• Non ci sono risultati.

Il primo distico e la missione del poeta (769-770)

Quest'ultimo ci viene presentato al v. 769 con un'espressione di carattere solenne e epicheggiante: l'appellativo Μουσέων θεράπων è eredità della tradizione epica che gode di numerosissime occorrenze: tra le altre, HH. 32, 20; [Hom] Marg. fr. 1, 2, Hes. Th. 99s. (ἀοιδός / Μουσάων θεράπων), Bacchyl. 5, 12 e, con valore apertamente parodico, in Ar. Av. 909309. Alla fine dell’epoca

arcaica Pindaro e Bacchilide rivitalizzano la metafora rielaborandola nell'equazione poeta = profeta delle Muse (Pind. Paean. VI,6 e fr. 150 S-M; Bacchyl. 8,3)310.

Al contrario, la metafora del poeta ἄγγελος è assente nell'epos, ma diviene in epoca tardo-arcaica una delle immagini letterarie convenzionali del genere dell'epinicio, attraverso la quale si traspone sul piano letterario il momento in cui l'araldo annuncia di fronte alla comunità la vittoria

308 Molto si è discusso sulla datazione dei due brani che West 19892, forse sulla base del γάρ di raccordo del v.783,

sceglie di riportare nella sua edizione come un nucleo unico. Obiezioni a questa scelta editoriale in Ferrari 20002, 203 n.1. Il primo dei due brani, il quale presenta un riferimento sicuro a Megara Nisea, è in forma di una vera e propria preghiera a Apollo, non più divinità simposiale come nei vv. 757-764, bensì ἐπίκουρος e Παιάν. Il tono con cui si parla della guerra persiana e il riferimento a una discordia interna tra i Greci fanno pensare a una situazione più allarmante rispetto a quella descritta ai vv. 757-765, forse il saccheggio della Megaride del 479 a.C. a opera di Mardonio, come ci testimonia Pausania in I 40, 2. Cf. tra gli altri Van Groningen 1966, 302, Nagy 1985, 33 e Ferrari 20002, 202 n.5. Per una simile datazione prima di loro si sono pronunciati Harrison 1902, 285, il quale in alternativa propone la prima invasione della Megaride nel 490 a.C.; Jacoby 1931, 52 e Kroll 1936, 240. Contra Vetta 2000, 130. Lo studioso riconosce in entrambi i brani l'afflato della produzione teognidea autentica e li ricollega storicamente, come anche i vv. 757-764, a «l'incontro con gli Elleni che erano approdati al diolkos di Corinto, fuggendo da quella costa asiatica che cominciava a essere sotto il dominio persiano». L'ipotesi dello studioso si basa, evidentemente anche sulla notizia della

Suda che fa risalire il floruit di Teognide al 544-541 (59a Olimpiade). Cf. Suda, θ 136 Adler s.v. Θεογνίς. Qualche dubbio sul riferimento storico alle guerre persiane è avanzato anche da Bagordo 2000, 184 n.5. Per quanto riguarda la datazione della sestina 783-788, cf. Harpocrat. p. 150. 18 Dindorf, dove il primo verso viene citato a favore dell'ipotesi di Megara Nisea come patria di Teognide: prova che sarebbe a dir poco schiacciante, se tuttavia si potesse provare la paternità teognidea di questi versi. Cf. Van Groningen 1966, 303 e Ferrari 20002 ad loc., 203 n. 2.

309 L’epiteto costituisce una delle convenzionali definizioni del poeta ispirato, il quale possidede il dono del canto della divinità ed è l’intermediario scelto di un patrimonio di conoscenze. Nell'Odissea, la natura ispirata del canto è uno dei fondamentali requisiti, se non condicio sine qua non, dell'aedo di professione, come è sottolineato più volte a proposito di Demodoco (Od. VIII 44s; 487s.) e come riferisce Femio stesso a Odisseo nel corso della sua autodifesa (Od. XXII 347s.).

310

94 dell'atleta311. Ne consegue che, soprattutto nella lirica corale, le due metafore del 'servo delle Muse' e del 'poeta messaggero' giungono ad affiancarsi: così accade in Pind. fr. 79 S-M, dove il poeta è, per volere della Musa, ἐξαίρετος κᾶρυξ σοφῶν ἐπέων e in Bacchyl. 5, 9-33 dove il poeta, in procinto di cantare, si definisce orgogliosamente servo della divinità (vv. 12-13 χρυσάμπυκος Ὀυρανίας/ κλεινὸς θεράπων) e aquila messaggera di Zeus (vv. 18-19 αἰνετὸς εὐρυάνακτος ἄγγελος/ Ζηνὸς ἐρισφαράγου)312

.

