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Malattia di Alzheimer e bilinguismo: perdita e regressione linguistica, studio di un caso

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Academic year: 2021

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Sommario

1 ... 4

STUDIARE IL CERVELLO BILINGUE: L’ELABORAZIONE LINGUISTICA ... 4

1.1 Bilinguismo: una definizione del campo di indagine ... 4

1.2 Modalità di utilizzo della lingua ... 14

1.3 La dinamica della competenza bilingue ... 16

1.4 Bilinguismo e funzioni esecutive ... 32

1.5 Differenze nella rappresentazione neuroanatomica e funzionale delle lingue ... 38

2 ... 43

INVECCHIAMENTO COGNITIVO FISIOLOGICO VS PATOLOGICO: SINTOMI E SVILUPPO DELLA DEMENZA DI ALZHEIMER ... 43

2.1 Involuzione delle strutture cerebrali ... 45

2.2 Il linguaggio nel processo di invecchiamento non patologico ... 48

2.3 Demenza di Alzheimer: manifestazione sintomatica ed evidenze neuroanatomiche ... 55

2.4 Incidenza della demenza di Alzheimer sul funzionamento attentivo ed esecutivo ... 62

2.5 Effetti generali sul linguaggio e sui processi semantici ... 64

3 ... 66

LA DEMENZA DI ALZHEIMER NEL SOGGETTO BILINGUE: LO STATO DELL’ARTE ... 66

3.1 Effetto protettore del bilinguismo ... 66

3.2 Nozione di riserva cognitiva ... 70

3.3 Bilinguismo, code-mixing e regressione linguistica. ... 75

PARTE SECONDA……….86

PREMESSA ALLA PARTE SECONDA ... 87

4 ... 88

METODI E MATERIALI ... 88

4.1 La raccolta dei dati ... 88

4.2 Verifica preliminare delle condizioni di applicabilità ... 95

4.3 Criteri di attribuzione dei punteggi ... 98

5 ... 114

IL PAZIENTE ... 114

5.1 Diagnosi e descrizione della malattia ... 114

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ii

5.3 Verifica preliminare delle competenze linguistiche ... 116

5.4 Riepilogo e conclusioni ... 117

6 ... 119

DATI: RACCOLTA E INTERPRETAZIONE ... 119

6.1 Raccolta dei dati ... 119

6.2 Analisi dei dati e calcolo dei punteggi ... 121

6.3 Punteggi finali ... 159 CONCLUSIONI ... 166 Riferimenti bibliografici ... 174 APPENDICI ... 195 APPENDICE I………...194 APPENDICE II………..195 APPENDICE III……….198 APPENDICE IV……….214 APPENDICE V………..222

INDICE DELLE FIGURE Figura 1 : Visione integrata del bilinguismo secondo Köpke & Schmid, 2007 ... 26

Figura 2: Aspetto della terza tavola dello Stroop Test. ... 36

Figura 3: L'incremento di materia grigia come misurato da Menichelli et al. 2004. ... 40

Figura 4: Misurazioni ottenute da immagini assiali della tomografia computerizzata, Schweizer et al., 2012. ... 73

Figura 5: Misurazioni dell'ampiezza del corno radiale, Frisoni et al., 2002. ... 74

Figura 6: Un esempio del layout estratto dalla versione francese del protocollo. ... 88

Figura 7: Un esempio della terza sezione del protocollo. ... 90

Figura 8: Fig. 2 del compito di denominazione. ... 93

Figura 9 : fig. 5, 10, 11 del compito di denominazione. ... 93

Figura 10: Schema dell’elaborazione del discorso a partire da un supporto visivo, secondo Nespoulous, 1993. ... 98

INDICE DELLE TABELLE Tabella 1: Principali disturbi cognitivi e comportamentali nella malattia di Alzheimer. ... 65

Tabella 2: Riassunto delle competenze indagate dal protocollo. ... 95

Tabella 3: Schema delle strutture linguistiche prese in esame dai diversi compiti del protocollo. . 95

Tabella 4: Scala del livello di istruzione secondo Poitreanaud ... 99

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Tabella 6: Numero di parole prodotte in media nella prova di fluenza verbale in funzione dell’età e

del livello di studio. ... 102

Tabella 7: Parametri di correzione del punteggio del test di fluenza. ... 104

Tabella 8: Riferimenti di normalità-patologia in relazione alla fluenza. ... 104

Tabella 9: Dati biografici e clinici del paziente ... 117

Tabella 10. Prospetto riassuntivo delle informazioni ricavate dal questionario sociolinguistico. . 118

Tabella 11: Punteggi ed errori nel compito di individuazione di oggetti. ... 121

Tabella 12: Punteggi ed errori nel compito di comprensione sintattica. ... 123

Tabella 13: Punteggi ed errori del test di fluenza. ... 125

Tabella 14: Classificazione degli elementi prodotti dal paziente nel test di fluenza. ... 126

Tabella 15: Errori del paziente nel compito di denominazione di immagini. ... 128

Tabella 16: Errori del paziente nel compito di denominazione di oggetti. ... 158

Tabella 17: Risultati globali del soggetto. ... 159

INDICE DEI GRAFICI Grafico 1: Rapporto tra forma lessicale maggioritaria e le varianti utilizzate in risposta allo stesso stimolo visivo. ... 94

Grafico 2 : Risposte del paziente nella denominazione delle figure (in francese, lingua dominante) risultate problematiche, a confronto con il gruppo di controllo. ... 127

Grafico 3: Differenza tra risposte corrette e incorrette, tra lingua dominante e non-dominante 130 Grafico 4: Dettaglio dei punteggi ottenuti dal signor R. nella prova di discorso spontaneo per ciascuna lingua ... 157

Grafico 5: Confronto dei risultati nelle varie parti del protocollo. ... 160

Grafico 6: Distribuzione degli errori per tipologia di costrutto sintattico nel compito della comprensione... 164

INDICE DEGLI ESTRATTI DAL PROTOCOLLO Estratto ALIBI 1 ... 122 Estratto ALIBI 2 ... 126 Estratto ALIBI 3 ... 129 Estratto ALIBI 4 ... 134 Estratto ALIBI 5 ... 146 Estratto ALIBI 6 ... 158 Estratto ALIBI 7 ... 159 Estratto ALIBI 8 ... 163

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INTRODUZIONE

La ricerca neurolinguistica, nello stabilire la natura dei rapporti tra cervello e linguaggio, impiega le proprie tecniche generalmente in tre campi di indagine: (1) lo studio dell’acquisizione del linguaggio, utile per una migliore comprensione della natura dei disturbi in età evolutiva, (2) lo studio del comportamento normale, efficace per indagare anche lo sviluppo filogenetico del linguaggio e (3) lo studio della patologia. Descrivere gli effetti del danno cerebrale sulle strutture e sui processi linguistici apre, al pari degli altri campi d’indagine, nuove prospettive riguardo alla determinazione delle caratteristiche neurali del linguaggio e spesso proprio grazie allo studio di lesioni connesse a determinati disturbi e all’ausilio di tecniche sempre più sofisticate, si sono formulate nuove ipotesi sulle aree cerebrali deputate all’elaborazione delle informazioni linguistiche. Dall’originale concezione localizzazionista degli esordi della disciplina, si è ben presto passati a una concezione connessionista che ammette sì l’esistenza di aree cerebrali localizzate in grado di svolgere attività complesse, ma afferma altresì che tali aree siano connesse tra loro attraverso via associative. Oggi si ritiene che le funzioni complesse come quella linguistica non possano che essere il prodotto di estese reti neurali dislocate sia in strutture corticali che sottocorticali, e che i loro epicentri, aree individuate al loro interno, svolgano il compito di associare e integrare le informazioni da esse elaborate.

L’osservazione e l’individuazione precisa di una qualsiasi disfunzione, non solo fornisce preziose informazioni sulla natura delle alterazioni messe in evidenza, ma permette anche di poter accedere, tramite vie indirette ma efficaci, tanto ai meccanismi che concernono il funzionamento del linguaggio nel soggetto considerato “normale” quanto alle strategie, spontanee o indotte, messe in opera per tentare di adattarsi alla disfunzione e compensare al meglio le carenze espressive che colpiscono in caso di patologia.

