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Breve rassegna delle principali interpretazioni del fr PGMF 17: verso l’ipotesi della ‘novità’

Il frammento è tramandato dal solo Ateneo e inserito come esemplificazione di ἀδηφαγία in un catalogo di celebri ‘ghiottoni’. Il motivo della voracità eccessiva di Alcmane, per altro recuperato anche da Eliano (Ael. VH 1 27 λέγεται δέ ἐν Σικελίᾳ Ἀδηφαγίας ἱερὸν εἶναι καὶ Σιτοῦς

240 Vedi LfrgrE III 1627s. s.v. πυκάζω. Cf inoltre LfgrE II 791 s.v. εὐποιητός. 241

Cf. LfgrE II 892s. s.v. ἡδύς.

242 La correzione risale a Grotius 1626, Excerpta ex tragoediis et comoediis graecis tum quae extant tum quae penerunt, Parisiis, I, 978 e così anche l’edizione di Kassel e Austin. Diversamente Casaubon [in Animadversiones in Athenaei Deipnosophistas, VII. Post Iacobuum Casaubonum edidit Iohannes Schweighäuser, Argentorati 1805, 528], il quale emenda il testo in κοὐ κοινοῖσι.

243 Secondo Arnott quasi la totalità della scrittura del codice, eccetto che per gli ultimi 24 folii, deve essere assegnata alla mano di Giovanni il calligrafo, il quale in un periodo compreso tra il 895 e il 917 d.C. copiò il testo dei Deipnosofisti da un manoscritto in minuscola. Cf. Arnott 2000, 42ss. e ibid. 542 n. 4.

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ἄγαλμα Δήμητρος· ὀμολογεῖ δὲ καὶ Ἀλκμὰν ὁ ποιητὴς ἑαυτὸν πολυβορώτατον γεγονέναι) rientra pienamente nel profilo del poeta dedito oltremodo all’eros e al cibo ricostruito dalla tradizione antiquaria, in particolar modo quelle peripatetica e pitagorica245; esso non ha però avuto alcun

séguito nella critica moderna246, la quale si è piuttosto concentrata sul significato di un tripode

‘epico’ pieno di cibo prosaico e della definizione di παμφάγος con cui il poeta si schiera con i gusti del popolo. In mancanza di una contestualizzazione del frammento, sono state avanzate su di esso le proposte più disparate, di cui segnalo qui le più significative.

I primi studiosi interessatisi al testo hanno colto nel frammento la rielaborazione letteraria di una tematica familiare: Welcker e Jurenka parlano di una suppellettile offerta all'amata; Clemm di una lettera di accompagno a un dono (ἀποστολικόν), non necessariamente destinato a una fanciulla; Romagnoli, seguito in parte da Garzya e poi da Del Grande, pensa a un Alcmane scherzoso che offre il proprio tripode come contenitore per una cena tutta a spese del destinatario247.

Diversamente Edmonds, il quale colloca il frammento in un partenio e identifica il tripode con il premio che sarà offerto alla corega da un giudice (persona loquens) al termine di un agone corale248.

Ehrenberg per primo ipotizza che nel frammento sia una nascosta simbologia e riconosce all’ἔτνος un preciso valore ideologico e sociale: «die Form der Nahrung ist stets und überall elementarster Ausdruck des Sozialen»249. In questa prospettiva, il cibo semplice, consumato con

piacere da Alcmane e dal popolo, sarebbe una proiezione della società spartana del VII sec. a.C, al cui stile di vita il poeta dichiara di aderire in toni apertamente autocelebrativi; il sostantivo δῆμος, lungi dall’assumere la connotazione svalutante e dispregiativa di ‘popolino, massa’,

245 Vedi Nannini 1988, 20. La studiosa segnala la medesima accusa d’intemperanza erotica e gastronomica contro Archestrato e Filenide da parte dello stoico Crisippo e del peripatetico Clearco di Soli (Chrys. de pulchr. et volupt. fr. 5; Clearch. fr. 63 W.) e l’interpretazione pitagorica, filtrata da Cameleonte, di un Alcmane οὐ μετρίως ἐρωτικός in Ath. XIII 600f-601a [frr. PMGF 59 (a-b) = frr. 148-149 Cal.]. In aggiunta a ciò, si può osservare che l’accusa di ἀδηφαγία mossa ad Alcmane et aliis è in pieno accordo con le teorie filosofiche delle scuole post-aristotelica e pitagorica di IV sec. a.C. che tanto influsso hanno avuto sul testo di Ateneo: in particolare, da segnalare è l'esaltazione di una mitica età dell'oro caratterizzata da un'estrema essenzialità (σπανιότης) che si riflette in un parco e nobile regime di vita. (cf. Dicearc. fr. 49 Wehrli = Porphyr. de abst. IV 2, 228-231 Nauck). Vedi Vidal Naquet 1981, 361s. e Cambiano-Repici 1989, 88.

246 Scetticismo sul motivo dell’ἁδηφαγία è già presente in Welcker 1856, 408; Clemm 1876, 6; Michelangeli 1889, 30; Taccone 1904, 75; Romagnoli 1933, 41s.

247 Cf. Welcker 1815, 38ss.; Clemm 1876, 4ss.; Jurenka 1896, 242ss. Romagnoli 1933, 41ss., Garzya 1954, 118s., Del Grande 19592, 94ss. In tutte queste interpretazioni, l’autodefinizione ὁ παμφάγος Ἀλκμάν assume una Stimmung essenzialmente ironica, che fa riferimento o a gusti semplici e di poche pretese del tutto coerenti con l’ambiente spartano (cf. Welcker [1856, 411], che traduce l’epiteto «der alles isst» e commenta «sequentia vocem παμφάγος ne posse quidem aliter accipi atque hoc sensu vel simili ostendunt, cum τὸ τετυγμένον opponatur τοῖς κοινοῖς, communi victui, quo contenuts vivit…nec dubito laudi fuisse Spartae παμφάγος εἶναι»; così anche Clemm 1876, 4 e Del Grande 1959, 94) o alla golosità smodata anche per il cibo più semplice (cf. Romagnoli 1933, 41ss.).

248 Così Edmonds 1922, 83: «when you, the chorus leader, have won the singing contest for Alcman, I, the judge (A. makes him say) will give you-and him- the prize.» Tale soluzione sembra la più plausibile anche a Bowra 1973, 97. 249

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rappresenterebbe il nucleo fondante dei cittadini attivi nella polis250. Imprescindibile pendant a

questa condizione sociale è, secondo Ehrenberg, l’espressione τὰ κοινὰ (v.7), la quale, sub specie cibi, allude metaforicamente alla partecipazione della comunità a valori condivisi, eccezion fatta per alcuni singoli che a tale norma non si uniformano e che preferiscono, diversamente dal poeta e dal δῆμος, cibo τετυγμένον251.

L’interpretazione socio-politica di Ehrenberg ha condotto numerosi studiosi a concentrarsi sul legame di carattere sociale tra cibo, poeta e δῆμος, giungendo tuttavia a conclusioni diverse. Secondo Von der Mühll, attraverso l’adesione alla δίαιτα del δῆμος Alcmane denuncia in tono autoironico le ristrettezze economiche di poeta itinerante, costretto a guadagnarsi da vivere come può e a mangiare di tutto in mancanza di meglio, anche una comune purea di legumi. In questo quadro di povertà, la promessa del dono non può essere che illusoria e scherzosa, forse concepita all’interno di un Eiresione Lied252. Dopo di lui, Janni parla di laus inopiae, un’adesione convinta e

tutt’altro che ironica da parte del poeta a un ideale di moderazione vicino a quello del delfico μηδὲν ἄγαν253. Da ultimo, Bowra coglie nel frammento uno spunto autobiografico: Alcmane,

