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L’atteggiamento degli economisti rispetto al problema della scarsità delle risorse ambientali è stato spesso basato su un forte ottimismo e sulla volontà di difendere l’economia classica rispetto alle accuse di avere completamente ignorato il ruolo delle risorse naturali. Nel 1974 Robert Solow arrivò addirittura ad affermare che le risorse naturali non rappresentano un fattore indispensabile nell’ambito del processo economico44. Durante gli anni Ottanta anche gli economisti dovettero ridimensionare la

loro fiducia in una crescita economica infinita, in considerazione dello stock di capitale naturale esistente, ma per affrontare il rischio della scarsità (di materie prime o di energia) proposero soluzioni ambigue e contraddittorie, senza mettere mai in discussione i paradigmi economici dominanti.

Herman Daly arrivò alla conclusione che fosse necessario giungere ad uno «stato stazionario» dell’economia, unica via possibile alla salvezza ecologica. Senza mai specificare in modo analitico questo concetto, Daly si limitò a precisare che sia il capitale che la popolazione dovevano rimanere costanti. Essendo un approccio molto ottimistico, si diffuse ben presto come credo dominante, soprattutto nei paesi avanzati, le cui popolazioni niente di meglio avrebbero desiderato che mantenere costanti i propri livelli di consumo, incuranti che l’applicazione di questo modello avrebbe significato, nei paesi economicamente svantaggiati, la condanna a vita nella miseria45. Lo stesso

Daly si accorse che lo stato stazionario non era altro che una grande illusione, e nel 1989 aggiustò il tiro, richiamandosi al concetto di sviluppo sostenibile, probabilmente ancora più ambiguo del precedente e per questo in grado di accontentare tutti. L’idea di sviluppo sostenibile si basa, come sottolinea Nicola Russo46, su una considerazione

strettamente tecnica ed economica della natura e nello specifico sulla rinnovabilità delle risorse e sulla loro gestione. Questo appare chiaro nelle parole di Daly:

«Per la gestione delle risorse ci sono due ovvi principi di sviluppo sostenibile. Il primo è che la velocità del prelievo dovrebbe essere pari alla velocità di rigenerazione (rendimento sostenibile). Il secondo che la velocità di produzione dei rifiuti dovrebbe essere uguale alle capacità naturali di assorbimento da parte degli ecosistemi in cui i rifiuti vengono immessi. La capacità di rigenerazione e di assorbimento debbono essere trattate come

44 Cfr. Nicholas Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e

socialmente sostenibile, (a cura di Mario Bonaiuti), Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 220.

45 Ivi, pp. 221-224.

capitale naturale, e il fallimento nel mantenere queste capacità deve essere

considerato come consumo del capitale e perciò non sostenibile»47.

Come specifica Russo «la visione che ne deriva intende la natura in quanto “capitale naturale” capace di una produzione netta positiva, ovvero naturalmente in crescita, ove poi l’ammontare di questa crescita definisce i limiti del suo sfruttamento sostenibile»48. La natura considerata in questo modo non è altro che un “capitale-

fondo”, secondo la definizione di Paccino49, e la sostenibilità è l’assicurazione della

disponibilità del fondo. In questo senso l’idea della sostenibilità precede il concetto di sviluppo sostenibile che si configura come ottimizzazione dello sfruttamento del capitale-fondo rappresentato dalle risorse naturali.

Secondo Russo le differenti interpretazioni del concetto di sviluppo sostenibile (siano esse affermazioni ecologicamente coscienti o chiacchiere di convenienza) condividono questo fondamento teorico comune ma da un punto di vista strategico e pratico implicano l’adozione di principi d’azione diamentralmente opposti.

Enzo Tiezzi introducendo il concetto di “eco-economia” specifica che con il termine sviluppo non intende una crescita economica, né un progresso quantitativo, ma una modificazione qualitativa basata su presupposti etici precisi che devono informare l’attività economica: la generazione presente e quelle future, le classi privilegiate e quelle svantaggiate, i paesi avanzati e quelli del sud del mondo hanno lo stesso diritto alla vita e dunque alla natura. D’altro canto la contraddizione del termine “sviluppo sostenibile” permane anche in questa interpretazione perché la sostenibilità come abbiamo visto si riferisce a dei parametri quantitativi.

Anche queste interpretazioni “volenterose”50 tendono ad oscillare ambiguamente

tra la critica al paradigma occidentale, sia dal punto di vista economico che scientifico, e il suo riconoscimento. Si tratta di una sorta di realpolitik dell’ecologia51, riconosciuta

apertamente dal Wuppertal Institut: «attualmente l’ecologia ha ancora delle possibilità nel dibattito politico solamente se scende in campo alleata all’innovazione tecnica e alla possibilità di conquistare settori di mercato, altrimenti per lei non c’è nulla da fare»52.

In questo modo però l’ecologia rimane invischiata tra gli interessi contrastanti delle

47 Cfr. Enzo Tiezzi, Fermare il tempo, Un'interpretazione estetico-scientifica della natura, Cortina,

Milano 1996, p.141.

48 Nicola Russo, Filosofia ed ecologia…cit., p. 175. 49 Dario Paccino, L’imbroglio ecologico…cit., p. 97.

50 Vedi anche Thomas Heid, Sviluppo sostenibile: panacea e aporia?, in Corrado Poli, Peter Timmerman

(a cura di), L’etica nelle politiche ambientali, Fondazione Lanza-Gregoriana Libreria editrice, Padova 1991, pp. 357-375.