Nello specifico, ho scelto di approcciarmi alle questioni riguardanti il declino cognitivo dovuto all’età e alle patologie da essa derivate, poiché nel corso di questo secolo gestire in maniera efficace le problematiche sanitarie ed economico-sociali connesse a una popolazione anziana sarà una delle grandi prove che i governi e gli istituti di ricerca si troveranno a dover superare. Gli individui oltre i 60 anni sono, infatti, la fascia di popolazione in continua crescita e se al momento sono circa 700 milioni in totale, si

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prevede che nel 2050 saranno circa 2 miliardi (Department of Economic and Social Affairs

Population Division, 2007). Con l’aumentare a ritmo costante dell’età media, della

speranza di vita e quindi del numero di anziani, si prevede anche l’aumento dell’incidenza di patologie neurodegenerative come la demenza di Alzheimer, le quali sono già ora una delle maggiori cause di disabilità nella popolazione generale. Stime approssimative delineano i pazienti affetti da Alzheimer come il 5% della totale popolazione over 60 (Plassman et al., 2007) e numerosi studi epidemiologici internazionali prevedono che nel 2050 il numero di casi di persone con demenza potrebbe arrivare fino ai 100 milioni (Ferri et al., 2005). Nei soli paesi dell’Unione Europea le stime più attendibili parlano della prospettiva di superare, nel 2020, i 15 milioni di persone affette da demenza, con una ratio femmine/maschi che ipotizza più del doppio dei casi per il genere femminile rispetto a quello maschile (Ministero della Salute Italiano). L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da qualche anno inserito i disturbi neurologici tra le priorità della sua agenda globale. Appare chiaro quindi come lo scenario descritto ci porti a riflettere a quale rilevante problema sociale e di sanità pubblica ci troviamo davanti: le conseguenze del declino cognitivo dovuto all’invecchiamento non sono, infatti, limitate agli individui che ne sono affetti, ma si ripercuotono finanziariamente ed emotivamente sui membri della famiglia. La demenza rappresenta quindi una delle principali cause di disabilità e di disagio sociale per il mondo occidentale, giacché porta a un impoverimento progressivo delle capacità mentali tale che il soggetto, nella fase terminale della malattia, si trova a essere completamente dipendente da terzi.

Questo deficit cognitivo ha come riflesso importante una serie di alterazioni linguistiche e conseguenti difficoltà di comunicazione, che senza dubbio aggravano il rischio d’isolamento e di peggioramento della qualità della vita della persona affetta da demenza. Tale rischio è ancora più drammaticamente paventabile nel caso d’immigrati che, secondo la tendenza degli studi esistenti fino ad oggi, potrebbero subire una regressione della lingua del paese di accoglienza, con tutti i disagi che ne deriverebbero. Il numero dei parlanti bilingui nel mondo, sta, infatti, aumentando esponenzialmente come conseguenza della globalizzazione e dei contemporanei flussi migratori (Commissione Europea, 2006), inserendosi senza eccezioni nel quadro demografico accennato.

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Una migliore comprensione del fenomeno dell’attrito linguistico e dell’eventuale perdita della L2 nel malato d’Alzheimer bilingue potrebbe sfociare nell’elaborazione di suggerimenti in grado di migliorare le strategie terapeutiche e palliative disponibili e d’inserirle in una prospettiva interculturale. Non solo, queste informazioni potrebbero avere importanti implicazioni teoriche nell'ambito delle ipotesi concernenti le basi neuroanatomiche del bilinguismo. Infatti, il paradigma di come i soggetti bilingui imparino, elaborino e rappresentino le lingue conosciute, è stato interesse di studio per numerosi ricercatori afferenti a differenti domini (linguistica, neurologia, psicologia sociale), i quali hanno indagato sui circuiti neurali coinvolti nella rappresentazione, sugli effetti tra età di acquisizione e livello di competenza, sulla natura del controllo cognitivo bilingue e sugli effetti del bilinguismo sugli altri settori della mente. Tutte queste questioni sono state affrontate attraverso diverse strategie sperimentali sia in termini di popolazione studiata (bambini, adulti, pazienti che hanno subito una lesione, etc.) sia in termini di approcci scientifici (psicologico, neuropsicologico, elettrofisiologico, e/o

neuroimaging). Non c’è dubbio che a seguito di tale impegno la nostra conoscenza

sull’argomento si sia enormemente accresciuta e che le tecniche che abbiamo a disposizione per questo tipo d’indagini siano state ulteriormente perfezionate. Ciononostante, a dispetto della vasta portata della ricerca scientifica sul bilinguismo, resta una vistosa lacuna riguardo agli effetti dei disturbi neurodegenerativi sull’elaborazione dei codici nel soggetto bilingue, confermata la povertà dell’evidenza sperimentale disponibile. Il fatto che i dati emergenti da numerosi studi sembrino confermare che parlare regolarmente più lingue sia uno dei fattori in grado di accrescere la riserva cognitiva1 di un individuo e ritardarne sia i sintomi di un’eventuale demenza sia dei disturbi derivati dall’invecchiamento fisiologico, e senza contare, inoltre, che nessuna terapia farmacologica abbia ad oggi mostrato effetti comparabili, apre nuovi scenari anche sulle possibilità di prevenzione e sull’importanza di promuovere stili di vita e politiche linguistiche differenti.

1 Brevemente, con riserva cognitiva si indica un insieme di fattori che permettono a una persona di

manifestare un funzionamento cognitivo normale, o superiore alle aspettative, a dispetto di lesioni tipicamente associate a una demenza. L’argomento sarà affrontato approfonditamente in seguito.

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STUDIARE IL CERVELLO BILINGUE: L’ELABORAZIONE

LINGUISTICA

Quando si parla del linguaggio e dei suoi meccanismi, dei quali l’individuo dispone in quanto membro di una specie, la prospettiva adottata tende spesso ad essere quella del monolinguismo, anche se spesso ciò avviene in maniera, per così dire, implicita. Infatti, nonostante il crescente interesse per le questioni che nascono dallo studio dei soggetti bilingui e dell’espansione di questo campo di ricerca, e nonostante il fatto che alcuni approcci della psicologia evoluzionistica che cercano di rendere conto dell’origine del linguaggio tengano conto dell’aiuto che l’analisi del bilinguismo può portate a tale indagine, pare che a livello generale, considerare il parlante come fondamentalmente monolingue sia una sorta di necessità teorica per la descrizione degli schemi soggiacenti all’espressione linguistica. Il bilinguismo viene quindi spesso considerato un’eccezione alla regola rappresentata dal monolinguismo. Se però esaminiamo la situazione delle lingue nel mondo, e delle comunità dei parlanti, ci rendiamo conto che la situazione più diffusa in molte aree geografiche è di bi- o multilinguismo e che almeno la metà degli individui della popolazione mondiale sono interessati da questa caratteristica. In questa sede ci interesseremo ovviamente agli aspetti che pertengono al bilinguismo come fenomeno individuale, nello specifico a quelli neurolinguistici, che riguardano cioè i meccanismi e le strutture cerebrali coinvolti nella rappresentazione e nell’elaborazione di due o più lingue.

1.1 Bilinguismo: una definizione del campo di indagine

Da qualsiasi prospettiva si studi il bilinguismo, bisogna essere consapevoli del fatto che “i bilingui” non formano un gruppo omogeneo e che non c’è nel panorama scientifico una convergenza unitaria su una definizione precisa. La spiegazione intuitiva che una persona bilingue sia assimilabile a un individuo che utilizza e/o conosce due o più lingue, apre una serie di problematiche sostanziali per individuare e delimitare la nostra area di interesse in questa trattazione, riassumibili nei quesiti riguardanti cosa significhi “conoscere” una lingua e quale grado di padronanza delle due lingue deve possedere un parlante per

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essere considerato tale. A seconda dell’approccio, possono tracciarsi differenti confini che seguono i gradi di competenza raggiunta, l’utilizzo effettivo che il parlante fa nella propria quotidianità delle lingue conosciute, e il numero di anni trascorsi utilizzando la seconda (terza, e così via) lingua in rapporto all’età, anche se, in generale, si definiscono bilingui tutte le persone che “condividono una caratteristica comune: conducono la loro vita con

due (o più) lingue” (Grosjean, 1996). Le competenze sviluppate da coloro che si trovano in

contatto con due o più lingue, sono dunque commisurate alle varie esigenze linguistiche dei parlanti stessi: è raro in queste situazioni, infatti, che essi si trovino a gestire ogni aspetto della loro vita utilizzando un’unica lingua o due lingue in modo esattamente paritario. I bilingui, nel corso della loro vita, acquisiscono e fanno uso delle lingue che hanno a disposizione per scopi, situazioni e persone differenti. In tale quadro, si può facilmente dedurre che i soggetti bilingui spesso non sviluppano pari fluidità nelle lingue nelle quali sono competenti, ma, al contrario, sviluppano abilità linguistiche specifiche per ognuna di esse, secondo le reali necessità. Può comunemente accadere, quindi, di confrontarsi con bilingui in grado di leggere e scrivere in una sola delle loro lingue, o che hanno fluidità ridotta nella lingua che parlano solo con un numero limitato di persone, o addirittura capaci di applicare una delle loro lingue solamente a uno specifico settore o dominio della loro conoscenza.

L'incapacità di comprendere quanto appena detto ha portato a descrivere e valutare le competenze linguistiche dei bilingui negli stessi termini di quelle standard dei monolingui; inoltre, ancora adesso, la maggior parte di essi non si percepisce come bilingue nonostante l’utilizzo quotidiano di due (o più) lingue.Fortunatamente, il cambiamento di prospettiva negli studi linguistici negli ultimi decenni ha decretato la fine di una visione del parlante bilingue come la somma di due monolingui, per lasciare spazio al pieno riconoscimento del loro status di parlanti-ascoltatori in possesso di una competenza comunicativa sviluppata in maniera analoga, seppur di diversa natura, a quella monolingue. Questo progresso nella corrente concezione ha a sua volta portato verso una ridefinizione della procedura usata per valutare le competenze del bilingue: il bilinguismo è ormai studiato in termini di repertorio linguistico generale, senza trascurare le implicazioni dei domini di utilizzo e delle funzioni svolte dalle varie lingue. Riconosciuto

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dunque il bilinguismo come fenomeno non omogeneo, è necessario riconoscere che esso richiede una descrizione che metta in luce, da una parte i fattori che portano a inferire specifiche condizioni d’acquisizione o di apprendimento, dall’altra i fattori che si riferiscono alle caratteristiche strutturali, sociolinguistiche o individuali delle lingue conosciute dal parlante.

Tra i fattori che intervengono nel processo di apprendimento, il più menzionato è sicuramente l’età nella quale esso ha inizio. Prendendo come punto di partenza l’idea che la capacità cerebrale di rimodellare le proprie connessioni sinaptiche, cioè la plasticità cerebrale, diminuisca con il passare del tempo, alcuni ricercatori hanno ipotizzato l’esistenza di un “periodo critico” o sensibile2 oltre che per l’acquisizione della prima lingua, anche per le successive, durante il quale l’apprendimento delle lingue sarebbe fortemente agevolato. Questa relazione è stata indagata in un numero impressionante di studi, tramite l’osservazione incrociata della rapidità e della facilità con le quali avviene l’apprendimento e tramite la comparazione del livello di competenza raggiunto dai bilingui precoci e da quelli tardivi. I risultati suggeriscono che le capacità di apprendimento linguistico diminuiscono gradualmente con l’avanzare dell’età, nella maggior parte dei soggetti (Abrahamson e Hyltenstam, 2003; Birdsong, 2003; Köpke, 2004). Sembra tuttavia ormai superato il ricorso a un’interpretazione di questi dati (solo) in termini di periodo critico, poiché essa implicherebbe forzatamente un raggiungimento di un più alto livello di competenza da parte dei bilingui precoci, qualora questo fosse comparato a quello raggiunto da un qualsiasi parlante bilingue tardivo. Prendere atto della sola riduzione di plasticità cerebrale non è sufficiente a spiegare esaurientemente in

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Il “periodo sensibile” corrisponde al picco di sinaptogenesi, quando i neuroni sono nella fase di attività spontanea e l’esperienza in questa fase ha il compito di selezionare e mantenere le sinapsi stimolate. Un “periodo critico” dello sviluppo può essere definito come “un intervallo di tempo nel quale la comunicazione

intercellulare altera il destino di una cellula”. Normalmente questo concetto è attribuito all’embriologo

sperimentale Hans Spemann. Il termine acquisì un nuovo significato, rispetto allo sviluppo del cervello, in seguito al lavoro di Konrad Lorenz, intorno alla metà degli anni ’30, che introdusse il concetto di “Imprinting”. L’imprinting è un caso estremo di plasticità legata a un periodo sensibile con durata limitatissima. La forma di imprinting più nota è l’identificazione dell’adulto di riferimento da parte dei pulcini di alcune specie di uccelli. L’esperimento classico di Lorenz dimostrava che questi pulcini avrebbero seguito qualunque oggetto mobile, compreso lo sperimentatore, se si fosse presentato nel periodo immediatamente successivo alla schiusa delle uova. Una volta identificato, l’adulto di riferimento non potrà essere sostituito, neppure dalla madre biologica.

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quale modo l’età incida sull’apprendimento e rendendo quindi necessario introdurre una riflessione che prenda in considerazione l’interazione tra più fattori: si preferisce, di conseguenza, parlare, piuttosto che di periodo critico, di effetti di maturazione. L’innegabile impatto che ha l’età nella quale si comincia ad apprendere una lingua sul risultato finale avviene soprattutto sul piano dei differenti sistemi mnestici implicati: si parla in genere a questo proposito di memoria dichiarativa o memoria procedurale (Modello dichiarativo-procedurale: Paradis, 2009; Ullman 2001, 2004). La memoria dichiarativa, che ha il proprio il substrato fisiologico nell’ippocampo e in vaste porzioni di corteccia frontale e temporale, è descritta da Ullman come specializzata nell’apprendimento, nella rappresentazione e nell’uso di fatti e avvenimenti caratterizzati da relazioni arbitrarie (sistema di memoria episodica), e come “magazzino” di gran parte del nostro sapere enciclopedico, delle nostre conoscenze lessicali e delle regole grammaticali di natura metalinguistica (memoria semantica). Il nostro lessico mentale è visto come il deposito di tutte le informazioni idiosincratiche riguardanti tutte le parole le cui forme fonologiche e i cui significati non sono derivabili, le informazioni categoriali, valenziali, e su forme non predicibili (irregolari) e le forme distintive > o < di una parola (morfemi legati, idiomi, ecc.). La conoscenza acquisita tramite questo sistema è almeno in parte, ma non completamente, esplicita: il soggetto è consapevole di possederla e può disporne coscientemente. L'ippocampo e altre strutture temporali e mediali registrano nuove informazioni, il quale recupero dipende in gran parte dalle regioni neocorticali, in particolare dai lobi temporali. Il funzionamento della memoria dichiarativa è regolato dagli estrogeni e dal dosaggio dell’acetilcolina. La memoria procedurale, associata alla corteccia presilviana, i gangli della base e il cervelletto, è invece specializzata nell’apprendimento e nel controllo di abilità cognitive e motorie sotto forma di sequenze o di concatenazione di regole (ad esempio quelle necessarie per andare in bicicletta). Le strutture cerebrali interessate dal sistema formano un reticolo di interconnessioni radicate dei circuiti dei gangli della base, tra i quali l'area di Broca, e il neurotrasmettitore che regola i processi da esso controllati, cioè la dopamina3. A livello linguistico, la memoria procedurale riguarda soprattutto la cosiddetta “grammatica della lingua”

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I pazienti con il morbo di Parkinson, ad esempio, che soffrono di una perdita di cellule che producono la dopamina nei gangli basali, hanno difficoltà nell'apprendimento procedurale.

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(secondo la definizione chomskiana), la quale sottintende la computazione sequenziale e gerarchica di strutture linguistiche complesse analizzabili nei sub-domini di fonologia, sintassi e morfologia. Paradis (2008, 2009) sottolinea come i due tipi di memoria siano compromessi differentemente a seconda della patologia: mentre la memoria dichiarativa è danneggiata in caso di demenze di tipo Alzheimer, la memoria procedurale è danneggiata in caso di afasia e di morbo di Parkinson.

