del terzo ventricolo (F) e la massima ampiezza dell’osso coronale (G). Queste misurazioni permettono di calcolare i seguenti indici: la proporzione della cisterna soprasellare (B/A), la proporzione del corno temporale (C/A), la proporzione della distanza minima tra i gangli della base (D/A), il numero di Huckman, la proporzione del terzo ventricolo (F/A) e l’indice di Evans (E/G).

Figura 4: Misurazioni ottenute da immagini assiali della tomografia computerizzata. Massima ampiezza trasversale intercraniale (A), cisterna soprasellare (B), diametro del corno temporale (C), distanza minima tra i gangli della base (D), massima ampiezza del corno frontale (E), massima ampiezza del terzo ventricolo (F) e massima ampiezza dell’osso coronale (G), (Schweizer et al., 2012).

Si ottengono inoltre misurazioni del diametro radiale del corno temporale utilizzando il protocollo delineato in Frisoni et al. (2002). I risultati conseguiti evidenziano un’ampiezza radiale del corno temporale, verosimilmente la misurazione al momento più precisa

62Software di ricerca per la visualizzazione, l’elaborazione, la segmentazione, la registrazione e la

misurazione avanzata compatibile con le diverse modalità d’imaging biomedico, incluse MRI, CT, PET, SPECT, ultrasuoni, e microscopia digitale.

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dell’atrofia del lobo temporale e della progressione della demenza di Alzheimer a livello neuroanatomico, sensibilmente più ampia nei pazienti bilingui che in quelli monolingui. Si può quindi affermare che questo primo studio sull’argomento mostri che il gruppo di pazienti bilingui esibisce, rispetto ai pazienti monolingui, una maggiore atrofia cerebrale nelle aree tradizionalmente utilizzate per distinguere i pazienti affetti da demenza dai soggetti sani (corno temporale e terzo ventricolo), nonostante i due gruppi siano omogenei per livello cognitivo generale, performance mnemoniche e anni d’istruzione.

Figura 5: Le immagini mostrano un osso coronale (A) in condizioni patologiche e la sezione assiale (B) di 2 mm in cui l’ampiezza del corno radiale dovrebbe essere misurata. Am indica l’amigdala; hip, l’ippocampo (Frisoni et al., 2002).

Non è da escludersi che le differenze osservate tra i due gruppi siano attribuibili a fattori diversi dal bilinguismo, ma almeno quanto ad anni d’istruzione e status professionale si nota nei dati sociolinguistici un innegabile vantaggio dal lato monolingue. Per quanto riguarda lo status d’immigrati di buona parte dei soggetti, studi precedenti hanno confermato la non-rilevanza di questa variabile. Rimane da capire il preciso meccanismo grazie al quale il bilinguismo conferisce questo vantaggio. Come abbiamo già visto,

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numerosi studi costatano come certi fattori contribuiscano a incrementare la riserva cognitiva di un individuo, ritardando l’insorgere della demenza e facendo sì che prima che i sintomi siano manifesti si notino consistenti cambiamenti neuroanatomici. Il fatto che alle due categorie di pazienti sia stato riconosciuto lo stesso status cognitivo supporta l’ipotesi di riserva cognitiva declinata nel modo descritto dai suoi formulatori, incrementata dal fattore del bilinguismo e in grado di ridurre i sintomi che si accompagnano alle modificazioni cerebrali patologiche associate all’Alzheimer. Ovviamente seppur statisticamente rilevanti, le osservazioni ricavate da questo studio sono da interpretarsi con cautela, vista la ristrettezza del campione e le numerose questioni che restano aperte. In generale sembra che fattori quali l’educazione scolastica, lo status sociale, le attività fisiche e intellettuali modifichino alcuni aspetti dell’attività cerebrale (afflusso di sangue o connettività neuronale) che permettono di controbilanciare il peso delle patologie. In questo senso, tutti i tipi di riserva sono in definitiva ‘riserva cerebrale’. Un’altra possibilità da considerare è, secondo gli autori, che la riserva cognitiva si comporti come una competenza pratica altamente perfezionata, in grado di rendere il sistema cognitivo capace di un uso più efficiente di risorse cerebrali ridotte o compromesse. Le indagini su tali meccanismi in futuro dovranno calibrarsi su un ampio campione di pazienti, scelto possibilmente in modo da verificare numerose variabili.