250 Lo studioso identifica con il termine δῆμος una società spartana ancora lontana dalle nette ripartizioni interne riferite da fonti storico-trattatistiche di epoca classica e successiva (tra cui Hdt. VII 34; Thuc. I 6,3; Arist. Pol. V 1306b,36ss). Nel prosieguo del suo ragionamento, Ehrenberg distingue il cibo saziante scelto da Alcmane da quello obbligatorio e razionato dei syssitia spartani di epoca tardo-arcaica e classica. [1933, 305]: «aus die Freude am Erbsbrei war die Pflicht zur schwarzen Suppe geworden». A conclusioni simili a quelle di Ehrenberg su questo punto giungono Donlan 1970, 386, n. 17; Forti-Messina 1956, 229s.; Kiechle 1963, 185ss.; Oliva 1971, 116s. e, da ultimo, Nafissi 1991, 207s. Per il consumo razionato del ‘brodo nero’ detto ζωμός, si confronti la descrizione dei syssitia di Dicearco conservataci da Ateneo [Ath. IV 141b = Dicearc. fr. 72 Wehrli, (…) ἕτερον οὐδὲν πλὴν ὅ γε ἀπὸ τούτων (κρέων) ζωμὸς ἱκανὸς ὤν παρὰ πᾶν τὸ δεῖπνον ἅπαντας αὐτοὺς παραπέμπειν] e l’ironica ‘requisitoria’ di Antifane in epoca post –classica, il quale lo descrive come uno dei tanti rigidi, antiquati precetti della società spartana (fr. 46 K-A = Ath. IV 143a, ἐν Λαικεδαίμονι γέγονας· ἐκείνων τῶν νόμων μεθεκτέον´ ἔστιν. Βάδιζ᾿ἐπὶ δεῖπνον εἰς τὰ φιδίτια, ἀπόλαυε τοῦ ζωμοῦ,† φόρει τοὺς βύστακας. Μὴ καταφρόνει, μηδ᾿ἕτερ᾿ἐπιζήτει καλά, ἐν τοῖς δ᾿ἐκείνων ἔθεσιν ἴσθ᾿ἀρχαικός).

251 Cf. Ehrenberg 1933, 289: «…das Ganze des spartanischen Volks gegen die Einzelnen (viele oder wenige), deren Leben der allgemeinen Norm und Sitte widersprach».

252

Cf. Von der Mühll 1951, 210ss. A sostegno della propria ipotesi, come opportunamente notato da Nannini 1986, lo studioso avrebbe potuto citare l’accezione semantica di ‘mendicare’ attestata per i verbi verbi ἀγείρω e ζητέω, attestata a partire da Omero e assurta in epoca più tarda a indicare l'attività specifica dell'accattonaggio.

253 Cf. Janni 1965, 85s. n. 41. A sostegno della sua ipotesi sull’influsso della morale delfica sul testo di Alcmane, lo studioso cita un frammento di Bacchilide (fr. 21 M. = Ath. XI 500b). Si tratta, se si vuole prestar fede alla notizia di Ateneo, di un invito ai Dioscuri, nel quale il poeta non garantisce un apparato di prim’ordine, ma offre amabile canto e vino in coppe di Beozia (οὐ βοῶν πάρεστι σώματ᾿,οὔτε χρυσός, οὔτε πορφύρεοι τάπητες, ἀλλὰ θυμὸς εὐμενής,/ Μοῦσά τε γλυκεῖα, καὶ Βοιωτίοισιν ἐν σκύφοισιν οἶνος ἡδύς). Sul contesto esecutivo del frammento, Wilamowitz per primo [in Snell 19618 Praef., IV] si pronuncia a favore un banchetto privato; dopo di lui Jebb [1905, 419], pur non scartando a priori l'ipotesi di Wilamowitz [ibid. «the language (recalling Horace's in Carm. I 201. Vile potabis modicis Sabinum Cantharis) would perfectly suit a private invitation to a modest home»], pensa piuttosto a un componimento in occasione della cosiddetta Anake, la quale viene descritta da Ateneo (IV. 137e) come una festa ateniese in onore dei Dioscuri, che ricorda l’ἀρχαία ἀγωγή attraverso l'allestimento di un pasto frugale. In questa direzione, da ultimo anche Maehler 1997, 340s. Al di là delle singole ipotesi sul frammento bacchilideo, mi sembra interessante osservare come da un punto di vista stilistico esistano dei punti di contatto con il testo di Alcmane, in particolare l’insistita presenza del modello epico e la sua ironica rielaborazione. A ben vedere, l'accoglienza riservata da Bacchilide ai suoi due divini ospiti sembra costruita e contrario su quella riservata da Achille a Aiace e Odisseo nel nono Libro dell'Iliade: l’espressione πορφύρεοι τάπητες, uno degli ornamenti negati da Bacchilide ai propri ospiti, compare in riferimento alla tappezzeria usata da Achille per il ricevimento dei due eroi (Il. IX 200); inoltre, mentre in Omero l'opulenza delle carni è descritta con dovizia di particolari e rappresenta uno degli elementi fondanti del banchetto (IX 207s.), in Bacchilide essa è sbrigativamente risolta nel sintagma βοῶν σώματα e scartata a favore di buona disposizione d’animo e

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autodefinendosi παμφάγος, affermerebbe di saper consumare, oltre al cibo più elaborato delle famiglie nobili, anche le vivande più dimesse del δῆμος dei contadini254.

Sui possibili argomenti a favore di ciascuna di queste ipotesi, rinvio a Nannini 1986, 23s. Mi limiterò qui ad alcune osservazioni supplementari. Desta una certa curiosità che nella maggioranza dei loci paralleli segnalati dagli studiosi a sostegno delle proprie ipotesi, per lo più di epoca ellenistica e romana, sia stato individuato un sotteso messaggio poetologico: ad esempio, Welcker e Jurenka menzionano l’Idillio 5 di Teocrito, un agone bucolico tra i caprai Comata e Lacone, nel corso del quale quest’ultimo dichiara di tenere in serbo per la ragazza amata un secchio in legno e un cratere, ironizzando iperbolicamente sulla loro qualità (Theoc. 5, 104s., ἔστι δέ μοι γαυλὸς κυπαρίσσινος, ἔστι δὲ κρατήρ/ ἔργον Πραξιτέλευς· τᾷ παιδὶ δὲ ταῦτα φυλάσσω). Di recente Belloni ha proposto di cogliere nell’associazione del γαυλός e del κρατήρ un allusivo rimando ai criteri compositivi della poesia ellenistica e teocritea, vale a dire l’elevazione al rango letterario di soggetti realistici (γαυλός) attraverso una tecnica raffinata (κρατήρ)255.

Romagnoli, come poi anche Del Grande, propone un confronto con la poesia ‘d’invito’ latina, in particolare con il celebre carme 13 di Catullo nel quale, tra una serie di battute παρὰ προσδοκίαν, compare anche la promessa di una cena abbondante e ben condita con vino e intrattenimenti, purché a portarla sia il destinatario dell’invito (Cat. 13,1-4, Cenabis bene, mi Fabulle, apud me/ paucis, si di tibi favent, diebus, si tibi attuleris bonam atque magnam/ cenam)256; in cambio il poeta è disposto a fornire meros amores

(v. 9) e unguentum della sua amata (v.11). Anche in questo caso, i doni sono fortemente evocativi e sembrano costituire delle indicazioni dello stile e della poetica di Catullo stesso257.

In ultimo, la proposta di Edmonds invita a un confronto, oltre che con il tripode- premio d’agone in Hes. Op. 656-659, anche con l’Idillio 1 di Teocrito, dove il premio stanziato dall’anonimo capraio in ricompensa del canto di Tirsi è costituito proprio da un manufatto. Rispetto agli altri casi, le affinità con il frammento di Alcmane, e dunque le possibili riprese da parte di Teocrito, sono più evidenti anche sul piano linguistico: compaiono infatti la medesima formula di promessa (Theocr. 1,25 τέ τοι δωσῶ) e una simile descrizione del manufatto, il quale è capiente, di nuova fattura, ancora inutilizzato (vv. 27s., καὶ βαθὺ κισσύβιον κεκλυσμένον ἁδεῖ κηρῷ,/ ἀμφῶες, νεοτευχές, ἕτι γλυφάνοιο ποτόσδον) e presto verrà ceduto per essere colmato di umile contenuto (vv. 143s., καὶ τὺ δίδου…τό τε σκύφος, ὥς κεν ἀμέλξας σπείσω ταῖς Μοίσαις). Anche in questo caso, come nell’Idillio 5 e forse con maggiore evidenza, le caratteristiche del manufatto rispecchiano in toto quelle del canto di cui esso stesso è premio258.

In ultimo pur in assenza di paralleli diretti l’interpretazione proposta da Ehrenberg, i.e. l’autorappresentazione del poeta attraverso simbologie alimentari per denunciare

piacevolezza del vino. 254 Cf. Bowra 19732, 95ss. 255

Cf. Belloni 2010, 309-325.

256 Per la struttura del carme di Catullo, cf. Helm 1980-1, 213s; pr un simile pattern, cf. Hor. Carm. IV 12,21-24, ad quae si properas gaudia, cum tua/ velox merce veni: non ego te meis/ inmunem meditor tinguere poculis,/ plena dives ut in domo.

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Cf. Gowers 1996, 305ss: «con meros amores e unguentum si combinano quegli aspetti dell’arte di Catullo che sono i più evocativi e inafferrabili: quel qualcosa di indescrivibile che è possibile trasporre in forma scritta in una ricetta vera e propria».

258 Cf. Segal 1974, 27: «the elaborately adorned artifact and prize of song which itself as work of art symbolizes poetry and especially pastoral poetry».

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tensioni interne alla comunità, , vale la pena ricordare a riguardo un celebre e problematico mimiambo di Cercida di Megalopoli, ricondotto da numerosi studiosi a un’esecuzione simposiale. In esso il poeta denuncia le tensioni sociali e disparità economiche interne alla polis e auspica una distribuzione della ricchezza a favore di una categoria di individui moderati nel cibo e nel bere, definita dagli hapax legomena ἐπιταδεοτρώκτας e κοινοκρατηρόσκυφος (fr. 1.10s. Lomiento = 3.10s. Livrea = P. Oxy 8,1082 fr. 1 col. III 49s.)259.

Nuove prospettive interpretative sul frammento si sono aperte alla fine degli anni ’70, in linea con un nuovo approccio di analisi nell’ambito della lirica arcaica che ha dedicato particolare attenzione alla ricostruzione del contesto performativo e di quanti vi agiscono (poeta, pubblico, coro) attraverso uno studio approfondito degli elementi costitutivi di langue e parole letteraria. Numerosi studiosi si sono dunque soffermati sulle dinamiche interne (i.e. dell’offerta del tripode) del frammento, sul riconoscimento dei suoi agenti (i.e. destinatore/ persona loquens e destinatario del dono) e, in base a questi elementi, sul suo possibile contesto di esecuzione.

In due studi pressoché coevi, Calame e Rösler si esprimono allo stesso modo sul problema del destinatore del dono: in Alcmane l’ ‘io’ loquens non è di norma identificabile con il poeta che compone il canto, ma con il coro che lo esegue, inteso in tutte le sue varianti ( ‘io’ corale, coreuta che si rivolge alla corega, coreute tra loro, etc) e il poeta fa riferimento a sé stesso soltanto in terza persona260. Tali riflessioni portano Calame a ricondurre il fr PMGF 17 a un’esecuzione corale e in

particolare alla descrizione di un banchetto rituale: «[...] on voit le choeur décrire les préparatifs de la fete qu'il est en train de célébrer, de meme estimons-nous qu'ici, la personne qui dit je (probablement des choreutes s'adressant à lour chorège) montre la préparation d'un repas rituel commencant par le don d'un trépied tout neuf»261.

Diversamente, Vetta ipotizza che il fr. PMGF 17, e con esso un cospicuo di altri frammenti di

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Sul significato di questa terminologia sono state presentate numerose ipotesi, senza che alcuna possa considerarsi più valida delle altre. Livrea [1986, 33] e Lomiento [1993, 171] sostengono che dietro tali definizioni si celano i membri del popolo impoverito per i quali Cercida, per quanto abbiente, doveva nutrire da filosofo cinico una naturale simpatia. Pasquali [1964, 215 n. 2] e, dopo di lui, López Cruces [1995, 124s.] ritengono che le due espressioni designino proprio il milieu del poeta. Le differenze d᾿interpretazione si riflettono necessariamente sulla resa linguistica dei due composti: nel caso di ἐπιταδεοτρώκτας si adottano le due soluzioni, affatto differenti, di ‘colui che rosicchia il poco necessario᾿ o, con una chiara Stimmung ironica, ‘colui che consuma con buon appetito il suo pasto᾿. La traduzione sostanzialmente unanime di κοινοκρατηρόσκυφος, ‘colui che attinge con la coppa al cratere comune᾿, lascia però ampio spazio all’ambiguità semantica di κοινός, interpretato ora nel senso dispregiativo di un Trinkverein popolare, ora in quello elogiativo di un simposio praticato in comune.

260 Cf. Calame 1977 I, 437 e, in modo del tutto simile a proposito di fr. PMGF 17, Rösler 1980, 66 n.87: «die Namensnennung (…) gehoren hingegen offenbar nicht zu eigentlichen Siegeln, sondern ergaben sich vermutlich aus dem rollenhaften Charakter der betreffenden Chorlieder, der sich bei Alkman auch sonst nachweisen lasst: Der Verfasser spricht von sich in der 3 Ps., da ja nicht er selbst, sondern ein Chor das Lied vortragt» e id. 1985, 140 «...l'”io” può indicare il coro, nel suo insieme o un singolo componente; del poeta si parla conseguentemente in terza persona».

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Alcmane, abbia una destinazione di carattere simposiale262 e un’esecuzione monodica. In questo

caso, l’io loquens coinciderebbe così con Alcmane stesso, il quale, nominandosi successivamente in terza persona, si autorappresenterebbe orgogliosamente di fronte al proprio uditorio come colui che ne condivide i gusti e, dunque, i valori263: nel contesto di un simposio arcaico, in cui l’elemento

gastronomico e poetico sono fattori di coesione e di identità, l’etichetta παμφάγος Ἀλκμάν sarà risuonata, secondo Vetta, come un riconoscimento immediato da parte della comunità e una gloria postuma da parte di quanti, in futuro, nella medesima occasione ricordassero o ripetessero il canto264.

Nannini, partendo dall’ipotesi simposiale di Vetta, coglie nel tripode pieno di legumi una

262 Numerose testimonianze attestano per la Sparta arcaica l’esecuzione di canti in contesti conviviali. Un cospicuo filone aneddotico fa risalire l’arrivo di Terpandro a Sparta a una disposizione dell’oracolo delfico, secondo cui il citaredo lesbio avrebbe dovuto cantare i suoi componimenti durante i pasti comuni spartani per mettere fine a tensioni sociali interne (Terp. testt. 14a, 14b e 60i Gostoli = Philodem. de mus. 1 fr. 30,31-35, 18 Kemke; Philodem. de mus. 4 P. Hercul. 1497, col. XIX 4-19 (85-86 Kemke); Phot. Lex. s. v. μετὰ Λέσβιον ᾠδόν). In secondo luogo, Pindaro ricorda Terpandro come il primo ad aver introdotto il βάρβιτος da simposio dopo aver ascoltato la πηκτίς dei conviti di Lidia (Pind. fr. 125 S-M = Aristox. fr. 99 Wehrli = Ath. XIV 635b-d, τὸν ῥα Τέρπανδρος ποθ᾿ὁ Λέσβιος εὗρεν/ πρῶτος ἐν δειπνοῖσι Λυδῶν/ ψαλμὸν ἀντίφθογγον ὑψηλᾶς ἀκούων πακτίδος) e, stando alla notizia complementare fornitaci dallo pseudo-Plutarco, egli sarebbe stato il primo a aver eseguito canti conviviali con il nome di σκολιὰ μέλη ([Plut.] 28,1140f, εἰ δὲ, καθάπερ Πίνδαρός φησι, καὶ τῶν σκολιῶν μελῶν Τέρπανδρος εὑρετὴς ἦν). Cf. Gostoli 1990, 90 e XXXVIII. A proposito di una tradizione musicale spartana a simposio, Filocoro ci informa presso Ateneo (Ath. XIV 630f) della consuetudine di intonare canti durante i syssitia, che risalirebbe all’esperienza militare di Tirteo durante le guerre messeniche. Almeno al VI sec. a.C. sembra inoltre risalire l’esecuzione di sue elegie nell’ambito di un agone musicale, giudice il polemarco, durante sissizi militari. Effettivamente, numerosi frammenti di Alcmane sembrano testimoniare una partecipazione attiva da parte del poeta alle diverse forme della convivialità spartana: nei frr. PMGF 95 (b) = 92 Cal. e PMGF 95(a) = 131 Cal compare il termine αἶκλον, che da Ateneo è descritto come una forma di pasto in comune o di secundae mensae, durante le quali singoli cittadini offrono cibo supplementare, mentre un aiutante dichiara a voce alta il nome dell’offerente (Ath. IV 139b-141e). Nel primo frammento citato, Alcmane sembra avere un ruolo attivo nella preparazione del pasto, forse riferibile all’intrattenimento poetico durante il suo svolgimento: in tal caso, esso sarebbe avvicinabile a PMGF 98 = 98 Cal (σοίναις δὲ καὶ ἐν σιάοισιν/ ἀνδρείων παρὰ δαιτυμόνεσσι/ πρέπει παιᾶνα κατάρχην), vera e propria riflessione sulle forme poetiche da praticare a banchetto.