Secondo questo modello il lessico è analizzato dalla memoria dichiarativa, mentre la grammatica dipende dalla memoria procedurale, almeno finché viene appresa in giovane età. Viceversa, avvicinandosi alla maturità cognitiva, anche l’apprendimento della grammatica si affiderà progressivamente all’aiuto della memoria dichiarativa, poiché è facile che i processi di apprendimento delle lingue che avvengono a un’età più avanzata abbiano luogo in un contesto formale; secondariamente, anche quando non si dà il caso, la maturità cognitiva favorisce comunque un approccio analitico nei confronti della nuova lingua. Il modello dichiarativo/procedurale prevede dunque che le conoscenze grammaticali delle lingue acquisite in età prescolare (la lingua madre nei monolingui o le due lingue nei bilingui precoci) dipendano dalla memoria procedurale, mentre le conoscenze di lingue apprese più tardivamente troveranno il proprio supporto nella memoria dichiarativa. Questo modello può rivelarsi predittivo delle differenti conseguenze che le patologie che interessano il linguaggio provocano sulla L2, come nel caso della malattia di Alzheimer che tratteremo più avanti. Tali possibili predizioni andrebbero inoltre modellate tenendo conto del contesto di apprendimento della L2: esistono, infatti, situazioni che tendono a favorire un’acquisizione implicita, come nel caso di acquisizione in contesto naturale, via interazione diretta, o nel caso in cui la lingua in questione serva da strumento per altri tipi di apprendimento (come avviene nelle scuole basate sul principio dell’immersione). Il contesto scolastico tradizionale, al contrario, come tutte le altre forme di insegnamento formale, sollecita la memoria dichiarativa, stimolando la riflessione metalinguistica e aprendo la strada a un apprendimento di regole cosciente. Essa è anche alla base delle conoscenze che

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acquisiamo nello studio di una lingua morta4 ed entra in gioco nel multilinguismo di coloro che soffrono della sindrome dell’Idiot Savant (Smith & Tsimpli, 1995)5. Va detto inoltre che spesso l’insegnamento di tipo formale prevede che le conoscenze siano veicolate per mezzo della scrittura, canale non previsto invece nel processo di tipo implicito. Contrariamente a ciò che spesso si sente dire, l’apprendimento di tipo implicito non è né più rapido né meno costoso in termini cognitivi. Non va sottostimato, infatti, lo sforzo esercitato dai bambini durante i loro primi anni di vita nell’apprendere la loro prima/e lingua/e, poiché essi impiegano in questa operazione la maggior parte del loro tempo. Di contro però, è difficile che le abilità e le conoscenze acquisite implicitamente vengano perdute da un soggetto affetto da amnesia o da disfunzioni della memoria in generale, spiegando il motivo per il quale il lessico, rispetto alla grammatica, risulta più vulnerabile al danno linguistico (Köpke & Schmid, 2011). Considerate le differenze

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Talvolta l’insorgenza di patologie come l’afasia non intacca la reminiscenza delle lingue classiche studiate al liceo (Paradis, 1977).

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La sindrome dell’Idiot Savant è una rara condizione in cui soggetti con disfunzioni dello sviluppo (in particolare, i tipici disturbi dell’autismo), dimostrano straordinarie abilità in alcuni ambiti specificamente circoscritti, in netta antitesi con le marcate limitazioni complessive. Le cause sarebbero principalmente genetiche e circa la metà delle persone affette da questa sindrome presenta disturbi autistici, mentre l’altra metà sviluppa altri tipi di disabilità (ritardo mentale per esempio). Alcuni sono portatori di evidenti anomalie neuropatologiche (come, ad esempio, la mancanza del corpo calloso), localizzate in particolare nell’emisfero cerebrale sinistro, ma un po’ tutti i savant hanno in comune una prodigiosa capacità mnemonica, seppur circoscritta a pochi ambiti. Un caso importante e ormai molto conosciuto di savant

linguistico, studiato da Neil Smith and Ianthi Tsimpli, è quello di Christopher e dimostra quanto la

competenza linguistica possa essere dissociata da altre abilità cognitive. Quando Smith e Tsimpli lo incontrarono, Christopher viveva in un istituto, poiché non autosufficiente: presentava delle serie difficoltà nell’orientarsi nello spazio, dei problemi di coordinazione anche delle mani, ma poteva leggere, scrivere e comunicare in 15-20 lingue. Era nato nel 1962 e all’età di sei settimane gli avevano diagnosticato una lesione cerebrale ed era stato tardivo nell’apprendere a parlare e camminare. Nonostante ciò dai tre anni i libri sono diventati il suo interesse principale, nello specifico libri contenenti informazioni fattuali come annuari, dizionari, libri sulle bandiere straniere, etc. Alla stessa età era nato il suo interesse per i piccoli annunci sul giornale locale: egli sapeva leggere non solo da sinistra a destra, ma anche al contrario, dal basso all’alto e da destra a sinistra (iperlessia). Verso i sette anni nasce la sua ossessione per le lingue straniere, impara, infatti, oltre all’inglese, sua lingua madre, polacco, greco moderno, francese, spagnolo, tedesco, italiano, portoghese, norvegese, svedese, danese, finlandese, russo, gaelico, turco, hindi. Per capire come ciò sia stato possibile e le modalità di questo apprendimento, Smith e Tsimpli insegnano a lui e a un gruppo di studenti universitari una lingua cui è molto probabile che non siano mai stati esposti: il berbero. L’apprendimento di Christopher è più veloce e più accurato nell’apprendere le regole date di quello del gruppo di controllo, ma è soprattutto creativo e va oltre l’input. Per quanto riguarda l’apprendimento di una pseudo-lingua il rapporto tra Christopher e il gruppo di controllo appare invertito.

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qualitative tra le grammatiche acquisite precocemente e quelle apprese in età scolare, alcuni autori suggeriscono di tracciare una linea di confine tra il bilingue (precoce) e il semplice utente di lingua seconda (Cook 2002; Paradis, 2004) che si basi sull’osservazione delle diverse elaborazioni psicolinguistiche che le due popolazioni fanno delle lingue parlate: più implicite e automatizzate per il primo profilo di parlanti, maggiormente controllate e coscienti per il secondo. Ciononostante, si rivela difficile effettuare una distinzione netta tra bilingui e utenti di L2 così intesi. Da una parte, è verosimile pensare che le elaborazioni grammaticali del bilingue tardivo si affidino alla memoria dichiarativa nella misura in cui l’apprendente utilizza come punto di partenza la propria L1: preso atto del fatto che le lingue condividono determinate strutture grammaticali, il parlante potrà applicare una parte delle elaborazioni procedurali che normalmente utilizza per la L1 nell’elaborazione della L2. Inoltre, è possibile che bilingui tardivi in possesso di un buon livello di competenza in L2 finiscano per automatizzarne la grammatica (Anderson, 1983), facendo sì che le zone cerebrali interessate dall’attivazione a seguito di stimoli linguistici siano, come messo in evidenza da studi tramite fMRI, simili per entrambe le lingue (Green, 2005; Indefrey, 2006; Dana-Gordon et al. 2013). Tra le condizioni legate alla situazione di apprendimento, l’età è sicuramente un fattore primario, in quanto implica (anche solo potenzialmente) numerosi altri elementi come la progressione della maturità cognitiva e l’alfabetizzazione.

Se consideriamo valida l’argomentazione sollevata in precedenza, cioè che il parlante può applicare i meccanismi procedurali in gioco con la sua L1 all’apprendimento della L2, sembra logico pensare che anche le caratteristiche sociali e strutturali delle coppie di lingue coinvolte concorrano alla varietà registrata tra i parlanti bilingui. L’influenza delle rappresentazioni sociali è certamente il fattore meglio conosciuto, poiché supportato da numerose ricerche sociolinguistiche (Fishman, 1967), le quali mostrano che il fatto di essere bilingui precoci è valutato positivamente quando la L2 o entrambe le lingue godono di una certa utilità e/o prestigio. Se al contrario, una delle due lingue viene associata a una condizione socioculturale svantaggiata, la condizione di bilinguismo precoce sarà considerata non degna di attenzione o peggio ancora, si cercherà di orientare la discendenza verso una condizione di monolinguismo in cui la lingua parlata

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corrisponde a quella ritenuta più prestigiosa: in questo senso possiamo affermare che la considerazione sociale che i parlanti hanno delle lingue si riflette in una valutazione qualitativa del bilinguismo precoce (Boyer, 1991; Grosjean, 2010)6. A seconda delle lingue coinvolte, quindi, alcuni bilinguismi sono considerati un vantaggio e altri un handicap. Sono molti i fattori che rendono una lingua più o meno “appetibile”: tra di esse troviamo, ad esempio, ragioni politiche, l’associazione o meno di una lingua a un’utilità pratica (ad esempio, un aumento di chance di riuscita professionale) e il valore culturale; i bambini in particolare sono molto sensibili all’immagine che si rinvia loro del loro bilinguismo e delle lingue che conoscono. Lo stesso discorso vale per le popolazioni che vivono in situazione di diglossia e che utilizzano una varietà considerata “alta” per adempiere le funzioni più prestigiose (governo, religione, educazione, scrittura), e una varietà cosiddetta “bassa” nei contesti informali (conversazioni in famiglia, tra amici, etc.): coloro che appartengono a queste popolazioni possiedono, in genere, un bilinguismo funzionale perfettamente operativo, ma nonostante ciò non si valutano come bilingui, a causa dello scarso prestigio di cui gode la varietà “bassa” rispetto alla lingua standard riconosciuta istituzionalmente. È sempre meglio ribadire però che un dialetto, dal punto di vista neurolinguistico, non differisce in nessun modo da una lingua propriamente detta: la linguistica ha dimostrato che tutte le lingue, quale che sia il loro status, si avvalgono della stessa complessità strutturale7.

Le caratteristiche strutturali delle lingue e la loro prossimità tipologica sono fattori che non hanno ancora probabilmente ricevuto un adeguato inquadramento. Le lingue del mondo possono notevolmente differire a livello strutturale e, d’altro canto, la ricerca di universali linguistici condivisi da ogni lingua esistente sembra (a parte il riconoscimento di

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Si potrebbe citare a questo proposito l’esempio tutto italiano della progressiva perdita di terreno dei dialetti. Il bilinguismo italiano standard/dialetto è stato spesso scoraggiato in favore di un monolinguismo che prediligeva la lingua comune post-Unità d’Italia, vista come occasione di mobilità sociale. Conoscere anche il dialetto locale diventa sinonimo di handicap dal punto di vista sociologico.

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La nostra realtà linguistica ci offre a questo proposito un mirabile esempio : i dialetti italiani, infatti, essendo considerati a torto da una larga fetta dell’opinione pubblica derivazioni della lingua standard, sono spesso accompagnati da connotazioni negative e pregiudizi sul piano sociale. I dialetti italiani sono invece, sistemi linguistici locali derivati dal latino e in quanto tali lingue « sorelle » dell’italiano. Non sarebbe quindi corretto parlare di "dialetto della lingua ufficiale" in riferimento alle parlate locali, ma ciò continua comunque ad avvenire nell’uso comune, portando con sé la stigmatizzazione sociale che esse hanno subìto dall’unità nazionale e i sottointesi legati al prestigio del quale esse (non) godono.

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principi generali come la doppia articolazione o del fatto che tutte le lingue combinano delle consonanti e almeno una vocale) individuare pochissimi principi per i quali non si trovino eccezioni (Baker, 2001). D’altro canto, le vicende storiche e i numerosi contatti reciproci fanno sì che molte lingue condividano una parte considerevole delle loro proprietà strutturali e appartengano quindi alla stessa famiglia linguistica8. Possiamo supporre, seguendo Köpke (2013), che probabilmente a) un bilinguismo che riguarda due lingue strutturalmente vicine e uno che coinvolge due lingue tra loro molto distanti non utilizzino lo stesso esatto processo di elaborazione, b) un bilinguismo tardivo che chiama in causa due lingue con caratteristiche strutturali simili solleciterà l’intervento dei meccanismi della memoria dichiarativa in proporzione minore rispetto a un bilinguismo tardivo nel quale le lingue interessate differiscono ampliamente, nella misura in cui il parlante potrà mutuare dalla L1 le strutture processate in modo procedurale. Riguardo al trattamento lessicale, il livello linguistico più indagato e, dunque, conosciuto, ci sono evidenze del fatto che l’elaborazione di parole tra loro imparentate9 avviene più facilmente di quella di due parole che non hanno tratti comuni (Costa, Stantesteban & Caño, 2005; Rosselli, Ardila, Jurado & Salvatierra, 2012). Oltre alle parole imparentate, anche i nomi propri possono ricoprire la funzione di passaggio tra le due lingue e facilitare il code-switching delle parole a esse direttamente precedenti o seguenti. Infatti, la natura e la costituzione del nome proprio divergono in parte da quelle del nome comune e di ogni altro elemento lessicale. Ogni segno linguistico lessicale è costituito da un significante, la serie di fonemi dai quali è formato, e da un significato, la nozione o rappresentazione mentale, astratta e generale, che il significante esprime all’interno di un sistema linguistico. Il nome proprio, invece, pur partecipando alla natura e alla costituzione formale degli altri elementi lessicali (in quanto anche il suo significante è

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Il concetto di “famiglia linguistica” sottintende una classificazione delle diverse lingue storico-naturali secondo criteri genealogici che mira a collocare varietà linguistiche del presente e del passato in uno schema complesso di rapporti di derivazione. Questa classificazione non è corrispondente a quella tipologica, tuttavia non è raro che lingue appartenenti allo stesso gruppo all’interno di una famiglia linguistica presentino caratteristiche fonologiche, morfologiche, sintattiche e lessicali molto simili. Non a caso il linguista francese Meillet (1938) affermava che "le lingue imparentate costituiscono in realtà una

medesima lingua modificatasi in maniera differente nel corso del tempo".

9 Le parole imparentate (in inglese cognates) sono parole che hanno la stessa origine e che possono

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costituito da una serie di fonemi del sistema linguistico), ne diverge per la funzione comunicativa. Esso, infatti, indica e individua direttamente un referente singolo, reale e concreto, senza il tramite di un significato astratto e generale (De Felice, 1987). Anche a seguito della scoperta dell’esistenza di alcuni deficit selettivi dei nomi propri che ricorrevano in alcuni soggetti affetti da disturbi del linguaggio e alla conseguente ipotesi di un modello specifico di elaborazione dei nomi propri, si è compreso che il loro particolare status semantico fa sì che essi presentino una più stretta interdipendenza tra forma lessicale e significato e che non subiscano significative variazioni nella “traduzione”, se così si può definire, da una lingua all’altra, mantenendo una certa similarità fonologica. Per questo, il loro ruolo nei processi di code-switching parrebbe essere assimilabile a quello dei cognates, come ipotizzato da Clyne (ipotesi del “triggered

code-switching”) e poi discusso da Broersma & De Bot, 200610.Per concludere, ci sono buone ragioni per supporre che si verifichino interferenze linguistiche soprattutto laddove ci si trovi a trattare con lingue similari e che siano più frequenti e probabili tra lingue in rapporto di parentela11. Pare, dunque, che “la prossimità tipologica, benché si tratti di un

fattore ancora poco studiato, svolga un ruolo non trascurabile ai fini dell’individuazione dei differenti tipi di bilinguismo” (Köpke, 2013).

A questo punto della rassegna, è opportuno precisare che, nonostante sia essenziale per la distinzione dei vari bilinguismi considerare tanto le caratteristiche interne (strutturali)

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Broersma & De Bot (2006) testano l’ipotesi di Michael Clyne secondo la quale il code-switching potrebbe essere innescato e facilitato dalla presenza di parole imparentate. Il risultato è positivo, gli autori mostrano che il processo di innesco prende campo a livello di lemma, dove la selezione di una parola d’innesco potenzia l’attivazione dei lemmi della lingua non in uso. Una parte delle parole nella lingua selezionata dopo la selezione di una parola d’innesco verrà pronunciata immediatamente di seguito ad essa. Il fatto che questi elementi producano un effetto così diffuso in questi dati suggerisce, secondo gli autori, che la selezione lessicale e la struttura di superficie potrebbero in larga parte sovrapporsi. Questa teoria non afferma, tuttavia, che la selezione di una parola di innesco porti matematicamente al verificarsi di un

code-switching o che tutti i cambi di codice siano da attribuirsi alla presenza di una parola di innesco, ma solo che

in situazioni in cui i livelli di attivazione di due lingue sono abbastanza simili, la selezione di una parola d’innesco può facilitare questo processo: la sua presenza, quindi, è predittiva di una maggiore probabilità che si verifichi un code-switching a livello di lemma.

11 Ovviamente il discrimine in questo caso non è l’esistenza o meno di rapporti di parentela tra le due

lingue, ma il fatto che spesso le lingue della stessa famiglia presentano caratteristiche molto simili. Laddove questa similitudine non si dovesse riscontrare, il fatto di essere lingue storicamente sorelle non sarebbe di alcun aiuto dal punto di vista dell’elaborazione neurolinguistica!

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quanto le caratteristiche esterne (sociolinguistiche), esse non hanno alcun legame diretto e non sono tra loro interdipendenti.

1.2

Modalità di utilizzo della lingua

Oggigiorno, la maggior parte dei ricercatori adotta una definizione funzionale di bilinguismo, la quale pone l’accento sulla complementarità delle due lingue. Questo tipo di definizione attira l’attenzione sul fatto che le competenze possedute dai parlanti nelle due lingue raramente sono equivalenti, poiché, nella maggior parte non lo sono neanche le necessità. Come accennato nel paragrafo precedente, è bene notare, ai fini sia di comprendere le variabili esterne che possono influire sul profilo clinico sia di poter considerare i dati al loro netto, tenere in considerazione determinati aspetti di pragmatica che influiscono sugli schemi cognitivi che processano il linguaggio. È quindi auspicabile tenere conto delle diverse possibili modalità di utilizzo delle lingue. In generale, possiamo dire che si operi una differenza tra le lingue utilizzate in famiglia e quelle utilizzate al lavoro, nei contesti formali e informali, nello scritto e oralmente. A ciascuna situazione corrispondono bisogni diversi, un modo di esprimersi, un vocabolario, una sintassi e regole di comportamento specifici e che saranno specificamente associati a una lingua. Allo stesso modo, ciascun bilingue ha una competenza specifica, forgiata cioè sulla base dell’uso che fa delle lingue, che concerne sia le competenze linguistiche propriamente dette, sia le capacità di controllo cognitivo strettamente legate alle funzioni esecutive12. Esistono, infatti, bilingui che cambiano lingua decine di volte al giorno, anche nell’ambito della stessa conversazione, mentre altri possono benissimo avere motivo di utilizzare un’unica lingua per settimane; esempi pertinenti riguardano bilingui che interagiscono quotidianamente con altri bilingui con i quali possono utilizzare indifferentemente l’una o l’altra lingua o alternare i codici all’interno dello stesso enunciato, e che si trovano quindi in “modalità bilingue”, per dirla con Grosjean, mentre altri comunicano verbalmente solo

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Le funzioni esecutive sono, in neuropsicologia e in psicologia cognitiva, le funzioni corticali superiori deputate al controllo e alla pianificazione del comportamento, nonché quelle abilità che permettono a un individuo di anticipare, progettare, stabilire obiettivi, attuare progetti finalizzati a uno scopo, e monitorare, e se necessario modificare, il proprio comportamento per adeguarlo a nuove condizioni (definizione del

Dizionario di medicina Treccani). In questo ambito rientrano numerose sottoabilità coordinate fra loro:

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con monolingui di ciascuna lingua, dunque in “modalità monolingue” e senza quindi essere abituati al passaggio repentino da una lingua all’altra. Non si conoscono ancora con precisione le conseguenze di queste costanti sulle abilità di controllo, ma è quantomeno molto probabile che la situazione linguistica nella quale vivono i parlanti bilingui intervenga nel quadro dei vantaggi cognitivi che essi possiedono, secondo quanto costatato in diversi studi (Costa, Santesteban & Ivanova, 2006; Prior & Gollan, 2011). L’impiego che si fa delle lingue di cui si ha padronanza costituisce un fattore preminente nello sviluppo del bilinguismo, in accordo con quanto evidenziato dalle teorie dell’acquisizione linguistica basate sull’uso (usage-based) e dalle teorie emergentiste (Ellis, 2003; MacWhinney, 2005; Tomasello, 2003), ma in egual maniera nel suo mantenimento. Köpke et al. (2007) hanno per l’appunto costatato in vari studi sull’attrito linguistico, focalizzati sull’impatto che il mancato utilizzo di una lingua ha sul bilinguismo, che il modo d’uso è una variabile complessa legata in maniera non lineare alla competenza bilingue. Mentre esso viene più frequentemente considerato nel suo aspetto quantitativo (frequenza di utilizzo di una lingua da parte del bilingue o del soggetto interessato da attrito, quantità di input che riceve l’apprendente), già difficile a codificarsi, questo studio mostra come il prendere in considerazione il modo d’uso dia risultati più produttivi quando ci si interessa agli aspetti qualitativi del linguaggio. Schmid (2007) ha mostrato che, per esempio, nel caso degli immigrati tedeschi nei Paesi Bassi e in Canada non è tanto la frequenza d’utilizzo che interviene nel mantenimento della L1, ma piuttosto la varietà delle situazioni nelle quali essi sono portati a usufruire della loro L1: gli immigrati che continuano a utilizzarla in situazioni formali, ma sempre in pari frequenza rispetto agli altri, sembrano, infatti, risentire in misura minore degli effetti dell’attrito. La modalità di utilizzo si afferma come variabile-chiave che conviene valutare con la maggiore precisione possibile se, nell’ambito dello studio delle patologie del linguaggio, si vuole dipingere un quadro accurato della competenza premorbosa del paziente nelle sue lingue. L’insieme dei fattori fino a qui considerati nella nostra definizione di bilinguismo ci saranno utili nella seconda parte della trattazione, dove saranno necessari per tracciare il profilo del paziente bilingue preso in esame: se nessuno di essi individualmente è decisivo, è vero invece che bisogna provare a valutarne

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l’interazione nel suo insieme, per quanto difficoltoso sia, pena il rischio di tendere verso un’idealizzazione che porta a creare un parlante meramente prototipico che non esiste nei fatti. Anche quando si indagano i processi neurofisiologici è necessario essere consapevoli dell’esistenza e dell’entità di cause e di input esterni che a essi concorrono, frutto dei nostri contatti con il mondo al di fuori di noi. La stessa plasticità cerebrale subisce delle modifiche strutturali legate all’esperienza cui siamo sottoposti e agli stimoli ai quali siamo quotidianamente esposti. La questione su quanto e come gli elementi presi in esame e i condizionamenti di tipo sociologico incidano effettivamente sulla competenza linguistica bilingue è ancora aperta e controversa. Pertanto, ciò che ci interessa in modo preminente e su cui ci focalizzeremo è la performance della quale il soggetto è capace e le cause a questa soggiacenti. Dobbiamo dunque indagare le modalità attraverso le quali avviene l’elaborazione linguistica di due o più lingue.

1.3

La dinamica della competenza bilingue

Dal famoso manifesto di Grosjean (1989) nel qual si afferma che “le bilingue n’est pas

deux monolingues en une personne” si è preso ormai coscienza del fatto che la

consuetudine a parlare due o più lingue abbia delle conseguenze sull’organizzazione e l’elaborazione linguistica. Eppure, generalmente, i modelli psicolinguistici proposti per rendere conto dell’elaborazione di due lingue riguardano solo tappe ben specificate dell’accesso lessicale (De Groot, 1992; Kroll & Stewart, 1994; Grainger & Dijkstra, 1992) o si concentrano sulla selezione delle lingue e dei processi di controllo (Green, 1998; Paradis, 2004). Una delle rare eccezioni è l’adattamento del modello di Levelt (1989) da parte di De Bot (1992) e De Bot & Schreuder (1993)13 che si interrogano sulle tappe della codifica che possono essere condivise dalle lingue e sugli eventuali trattamenti supplementari chiamati a intervenire per presenza di più lingue. I dati che emergono in tutti gli studi sperimentali sul bilinguismo e che restano perfettamente in linea con l’insieme di questi modelli menzionati portano ad affermare che a) le due lingue sono in competizione costante fra loro nel corso dei processi di elaborazione del linguaggio, b) il rapporto tra le due (o tre, quattro e così via) lingue resta dinamico durante tutta la vita.

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Le ricerche psicolinguistiche mostrano che le due lingue, durante l’elaborazione, si influenzano vicendevolmente e che in un bilingue assumono caratteristiche che per certi aspetti non possono essere assimilate a quelle che riguardano un monolingue. Il campo in cui queste particolarità sono state meglio esplorate è certamente il lessico e mostrano che la padronanza di più lingue porta con sé un certo costo cognitivo: infatti, i bilingui hanno in genere tempi di risposta più lenti nei compiti di decisione lessicale (Grange & Dijkstra, 1992) e di denominazione (Gollan, Montoya, Fennema-Notestine & Morris, 2005; Ivanova & Costa, 2008; Roberts, Garcia, Desrochers & Herandez, 2002), nonché una minore produttività nei compiti di fluenza verbale e denominazione (Gollan, Montoya & Werner, 2002; Rosselli, Ardila, Araujo, Weeks, Caracciolo, Padilla et al., 2000). Di contro, il bilinguismo non sembra avere alcuna incidenza nei compiti che coinvolgono più che altro meccanismi top-down14 come quelli di categorizzazione (Gollan et al. 2005). Il costo cognitivo e temporale maggiore che il bilinguismo comporta in certi compiti è generalmente spiegato in termini di competizione lessicale: sappiamo, grazie agli studi su soggetti monolingui, che il processo di selezione lessicale è subordinato all’effetto della competizione tra elementi che condividono un buon numero di tratti con

l’elemento-target. Nei compiti di riconoscimento, la competizione a livello cognitivo è causata da

somiglianze formali (fonetiche o ortografiche, secondo la modalità di entrata dell’input), come mostra l’effetto dato dal trattamento dei “vicini” ortografici15, mentre nei compiti di produzione è data da somiglianze fonologiche e semantiche. Inoltre, per il soggetto bilingue, il maggior agente competitore nell’ambito della produzione orale è, generalmente, l’equivalente traduzione nell’altra lingua, nella misura in cui essa abbia in comune con la parola-target un elevato numero di tratti semantici. Un bilingue deve dunque gestire quotidianamente questa competitività tra elementi linguistici che si estrinseca nei processi di selezione lessicale. Un’ulteriore spiegazione dell’occorrenza di

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I meccanismi top-down e bottom-up sono strategie di elaborazione dell'informazione e di gestione delle conoscenze, utilizzati in origine in riferimento al campo informatico. Nel campo dello studio della mente i meccanismi top-down sono processi cognitivi attraverso i quali oggetti rilevanti sono selezionati volontariamente dall’attenzione. I meccanismi bottom-up invece operano nelle prime aree visive e consentono il rilevamento automatico di un particolare stimolo posto su un background di distrattori omogenei.

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questo costo cognitivo supplementare si può ipotizzare considerando che I) nell’insieme un parlante bilingue (salvo eccezioni) conosce una quantità di parole considerevolmente più ampia, II) utilizza i termini lessicali di ciascuna lingua con una minore frequenza rispetto a un monolingue (Dana-Gordon, Mazaroux & D’Kaoua, 2013). La selezione lessicale non è l’unica funzione nella quale entrano in gioco meccanismi tra loro in competizione. Il “Modello di competizione” di ispirazione funzionalista sviluppato da McWhinney & Bates affronta la conoscenza linguistica come rete complessa di corrispondenze tra forme e funzioni, piuttosto che un insieme di regole grammaticali. Il modello prevede che le lingue possiedano un certo numero di indici linguistici che rinviano a funzioni corrispondenti e sui quali i parlanti di ciascuna lingua, si appoggiano per trattare l’informazione (McWhinney, 1987). Nonostante l’insieme di indici pragmatici e semantici sia molto vasto, il parlante fa affidamento su un numero di indici di superficie relativamente limitato (l’indice prosodico, l’indice lessico-semantico, l’indice morfologico e l’indice sintattico). La validità di questi indici varierà, essendo dipendente dalle caratteristiche strutturali, da una lingua all’altra: una lingua dotata di un sistema morfologico molto ricco, come quelle flessive, farà affidamento principalmente sull’indice morfologico. Al contrario, lingue morfologicamente più povere, come quelle isolanti, preferiranno l’indice sintattico. La coabitazione di due lingue che condividono molte caratteristiche strutturali non avrà verosimilmente le stesse identiche modalità di quella tra lingue più “lontane”. Come già accennato, infatti, due lingue strutturalmente affini possono economizzare il costo di apprendimento e di elaborazione, l’una sfruttando in larga parte gli stessi processi utilizzati per l’altra. Prendiamo come esempio un caso che potrà esserci utile nella seconda parte della trattazione. Il francese e l’italiano prevedono entrambi un sistema di genere grammaticale in due classi (maschile e femminile) e accordano determinanti e aggettivi con il nome, a prescindere dalla funzione che ricoprono nella frase. Per un parlante francese che apprende l’italiano sarà dunque possibile fare l’accordo di genere affidandosi interamente alle procedure sviluppate per la L1 (e, dunque, con maggiori possibilità di errore, forse, rispetto a chi parte da una lingua senza distinzione di genere, nei casi in cui il genere non coincida tra le due lingue). Si può invece immaginare come i parlanti di L1 inglese, la qual lingua non contempla il genere

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grammaticale e che non sono quindi preparati a eseguire alcun tipo di accordo, dovranno, nell’apprendere lingue come francese e italiano, sviluppare un processo ex novo. A maggior ragione vale per i parlanti di lingua turca, che non conoscono né genere grammaticale né determinanti, per restare nell’ambito di esempi a noi geograficamente vicini. Considerando il modello procedurale/dichiarativo di Paradis (2009) e di Ullman (2001), possiamo supporre che il trattamento degli accordi di genere da parte dei bilingui tardivi che parlano italiano-francese o turco-francese sarà, nel primo caso elaborato dalla memoria procedurale, mentre nel secondo caso farà appello a regole esplicite immagazzinate nella memoria dichiarativa. Allo stesso modo, può più facilmente darsi che l’elaborazione di due lingue attivi zone cerebrali comuni nel primo caso che nel secondo. Tale ipotesi dovrà però essere supportata o inficiata da dati e ricerche, giacché per il momento essa non ha ricevuto sufficienti attenzioni.16 Non solo, ma la prossimità strutturale tra le lingue intensifica l’intervento di meccanismi di competizione: giacché a essa si lega, per via diretta, la questione del controllo cognitivo, per comprendere come avviene l’elaborazione di due lingue sembra decisivo chiarire l’organizzazione degli schemi di dominanza delle lingue. In certi casi osserviamo, per l’appunto, delle asimmetrie nell’elaborazione delle due lingue e sembra che alcuni meccanismi di controllo intervengano soprattutto nella lingua non dominante; per avere un quadro più preciso, bisogna tenere presente che questi schemi non sono stabili, ma subiscono delle oscillazioni nel corso della vita. Negli ultimi anni, infatti, le ricerche sul bilinguismo testimoniano la crescente influenza dei modelli connessionisti e matematici sulle scienze cognitive. L’idea che le lingue formino un insieme di competenze complementari e variabili, applicata forse per la prima volta nell’ambito del concetto di multicompetenza di

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A questo proposito si può però leggere lo studio Frenck-Mestre et al. 2009 che va nella direzione prima delineata: gli autori hanno, infatti, misurato l’ampiezza dei potenziali evocati (ERP) in risposta a anomalie sintattiche, nello specifico errori di accordo di persona soggetto-verbo. I partecipanti presi in esame erano di madrelingua francese o bilingui tedesco-francese. Le violazioni proposte potevano essere o fonologicamente distinte dalla parola corretta (come * Je mangez) o omofone alla parola corretta (come in *Je manges). Nei madrelingua si è verificato l’effetto P600 (di positività nell’ampiezza degli ERP maggiore della norma) in risposta a entrambe le anomalie, ma di più sicura interpretazione nella violazione fonologicamente distinta. Invece nei bilingui l’effetto P600 si è verificato solamente per le anomalie fonologicamente distinte. Anche se le elaborazioni cerebrali nei madrelingua e nei bilingui non sono identiche, ci sono notevoli punti in comune nel modello di risposte che il cervello dà on-line.

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Cook (Cook 1992, 2005)17, è stata sviluppata nel corso dell’applicazione della teoria dei sistemi dinamici18all’apprendimento di lingua seconda e al bilinguismo (De Bot, 2007; De Bot, Lowie & Verspoor, 2007). Benché questa teoria sia per ora difficile da testare, essa evidenzia un cambiamento radicale nella visione fino ad oggi predominante riguardo all’elaborazione di più lingue, ma anche in rapporto alla cognizione umana in generale.

17 Vivian Cook (1992) definisce con multicompetenza la "conoscenza di più lingue nella mente di una

persona sola". Il parlante che usufruisce di una L2 ha una differente competenza, sia nella L2, sia nella L1 rispetto ai rispettivi monolingui parlanti nativi di ciascuna delle due lingue. Le lingue del multilingue sono complementari, si influenzano mutuamente e passano da uno stato di interlingua allo stato seguente. Con un’immagine molto riuscita Cook (2002) suggerisce che “apprendere una seconda lingua non equivale ad aggiungere delle stanze alla propria casa costruendo un’aggiunta sul retro: è la ricostruzione di tutte le pareti interne”. Le influenze che la L1 ha sulla L2 nel processo di acquisizione e viceversa in quello di attrito, implicano delle modificazioni a livello della grammatica interna e dei processi cognitivi negli utenti dotati di una L2. Sul piano delle competenze metalinguistiche, le componenti del linguaggio che sono interessate da questa mutua azione sono la coscienza fonologica e la coscienza grammaticale, mentre sul piano delle funzioni esecutive sono coinvolti i meccanismi di inibizione e la flessibilità mentale necessaria all’elaborazione delle lingue.

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La Teoria dei Sistemi Dinamici (DST) si è sviluppata come un ramo della matematica per rendere conto, originariamente, di sistemi molto semplici come quelli che hanno solo due variabili interagenti. Quando però viene applicata a un sistema per definizione complesso, come può esserlo un essere umano, dove innumerevoli variabili possono avere numerosissimi gradi di libertà, la DST diventa la scienza sistemi di complessi. La struttura principale di un sistema dinamico è il cambiamento al quale è soggetto nel tempo, espresso nell’equazione fondamentale x(t+1) = f(x(t)), la quale esprime che per qualsiasi funzione che descrive

come uno stato x che sta a t (tempo), esista uno stato successivo x che sta a t+1. I calcoli che sono il nucleo della DST nel campo della matematica, non sono necessari per cogliere i principi generali dietro un sistema dinamico complesso come una persona in fase di apprendimento, nel quale le variabili che lo costituiscono sono interamente correlate tra loro in un effetto domino. I sistemi dinamici hanno dunque una struttura a matrioska, ogni sistema è cioè sempre parte di un altro sistema e osserva gli stessi principi dinamici, dalle particelle sub-molecolari all'universo. Siccome si sviluppano nel corso del tempo, i sub-sistemi dinamici sembrano stabilirsi in stati specifici, chiamati attractor states (attrattori), i quali sono favoriti, ma non necessariamente prevedibili; gli stati invece chiaramente svantaggiati sono definiti repeller states (stati di carattere repulsivo). Un’efficace immagine con la quale De Bot, Lowie & Verspoor (2007) descrivono quest’architettura è quella della palla che rotola su una superficie con fori e urti: il processo di sviluppo è rappresentato dalla traiettoria della palla, i fori sono esemplificativi degli attractors states e gli urti dei

repeller states. Più i fori sono profondi, più energia è necessaria per recuperare la palla dalla buca e farla

passare alla buca successiva. Lo sviluppo di alcuni sistemi dinamici sembra essere fortemente dipendente dal loro stato iniziale ed è dunque soggetto a quello che è chiamato effetto farfalla (termine proposto dal Konrad Lorenz per spiegare l'enorme impatto che piccoli effetti locali possono avere sul clima globale): vi è una relazione non lineare tra le dimensioni di una perturbazione iniziale di un sistema e gli effetti che può avere nel lungo periodo, poiché in esso alcune piccole modifiche possono provocare conseguenze ben visibili, mentre perturbazioni di più grande entità possono essere assorbite dal sistema senza che esso si sconvolga. Indipendentemente dai loro stati iniziali, i sistemi sono in continua evoluzione. Si sviluppano attraverso l'interazione con il loro ambiente e attraverso l'auto-riorganizzazione interna. Poiché i sistemi sono costantemente in flusso, essi mostreranno variazioni, che li rende sensibili a uno specifico input a un dato punto nel tempo e a qualche altro input in un altro punto nel tempo. Nei sistemi naturali, lo sviluppo dipende dalle risorse ed essi tendono naturalmente a giungere a un'immobile stabilità quando non viene loro aggiunta energia supplementare.

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Mentre per lungo tempo, la nozione di “sviluppo” è stata prevalentemente riferita alla prima infanzia e legata all’idea che esso dovesse poi arrivare un giorno a un momento di stabilità associato alla maturità, oggi si preferisce considerarlo un processo che si svolge nel corso di tutta la vita. Nei soggetti plurilingui si deve tenere conto inoltre del fatto che i sistemi linguistici non si evolvono necessariamente allo stesso ritmo, e del fatto che la continua interazione di fattori cognitivi, sociali e ambientali determina l’emergere di comportamenti comunicativi creativi.Il processo di sviluppo di un sistema complesso è, infatti, determinato dal suo stato iniziale, dal tipo di portata del sistema e dalle risorse disponibili sia nel sistema cognitivo, sia nell'ambiente.Una visione che aderisce alla DST prevede che il sistema linguistico di un individuo, e i numerosi sub-sistemi che lo compongono, a) siano in continua evoluzione, b) siano largamente interessati dalla variazione, c) che, in un dato punto del tempo, le piccole differenze tra gli individui possano provocare ingenti cambiamenti e d) che non si giunge a uno stato finale stabile. In questa prospettiva nei confronti dei sistemi linguistici, rimane implicito il fatto che non sia necessaria una preesistente grammatica universale nella mente di ciascun individuo, ma piuttosto una disposizione biologica all'apprendimento delle lingue. Ciò che la DST offre è un insieme di idee e una vasta gamma di strumenti utili a studiare i sistemi complessi. Essa può colmare il divario tra le visioni olistiche e le visioni riduzioniste sull’acquisizione di seconda lingua, riconoscendo che tutti gli aspetti del comportamento umano sono collegati, che il cervello non è isolato e che la cognizione ha una base fisiologica come sostengono i fautori della teoria olistica, ma allo stesso tempo che essa miri alla piena quantificazione, obiettivo finale dei riduzionisti. Se questa concezione del linguaggio fosse appropriata, dovremmo ampliare la portata della nostra ricerca per comprendere il processo di acquisizione di seconda lingua e cercando di capire se gli individui hanno veramente sistemi di L1 simili, cosa che appare alquanto dubbia. Inoltre, bisognerebbe appunto indagare come le abilità cognitive e sociali di superficie della L1 influenzano il processo di apprendimento di L2.

Le differenti teorie sulla rappresentazione delle lingue nell’elaborazione cognitiva multilingue hanno portato a categorizzazioni della competenza bilingue che appaiono talvolta troppo semplificative. A seconda della predominanza linguistica si individuano

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diversi stadi di acquisizione, il cui grado più alto è dato da un bilinguismo composto e bilanciato: in questo caso il parlante raggiunge una competenza molto avanzata nella L2, pari a quella della L1, dando quindi spazio a fenomeni di attrito linguistico e significative contaminazioni reciproche delle grammatiche interessate nel processo. I flussi di interferenza linguistica, orientati all’inizio dell’apprendimento dalla lingua dominante a quella in cui il parlante si sente meno sicuro, si invertono e si bilanciano andando in entrambe le direzioni, raggiungendo un’intensità che mette equilibrio i due sistemi linguistici. È tuttavia nella teorizzazione di uno stadio di bilinguismo coordinato che le eccessive schematizzazioni rivelano la loro debolezza: esso prevede, infatti, l’esistenza di due sistemi linguistici pienamente differenziati che si possono sviluppare in maniera indifferente l’uno dall’altro, manifestando come unico “ponte” tra loro un’interferenza dalla L1 alla L2. Questa visione non pare supportata da osservazioni di tipo neurofisiologico, mentre sembra più accettabile il concetto di multicompetenza (Cook, 1991) e l’idea che più lingue possano coesistere nella stessa mente19, formando una sorta di “supersistema linguistico” a vari livelli. Gli utenti bilingui possiedono appunto l’abilità di alternare (switching) e di mescolare (mixing) le lingue che conoscono e sono capaci di differenziarle come di usarle separatamente e selettivamente. Tali competenze sembrerebbero agevolare l’ipotesi di una loro coesistenza nello stesso “spazio” e di una loro interazione bidirezionale. Proprio come avviene per i parlanti monolingui, nel caso di apprendimento di una nuova lingua, quelle già conosciute influenzeranno probabilmente il processo, mentre nello stesso tempo le nuove conoscenze potrebbero avere un impatto sulle lingue che già si hanno a disposizione e sul modo di utilizzarle. Poiché il concetto di

transfer è stato utilizzato principalmente in direzione L1  L2 anziché L2  L1, abbiamo a

disposizione pochi dati per mostrare gli effetti, o la mancanza di effetti, della L2 sulla L1. Secondo Cook (1992) i sistemi fonologici degli utenti bilingui, ad esempio, potrebbero differenziarsi da quelli degli utenti monolingui della stessa L1, come emerso

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