Occorre osservare che la figura del poeta ἄγγελος, ormai completamente desacralizzata, conosce un momento di vitalità nell’elegia simposiale attica di V sec. a.C., come sembrano testimoniarci alcuni versi di Dionisio Calco riportati da Ateneo a proposito del gioco del cottabo. Nella breve elegia, il messaggio di σοφία che deve essere recepito e appreso dagli ἑταῖροι del poeta, viene definito ἀγγελία ἀγαθή (Dion. Chalc. fr. 2 W2

= Ath. XIV 668e-669e, ἀγγελίας ἀγαθῆς δεῦρ᾿ἴτε πευσόμενοι,/ καὶ κυλίκων ἔριδας διαλύσατε, καὶ κατάθεσθε/ τὴν ξύνεσιν παρ᾿ἐμοὶ, καὶ τάδε μανθάνετε)313

. Si può dunque supporre che la medesima metafora al v. 769 della Silloge sia una riformulazione di quella tradizionale del poeta-servo, funzionalizzata a un contenuto simposiale di cui il poeta è portavoce (ἄγγελος) per gli ἑταῖροι. Tuttavia, in mancanza di indizi di cronologia certi sulla composizione del tetrastico, non siamo in grado di affermare se la stessa equazione poesia- annucio sia stata mutuata, in una facies più razionalistica e un tono decisamente più disimpegnato, dall'elegia attica di V-IV sec. a.C., divenendone una delle convenzionali espressioni di repertorio314. Nei vv. 769-772 le due immagini hanno lo scopo di enfatizzare il legame del poeta con la sua arte (θεράπων) e la missione nei confronti dei destinatari del suo messaggio (ἄγγελος): in questa immagine, la menzione delle Muse non conserva intatto il suo valore originario di ispirazione del canto', ma, in parte svuotata della sua sacralità, è inserita in una formula letteraria di prestigio per indicare l'eccellenza e la superiorità del poeta315.

311 Per l'immagine del poeta ἄγγελος, cf. anche O. 6, 90; N. 6, 57-57b. Per il concetto letterario di ἀγγελία in Pindaro e

per una corposa rassegna di esempi rimando alla monografia di Nash 1976.

312

Alla fine dell'ode e in perfetta Ringkomposition, Bacchilide ripropone la stessa immagine riferendola a Esiodo (v. 193, con πρόσπολος variatio di θεράπων), ponendosi così nel solco di una prestigiosa tradizione letteraria. Cf. Maehler 1982, II, 28ss.

313 Sui possibili significati del sintagma ἀγγελία ἀγαθή, cf. Garzya 1952, 200. 314

Per la presenza di tematiche e elementi formali comuni passati dalla silloge teognidea all'elegia simposiale della fine del V sec. e ai Carmina Convivalia, cf. in particolare Vetta 1980, XXIV-XXVI.

315 Così Vetta 1987, 470: «La definizione del poeta come inserviente e messaggero delle Muse non va presa come segno di una solida sopravvivenza della concezione sacrale della poesia». Lo studioso prosegue segnalando per il limite più alto della cronologia di Teognide (ultimi decenni del VI sec a.C.) un'incipiente secolarizzazione del momento poetico. Diversamente Van Groningen 1966, 299, il quale colloca il tetrastico nel medesimo periodo tardo arcaico, proprio per la presenza di un ruolo attivo delle Muse: «Elle est préclassique encore du fait qu'il semble prendre au serieux le rôle que les Muses jouent dans cette activité.». Peretti enfatizza il legame tra la menzione delle Muse e il concetto di σοφίη, una forma di «'sapere' poetico inapprendibile, infuso nell'interprete delle Muse e che è già fecondato, sublimato dalla σοφία di Pindaro»; secondo lo studioso la presenza dell’elemento sacrale nel tetrastico lo sottrae alla concezione teognidea di σοφίη e σοφός che è di norma priva di qualunque afflato divino o sapienziale. Vedi Peretti 1953, 317; 324. All'immagine del poeta ispirato e incaricato dalla divinità di dispensare la propria 'sapienza' agli uomini pensano anche Garzya (cf. traduzione supra e id. 1958, 242: «il concetto fondamentale è che il poeta, ispirato com'è dal dio, non può

95 La definizione si completa con la protasi dei vv. 770s., sulla cui estensione editori e commentatori sono equamente divisi: alcuni hanno interpunto dopo σοφίης, con quest'ultimo genitivo partitivo retto da τι (così tra gli altri Schneidewin 1838, Diehl 1923 I/2; Carrière 1948 e id. 19752. Adrados 19812; Vetta 1987), mentre altri dopo εἰδείη, con σοφίης come genitivo dipendente da φθονερός (così Bergk 18824; , Harrison 1902, Hudson-Williams 1910, Edmonds 1931; Garzya 1958; Van Groningen 1966; Young 19712; West 19892, Bagordo 2000). Alcuni spiegano anche le motivazioni della loro scelta: Garzya316 parla di un genitivo ἀπὸ κοινοῦ tra il pronome indefinito e l'aggettivo, mentre Van Groningen, che adotta la medesima soluzione, osserva: «εἰδείη exprime la même idée que σοφίης, de sorte que les dues membres de phrase se suffisent à eux-mêmes». Inoltre, lo studioso attribuisce alla protasi il valore di una causale (= εἰ δή, εἴπερ) con ottativo obliquo (ibid.: «le sens conditionell pur obligerait à admettre que certains serviteurs des Muses fussent dépourvus de σοφίη »)317

. Per quanto riguarda la scelta della punteggiatura, si può obiettare allo studioso che la sovrapponibilità semantica dei due termini οἶδα e σοφίη non esclude automaticamente una loro enfatica associazione, come per altro avviene al v. 564, dove l'esperto simposiasta viene definito ἄνδρα [...] σοφίην πᾶσαν ἐπιστάμενον. Inoltre, non sembra esserci una contraddizione tra il valore ipotetico della protasi e la precedente definizione del poeta: di fatto, il concetto centrale della subordinata non è il possesso stricto sensu della σοφίη, bensì il possederne in misura straordinaria (τι περισσόν)318

: se poi dietro l'impiego dell'aggettivo περισσός si vuole cogliere, come alcuni hanno fatto, un implicito confronto con chi di questo straordinario quid è sprovvisto, non sarà necessario sottintendere un riferimento al resto dell'umanità o a una schiera di poeti-profeti, bensì pensare a un paragone con gli altri simposiasti-poeti che non hanno l’insieme completo di queste

tenere chiusi i tesori della sua poetica “saggezza”, ma deve farsene banditore e trasmettitore agli altri») e, ancor prima, Kroll 1936, 243 («Der Diener und Bote der Musen, der in besonderem Maße, mehr sichtbarer als andere Sterbliche mit sofi,a begnadet ist, darf mit seiner Begabung nicht zurückhalten, sondern muß seinen Dienst so versehen, wie es die Göttinen von ihm verlangen können»). A favore dell'ipotesi di Vetta si può osservare che nel corpus teognideo il riferimento alle Muse compare in espressioni di carattere formulare a indicare genericamente il canto: si vedano i vv. 249s del celebre 'congedo' a Cirno: ἀλλά σε πέμψει/ ἀγλαὰ Μουσάων δῶρα ἰοστεφάνων, nei fatti perifrasi anticipatrice dell' ἀοιδή del verso successivo; inoltre, vv. 1055ss. αὐτὰρ ἐμοὶ σὺ/ αὔλει, καὶ Μουσῶν μνήσομεθ᾿ἀμφότεροι· αὗται τάδε ἔδωκαν ἔχειν κεχαρισμένα δῶρα. Sulla convenzionalità della iunctura δῶρα Μουσάων cf. già Archiloc. fr. 1, 2 W2 καὶ Μουσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος; Solon. fr. 13, 51 W2. Ὀλυμπιάδων Μουσέων πάρα δῶρα διδαχθείς, κτλ.; ancora, Alcm. PMGF 59(b) τοῦτο ϝἁδηᾶν Μωσᾶν/ δῶρον μάκαιρα παρσένων/ ἁ ξανθὰ Μεγαλοστράτα, per cui vedi infra. Per una riflessione sulla progressiva laicizzazione del rapporto con le Muse nel mondo arcaico, cf. Arrighetti 1976, 255-314.

316 Vedi Garzya 1958, 242.

317

Cf. Van Groningen 1966, 296.

318 Cf. ThLG VIII coll. 927s. s.v. e LSJ9 1387.1 s.v.: «beyond the regular number of size, prodigious» e «out of the common, extraordinary, strange». Cf. ibid. la traduzione della protasi teonidea: «if he had any signal knowledge». Vedi anche Woodbury 1991, 485 n. 6: «the clause does not stipulate a general condition (as if a servitor of the Muses might be without inspiration), but allows for a variation in the abundant σοφίη that he possesses». Sulla base di queste considerazioni, all'ipotesi dell'ottativo obliquo sembra doversi preferire un confronto con altri periodi ipotetici di primo tipo, dove l'ottativo compare nella protasi a scopo enfatico. Un possibile parallelo di questa costruzione, per altro utilizzata proprio in una riflessione di carattere poetologico, è forse Pind, P. 1. 81s.: καιρόν εἰ φθέγχαιο, πολλῶν πείρατα συντανύσαις,/ ἐν βραχεῖ, μείων ἕπεται μῶμος ἀνθρώπων· κτλ.

96 abilità e devono esserne resi partecipi319. In definitiva, non mi sembra ci siano elementi validi per escludere alcuna delle due interpretazioni sull’interpunzione del v. 770, né su basi sintattiche, né su basi contenutistiche.

Per l'espressione di v. 770 (σοφίης μὴ φθονερὸν τελέθειν) sono stati segnalati interessanti paralleli espressivi: Van Groningen cita Callim. fr. 538 Pf. (Μουσέων δ᾿οὐ μάλα φιδὸς ἐγὼ), il cui isolamento contestuale, l’incertezza di locutore e la pluralità di possibili interpretazioni sembrano tuttavia sconsigliare un immediato confronto320; in modo più efficace, Ford sottolinea la somiglianza formale e tematica con un passo dell'Ipparco pseudo-platonico, dove il progetto del tiranno di iscrivere in monumenti pubblici le sue massime di saggezza è collegato alla necessità di non negarla a nessuno dei cittadini ([Plat] Hipparch. 228b, οὐκ οἰόμενος δεῖν οὐδενὶ σοφίας φθονεῖν)321

.

Tuttavia, mi sembra opportuno, per avvicinarsi il più possibile all'originario significato dell'espressione, bisognerà valutarne il contesto di applicazione e confrontarlo dunque con altri paralleli. L'aggettivo φθονερός, derivato di φθόνος, è assente dalla tradizione epica322 e ricorre soltanto in questo verso all'interno del corpus theognideum. Il suo inserimento in una riflessione di carattere poetologico e sapienziale ci riconduce inevitabilmente a Pindaro, nel quale il termine φθόνος e il derivato φθονερός si caricano di un valore letterario. I termini, antonimi rispettivamente del canto di lode (invidia = detrazione) e di chi lo pratica (invidiosi= detrattori), divengono l'ostacolo par excellence all'esercizio dell'arte del poeta; essi costituiscono uno dei nuclei fondamentali delle riflessioni autoreferenziali pindariche e in un caso sono esplicitamente contrapposti alla 'novità' della parola poetica (N. 8, 19-23)323. Tanto il poeta quanto il laudandus, sicuri rispettivamente della propria arte e del proprio valore, esercitano una spinta uguale e opposta a quella degli φθονεροί, dedicandosi al canto di lode e al compimento di imprese324

.

319 Così Vetta 1987, 468 n. 7. Diversamente Kroll 1936, 244 e Most 1987, 579 n. 67, il quale interpreta che il poeta «does not know very much, but rather more than do ordinary men»..

320

Cf. Van Groningen 1966, 297 e, con ancor maggior sicurezza, Bagordo 2000, 192. Tuttavia, già lo stesso Pfeiffer che tra i loci similes menziona il passo teognideo, avanza più di un dubbio sulla liceità di un simile confronto e sul significato dell'espressione: cf. Pfeiffer 1949, 387 ad loc.: «Musarum vero non admodum parcus ego' (i.e. 'carminum', si M. est 'appellativum'), satis ambiguum est, neque constat quis loquatur»; e ancora ibid.: «Si φιδὸς Μουσέων ut φειδολὸς χρημάτων etc., fort. Conferendum Theogn. 769 sq. ...'non licet poetae invidere aliis artem suam' i.e. nimis parcum esse σοφίης».

321 Cf. Ford 1985, 89-95.

322 In Omero e Esiodo è attestato soltanto il corrispondente verbo φθονεέω nei significati di «ostacolare ingiustificatamente, impedire», sempre riferito all'azione di altri; esso compare soltanto una volta nell'accezione negativa di «invidiare» in tutti i poemi omerici (Od. XVIII 18), mentre nel medesimo significato, ma con un'accezione chiaramente positiva, esso compare in Hes. Op. 23-26 a descrizione della buona Eris. Cf. LfgrE, XXIV, 915-917.