263 Cf. Vetta [1981, 490 n.1], secondo il quale la «rara tematica privata e autoironica e l'accenno significativo al pasto spartano» corrispondono di fatto a una presentazione del ruolo e della personalità del poeta. Nello slittamento dalla prima alla terza persona, lo studioso ipotizza qualcosa di simile a ciò che accade nel frammento ipponatteo della preghiera a Hermes (Hippon. frr. 42 a-b Deg2 = frr. 32 e 34 W2). Dapprima il poeta si rivolge al dio in prima persona con un’ἐπίκλησις che rielabora lo stile epico (v. 2, ἐπεύχομαί τοι) poi si nomina in terza persona (v.4 δὸς χλαῖναν Ἱππωνάκτι κτλ). Cf. Degani 2007. Quest’ultimo vezzo stilistico ricorre in altri frammenti (frr. 42,2; 46; 79,9 Deg2 = 36,2; 37; 79,9 W2) ed è volutamente recuperato assieme allo slittamento di persona nei Giambi di Callimaco, al momento di introdurre il poeta di Efeso redivivo dall’Ade tra i poeti del Museo (fr. 191,1 Pf, ἀκούσαθ᾿Ἱππώνακτος· οὐ γὰρ ἄλλ᾿ἥκω, κτλ). Altrettanto significativo, seppure ben più tardo, mi sembra il caso di Hor. I 31, una preghiera di carattere privato destinata ad Apollo. Nell’incipit di coloritura epica, il poeta si nomina vates alla terza persona (vv. 1s., quid dedicatum poscit Apollinem/ vates), mentre nei versi che seguono, con lo stesso scarto di persona loquens, il poeta parla in prima persona della sua scelta di diaita, anche in questo caso come in Alcmane ispirata a cibi semplici e che saziano a dovere (me pascunt olivae/ me cichorea levesque malvae./ Frui paratis et valido mihi,/ Latoe, dones, etc.). Cf. Hubbard-Nisbet 1989, 355-357. Sul valore di pasco come verbo della sazietà in contrapposizione a quello del puro nutrimento alo, cf. Ernout-Meillet DELL, 486, s.v. pasco.

264 A tali conclusioni, Vetta arriva in più occasioni: cf. Vetta 1981, 490 n.1; 1992, 185ss.; 1983, LIIss. Occorre osservare che l’ipotesi non è priva di precedenti: sulla possibile natura monodica e simposiale del componimento si pronunciarono già alcuni tra i primi editori (cf. Hartung 1806, 141 «Skolien hat bereits Terpander gedichtet, wie Pindar bezeugt...,Alkmans Vorganger in Sparta. Wie also die Spartaner bereits an das Skoliensingen gewohnt waren, so wird auch Alkman, ihr zweiter Nationaldichter, nicht umhin gekonnt haben welche zu machen»; Smith 1900, 192 «The poem recalls a skolion sung by a single voice rather than a choral song»). Per l’identificazione poeta = persona loquens, cf. Schmitz 1970, 11 e 59 n. 14, dove si parla di una Selbstaussage del poeta al v.1 e di uno slittamento di persona simile a quello presente in Theocr. 5,17-19.

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metafora poetica, la quale, proprio per il suo carattere allusivo, può essere sciolta soltanto dal ristretto pubblico di una riunione conviviale: il τρίπους, a un tempo oggetto di prestigio e pentola da cucina, e l’ἔτνος, cibo semplice e saziante che riflette la condizione del δῆμος, costituiscono le