51 Nicola Russo, Filosofia ed ecologia…cit., p. 187.

società moderne, senza aspirare ad un ruolo determinante che si situi al di sopra di tali logiche. Esemplare in questo senso è il Rapporto Brundtland, il testo fondamentale sullo sviluppo sostenibile su cui si basa gran parte dell’attività istituzionale in merito, considerato da Russo

«un vero e proprio capolavoro del compromesso e dell’utopia mascherata da realismo e buona volontà, di un’utopia che è tale, peraltro, non in quanto ignora i limiti del reale e del possibile e la forza della contingenza, ma perché pretende di dare ragione a tutti e far tutti contenti, senza però fornire i criteri e i mezzi di una decisione reale e scadendo così a bastione dello status quo e dei valori della nostra [in]civiltà»53.

L’ambiguità di fondo è evidente nella definizione stessa di sviluppo sostenibile contenuta nel rapporto, la cui indefinitezza ha contribuito probabilmente al suo successo: “lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. È sufficiente non specificare il contenuto del termine “bisogni”, renderlo volatile, e si ha la ricetta per tutti i mali, ma al di là di un testo così compromissorio l’interpretazione di istituzioni quali la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo

Sviluppo è invece molto chiara, il bisogno principale di tutte le generazioni viene

identificato con un benessere generalizzato ottenuto attraverso la crescita economica: nella pratica istituzionale le ambiguità vengono così sciolte e le intenzioni svelate.

A questo riguardo non paiono fuori luogo le critiche rivolte negli anni settanta da Paccino e Tibaldi54 rispetto all’uso politico e istituzionale dell’ecologia, e alla

mercificazione della natura, anzi la formulazione del concetto di sviluppo sostenibile appare proprio un antidoto verso le forme di ecologismo volte ad un ripensamento dell’intero sistema economico.

Alessandro Lanza, autore di diversi testi sullo sviluppo sostenibile, giunge ad affermare che la crescita economica «più che essere alla radice del problema ambientale, può invece concorrere a costituirne almeno in parte la soluzione», attraverso la dematerializzazione e la tecnologizzazione della produzione. Questo assunto viene motivato con la tesi secondo cui nel passaggio da una società industriale ad una società di servizi l’impatto ambientale tenderebbe a ridursi, il che è senz’altro vero, ma solo in società che hanno già raggiunto limiti estremi e comunque in modo

53 Nicola Russo, Filosofia ed ecologia…cit., p. 188

54 Dario Paccino, L’imbroglio ecologico…cit.; Ettore Tibaldi, Anti-ecologia, Il Formichiere, Milano

pressoché irrilevante (ciò può dedursi dall’esempio degli Stati Uniti, il paese per eccellenza del terziario avanzato). In realtà è l’impostazione di fondo ad essere errata, ci si concentra esclusivamente sulle risorse e sui limiti ambientali del loro sfruttamento, ma non viene preso in considerazione il limite al consumo, al contrario l’ipertrofia del consumo viene considerata il vero motore dello sviluppo. La società occidentale in quest’ottica non può nemmeno più essere considerata una “società dei consumi” quanto piuttosto una “società dei rifiuti”, nel momento in cui i prodotti vengono dimessi prima di poter essere effettivamente consumati55.

A rifiutare la validità del concetto di sviluppo sostenibile e la sua applicazione, è tra gli altri l’economista Nicholas Georgescu-Roegen, la cui “teoria bioeconomica” è stata analizzata in Italia da Mauro Bonaiuti56. Georgescu-Roegen afferma che il

processo di sviluppo economico è soggetto a limiti di natura entropica, ogni attività economica, cioè, comporta l’irreversibile degradazione di quantità crescenti di materia e di energia. Da questo discendono due importanti conclusioni: l’obiettivo principale dell’economia moderna, la crescita economica illimitata, risulta in contraddizione con le leggi fondamentali della natura, quindi va abbandonato; la rappresentazione pendolare del processo economico, secondo la quale la domanda stimola la produzione e quest’ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in un ciclo reversibile e riproducibile all’infinito, deve essere sostituita con una rappresentazione circolare ed evolutiva, che tenga conto delle interazioni tra sistema economico e ambiente biofisico, irrilevanti per gli economisti standard.

Secondo Georgescu-Roegen il livello di dissipazione di risorse ed energia ha raggiunto vette tali che non l’arresto della crescita economica ma solo un progetto organico di desviluppo (undevelopment) e di deaccumulazione è in grado fornire risposte valide per fronteggiare la crisi ambientale. Bonaiuti precisa il concetto di decrescita:

«Non è un programma masochistico-ascetico di riduzione dei consumi, nell’ambito di un sistema economico-sociale immutato. […] Decrescita, inoltre, non significa condannare i paesi del Sud del mondo a un’ulteriore riduzione dei loro redditi pro capite. L’appello alla decrescita è rivolto dunque, in primo luogo, ai paesi del Nord. Anche per i paesi del Sud, tuttavia, la decrescita comporta un significativo cambiamento di prospettiva: non si tratterebbe più, infatti, di seguire i paesi “più avanzati” lungo il

55 Cfr. Nicola Russo, Filosofia ed ecologia…cit., pp. 191-193. 56 Cfr. Nicholas Georgescu-Roegen, Bioeconomia…cit..

sentiero della crescita. […] Per quanto la decrescita alluda, sul piano economico, a una riduzione complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa in un senso più ampio come una complessiva trasformazione della struttura socio-economica, politica, e dell’immaginario collettivo, verso assetti sostenibili»57.

In questo modo è proprio dagli economisti che proviene la più netta critica al dogma dello sviluppo, basata su semplici osservazioni del sistema-mondo. Bonaiuti sceglie infatti come epigrafe al testo da lui curato un’affermazione di un altro economista che ha studiato a fondo i problemi dell’interazione economia/ambiente, Kenneth E. Boulding58: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare

all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista».