• Non ci sono risultati.

Se diversi dati ambientali accomunano la Sardegna e il Meridione d’Italia, differente appare l’impegno che è stato profuso nel tentativo di arginare e mitigare gli squilibri territoriali che caratterizzano l’isola. Corsi d’acqua a carattere torrentizio, diffusione della malaria nelle aree costiere e sottopopolamento hanno, nel corso dei secoli, influito pesantemente sulle attività economiche e sulla stessa sopravvivenza della popolazione sarda, apparendo ostacoli insormontabili. Come abbiamo visto le operazioni di bonifica erano molto costose e impegnative, sia nella fase di realizzazione che in quella successiva di manutenzione, e richiedevano per questo, oltre a delle solide risorse finanziarie, anche una ferma volontà politica. La mancanza di questo impegno da parte del governo sabaudo ha determinato un ritardo notevole nelle attività di risanamento territoriale che in diverse aree del meridione erano già state avviate alla fine del Settecento, mentre nell’isola sono stati promossi esclusivamente progetti di proporzioni limitate e spesso fallimentari135.

Il primo tentativo fu quello del prosciugamento degli stagni di Sanluri e Samassi, dell’estensione complessiva di 2300 ettari, concessi da Carlo Alberto, con Regie Patenti del 14 aprile 1838, ai tre soci francesi Umberto Ferrand, Rodolfo Ehrsam e Eugenio Cullet di Montarfier136, perché li riducessero a coltura e vi installassero uno stabilimento

poi sotto quella del ministero dell’Interno sino all’Unità.

135 Cfr. Antonello Mattone, Le origini della questione sarda, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a

oggi. La Sardegna, Einaudi, Torino 1998, pp. 3-129.

rurale, in base a un progetto predisposto nel 1831 dall’allora ispettore del Genio Civile Antonio Carbonazzi. Per volere dello stesso sovrano il futuro stabilimento avrebbe preso il nome del suo primogenito Vittorio Emanuele. I soci francesi ottenevano in “perpetua e assoluta proprietà” gli invasi d’acqua, le aree demaniali circostanti e la facoltà di espropriare i terreni privati compresi nella zona da bonificare. Ciononostante l’impresa non si presentava facile, visto che nel 1833 i frati trappisti invitati da Carlo Alberto a procedere alla medesima bonifica, avevano rinunciato rispondendo che sarebbero occorsi tanti scudi quanti ne servivano per ricoprire l’intero stagno137. Gli

stessi obblighi che la compagnia si era assunta a lungo andare si rivelarono più gravosi del previsto, tra questi l’installazione di quattro poderi modello, di laboratori per la costruzione di macchine agricole, di una scuola normale per l’insegnamento della lettura, scrittura e elementi di aritmetica e di una chiesa.

Il sistema di canali di scolo predisposto per il prosciugamento si dimostrò efficace solo in parte, visto che l’affioramento della salsedine nel periodo estivo ostacolò la coltivazione della parte centrale dello stagno138. Si predisposero comunque delle

sperimentazioni su canna e barbabietola da zucchero, in collaborazione con le società agrarie di Torino e Cagliari, ma lo zuccherificio prese fuoco ancor prima della sua inaugurazione. Oltre una piccola quantità di olivi, mandorli e altre piante fruttifere, i risultati migliori si ebbero nella piantagione di acacie, gelsi, salici e platani che però non portarono risultati economici soddisfacenti. Vennero allestiti solo due dei quattro poderi previsti; nel più importante, quello di San Michele, vennero costruiti gli edifici adibiti a direzione, foresteria, officina meccanica, scuola, chiesa, infermeria e abitazioni per il personale, oltre alle stalle e alle scuderie. Il personale era composto da un centinaio di unità tra operai e contadini, che lavoravano secondo orari prestabiliti disciplinati da capisquadra, secondo ritmi più simili a quelli della fabbrica che a quelli dell’attività agricola.

Nonostante l’impegno dimostrato dai soci francesi, la loro opera fallì in breve tempo per diverse ragioni. Innanzitutto gi scarsi profitti che caratterizzano la fase iniziale di una bonifica non permisero alla società, lasciata sola dal governo sabaudo, di coprire le spese sostenute. A questo si aggiunse l’aperta ostilità dei proprietari espropriati e dell’intera popolazione di Sanluri che culminò nel 1847 con l’invasione e il danneggiamento dello stabilimento tramite l’introduzione di bestiame al pascolo nei

137 Carlo Pillai, Dalla palude alla vita, in «Sardegna fieristica», n° 31/1992.

138 Mario Zucchini, Bonifiche in provincia di Cagliari nel secolo XIX, Ramo editoriale degli agricoltori,

terreni già seminati. Nello stesso anno, per cercare di far fronte all’indebitamento si costituì a Lione una Società Anonima per l’esercizio dello stabilimento ma tutti gli sforzi risultarono vani e nel 1857 la concessione passò a uno dei maggiori creditori della società, il marchese Pallavicini di Genova. Quest’ultimo si limitò, fino al momento in cui lo Stato acquistò la proprietà nel 1903, ad affittare la tenuta a pastori e cerealicoltori della zona, abbandonando l’ambizioso progetto iniziale e permettendo alle acque di rioccupare parzialmente i terreni.

Altre bonifiche minori condotte nella provincia di Cagliari negli stessi anni non ebbero risultati migliori139. Nel 1839 il marchese d’Arcais ottenne la concessione per la

bonifica della palude situata tra i villaggi di Ollasta Simaxis e San Vero Congiu, dell’estensione di 109 ettari. Dopo un avvio promettente che portò al prosciugamento e alla costruzione di un’azienda agricola, le sfavorevoli vicissitudini economiche degli eredi del concessionario portarono al graduale abbandono dell’impresa. La stessa sorte ebbe la bonifica della palude di Su Bennazzu Mannu, in agro di Ussana, dell’estensione di 44 ettari, concessa nel 1840 al marchese di Soleminis Don Vincenzo Anastasio Amat. Dopo alcune opere di sistemazione idraulica, per l’esecuzione delle quali vennero impiegati i condannati ai lavori forzati di San Bartolomeo, l’impresa fu totalmente abbandonata. Esiti ancora minori ebbe la concessione della palude di Lunamatrona, dell’estensione di 28 ettari, concessa nel 1841 al conte di San Giovanni Nepocumeno, Don Faustino Fulgheri e mai completamente prosciugata.

Al di là dei risultati effettivi delle bonifiche è importante soffermarsi sulle caratteristiche dei decreti di concessione che testimoniano gli intenti del governo sabaudo. Come questi ultimi fossero non solo economici ma anche politici e sociali è evidente soprattutto per quanto riguarda la concessione dello stagno di Sanluri, che prevedeva non solo la costruzione di una scuola e di una chiesa, ma anche che tutti gli operai assunti fossero cattolici.

Le clausole di carattere tecnico seguivano invece uno schema pressoché invariato. Il terreno bonificato veniva ceduto in proprietà al concessionario e ai suoi eredi, ed era esentato da ogni genere di contributo per un numero di anni che variava a seconda dell’importanza delle opere da eseguire. Il concessionario era tenuto ad eseguire a sue spese, rischio e pericolo, le opere di bonifica, secondo il progetto redatto da un funzionario del Genio Civile ed approvato dal viceré, e se erano ammesse modifiche nell’esecuzione dei lavori mai potevano attuarsi variazioni della superficie del

comprensorio. Rigide erano anche le norme previste per l’esproprio dei terreni privati compresi nelle aree da bonificare, che potevano essere occupati solo dietro pagamento ai proprietari del loro valore addizionato di un quinto, determinato da due periti nominati dalle parti; in caso di disaccordo il Tribunale competente procedeva alla nomina di un perito d’ufficio. La direzione dei lavori di prosciugamento e le operazioni geodetiche necessarie alla delimitazione della superficie del comprensorio venivano assunte da un ingegnere del Genio civile o militare, sempre però a spese del concessionario.

Le patenti fissavano i termini entro i quali dovevano essere eseguite le opere idrauliche, la piantagione degli alberi, la riduzione a coltura del terreno prosciugato e l’impianto di prati artificiali, nonché la costruzione di un numero variabile di case rurali. Tra gli obblighi del concessionario quello di mantenere continuamente in buono stato i fossi di scolo e di risarcire i danni che una mancata manutenzione avesse causato alle proprietà circostanti.

Le clausole erano fortemente vincolanti e in caso di inadempienza, la concessione decadeva e il governo poteva disporre liberamente della stessa senza dovere alcun indennizzo all’ormai ex concessionario, che era anche tenuto a restituire i terreni ai proprietari espropriati qualora avessero voluto riacquistarli mediante restituzione del prezzo ricevuto all’atto dell’esproprio.

A difesa dei comprensori di bonifica, il prosciugamento delle paludi era dichiarato opera di pubblica utilità. Nessuno poteva perciò opporsi agli espropri, ostacolare i lavori o danneggiare le opere, sotto pena del ristabilimento dello status quo ante e del risarcimento dei danni. Il governo era pronto a prestare assistenza militare, ma sempre a spese del concessionario.

Era palese il tentativo da parte del governo di dar vita ad aziende modello che servissero a fissare stabilmente famiglie di lavoratori in aperta campagna, fuori dai villaggi in cui generalmente abitava la popolazione agricola. Questi esperimenti subentravano al programma di colonizzazione attuato con scarso successo nel secolo precedente, l’azione dello Stato e dei feudatari veniva infatti sostituita dall’iniziativa privata, seppur sostenuta da forme legislative di diritto pubblico e dalla protezione statale, ma ancora una volta l’estraneità e la distanza di questi laboratori dall’assetto socioeconomico circostante ne determinò il sostanziale fallimento.