323 Per il concetto di φθόνος in Pindaro cf. la monografia di Bulman 1992 e Roig-Lanzillotta 1997, 69ss. Per una

discussione più approfondita del passo in questione, rimando al capitolo successivo.

324 Corrispettivo linguistico di questo concetto è l'aggettivo ἄφθονος (cf. Thgn. 770 μὴ φθονερόν), il quale indica

l'assenza di tutti gli ingiustificati atteggiamenti ostativi presupposti dal verbo φθονέω e dal sostantivo φθόνος. Cf. LfgrE I 1708s. In Pindaro l'aggettivo indica la generosità incondizionata che è alla base del comportamento del perfetto

97 Ora, l'aggettivo φθονερός, che in Pindaro costituisce l'etichetta di un pubblico e di competitori malevoli, in Teognide definisce il paradigma e contrario del poeta eccellente (v. 770 μὴ φθονερόν)325

. Tale valore del termine può essere meglio compreso se posto in relazione all'uditorio della silloge, costituito da una cerchia di aristocratici colti, partecipi di un comune codice etico e letterario, i quali si esortano continuamente all'ascolto e competizione formativa, all'insegnamento e all'apprendimento del dettato poetico. Ne segue che il poeta nell'esercizio della sua arte non deve risparmiarsi, perché si trova di fronte a un pubblico incondizionatamente recettivo326. Lo stesso pensiero torna, con una sfumatura utilitaristica, al v. 772 (τί σφιν χρήσεται), dove si dice che il possesso esclusivo della σοφίη impedisce al poeta l'unico vero utilizzo che egli può farne327

. Il messaggio così ricostruito dei vv. 769-772, allo stesso tempo riflessione simposiale e assunto gnomico328, può fare riferimento tanto a 'un'esibizione di sophie'329 estemporanea quanto a una pratica continuativa acronica, non senza che per entrambe le interpretazioni si possano rintracciare degli esempi interni alla silloge. L'effetto negativo che un mancato utilizzo della σοφίη produce nelle dinamiche estemporanee e d'improvvisazione del simposio è forse visibile nella serie di interventi dei vv. 939-944,

propria impresa (e.g. O. 2,94). Per una somiglianza tra questa immagine e quella del poeta descritto da Teognide, cf. Woodbury 1991, 483: «The poet who keeps his knowledge to himself is perhaps thought of as a miser, who begrudging expenditure, hoards his wealth of which he does not understand the use. The good man's obligation is then conceived as the opposite of this».

325 Forse non è del tutto privo di una certa rilevanza un confronto con un episodio contenuto nell'Inno omerico A Ermes,

precisamente la seconda performance del dio con la cetra, realizzata di fronte ad Apollo. Quest'ultimo coglie la straordinarietà del canto di Ermes (v. 443 θαυμασίην γὰρ τήνδε νεήφατον ὄσσαν ἀοιδήν,/ κτλ) e, dopo essersi definito seguace delle Muse (v. 450 καὶ γὰρ ἐγὼ Μουσῄσιν Ὀλυμπιάδεσσιν ὀπηδός = Thgn. 769 Μουσῶν θεράπων καὶ ἄγγελος), lo esorta a mostrargli la sua τέχνη. La risposta di Ermes, padrone di un'arte di cui si appresta a insegnare i segreti (il concetto è chiaro nella perifrasi di v. 483 τέχνῃ καὶ σοφίῃ δεδαήμενος), è la stessa che ci aspetteremmo dal poeta eccellente descritto nel tetrastico: vv. 464s. ...αὐτὰρ ἐγώ σοι/ τέχνης ἡμετέρης ἐπιβήμεναι οὔ τι μεγαίρω, dove il parallelo concettuale e stilistico con σοφίης μὴ φθονερὸν τελέθειν di v. 770 è quasi palmare, soprattutto se si considera la perfetta sovrapponibilità semantica di τέχνη e σοφίη nell'Inno: esse stanno entrambe a indicare un'abilità poetica concreta e tecnica, la cui padronanza viene insistentemente puntualizzata, come nel nostro tetrastico, con i verbi oi=da (v. 466) e ἐπίσταμαι (v. 479). Per il possibile valore metapoetico del passo (Ermes ut poeta) cf. Radermacher 1931, 157 e Vergados 2013, 13s.

326 Sul ruolo 'sociale' e 'utile' del poeta in questo passo hanno insistito particolarmente Ford 1985, 93 («This passage is

describing not simply a poet, but a poet who brings the gifts of the Muses ti his community») e Gilli 1988, 529 («Il problema centrale ora affrontato è quello dei rapporti tra il portatore della techne e il pubblico dei destinatari: la risposta di Teognide è quella che ci si può attendere da un poeta inserito nella Società: non si deve essere gelosi della propria

sophie, ma impiegarla, etc.»). Sull'argomento vedi anche Ferrari 20002, 228s. n. 1.

327 Alcune osservazioni sul v. 772. Del tutto isolata è la traduzione offerta da Kroll: «auf welche Weise er diesen Beruf ausüben will, das zu beurteilen ist er allein kompetent». Lo studioso interpreta τί σφιν χρήσεται come un'interrogativa indiretta prolettica dipendente da ἐπιστάμενος e quest'ultimo un participio aggettivato retto da un sottinteso ἐστί. Cf. Kroll 1936, 245 e 245 n. 227. Una riflessione merita inoltre la presenza di χράομαι al v. 772, verbo in cui le accezioni semantiche di ‘utilità’ e ‘obbligo’ (cf. la forma χρή) si affiancano senza soluzione di continuità. Sull’argomento vedi in particolare Reddard 1953, 35ss.; inoltre Chantraine DELG, 1272-1275 e Frisk, GEW II, 1117-1119 s.v. χρή. Ciò è particolarmente evidente nel caso del tetrastico: se l’esercizio della σοφίη è una necessità e un ‘debito’ che il poeta deve colmare in virtù del suo status (v. 769, χρή), esso costituisce anche un vantaggio personale per chi possiede simili abilità (v. 772, τί σφιν χρήσεται). Come ha giustamente messo in luce Van Groningen, la presenza insistente del verbo χράομαι incoraggia un confronto poeta-uomo ricco, il quale per profittare della sua ricchezza deve necessariamente farne mostra e non risparmiarla in alcun modo. Cf. Van Groningen 1957, 104s. Per il valore di φθόνος in quest᾿immagine metaforica, cf. supra n. 27.

328 Cf. Woodbury 1991, 490.

329

98 interpretata in maniera convincente da Vetta come un caso di catena simposiale330. Dopo che un primo convitato ha rifiutato di cantare perché a causa della baldoria del giorno prima ha perso la sua voce melodiosa (939s.), interviene il compagno alla sua destra, motivando così la sua decisione di saltare anch'egli il turno (941s):...ἀλλὰ μ᾿ἑταῖρος/ ἐκλείπει σοφίης οὐκ ἐπιδευόμενος. Nelle dinamiche dell'hic et nunc della performance, il rifiuto a cantare da parte di chi possiede σοφίη può rompere la catena simposiale e creare un corto circuito che obbliga a ripetere da capo le pratiche conviviali (cf. 943s.).

Parimenti, i vv. 769-772 costituiscono un intervento in sé conchiuso, non privo di una sostanza gnomica, che identifica l'adempimento ideale del compito del poeta con l'esercizio costante e manifesto della sua straordinaria arte. Un messaggio del genere non stupisce nel contesto della silloge: la ripetuta esecuzione del canto di fronte a un pubblico e la sua diffusione attraverso future performance sono le condiciones sine quibus non della gloria del poeta stesso. È questa l'idea fondante della cosiddetta elegia 'di congedo' a Cirno, nella quale l'immagine delle ali concesse al pai/j, divenuto ormai gloriosa materia poetica (245-246, οὐδέποτ᾿οὐδὲ θανὼν ἀπολεῖς κλέος, ἀλλὰ μελήσεις/ ἄφθιτον ἀνθρώποις αἰὲν ἔχει ὄνομα e 251s. πᾶσι δʹὅσοισι μέμηλε καὶ ἐσσομένοισι ἀοιδή/ ἔσσῃ ὁμῶς κτλ.), stanno a significare proprio la fruibilità e la natura ripetibile del canto, che 'viaggia' di simposio in simposio tra coloro che lo onorano e lo praticano (vv. 239-243, θοίνῃς δὲ καὶ εἰλαπινῄσι παρέσσῃ/ ἐν πάσαις, πολλῶν κείμενος ἐν στόμασιν,/ καί σε σὺν αὐλίσκοισι λιγυφθόγγοις νέοι ἄνδρες/ εὐκόσμως ἐρατὸν καλὰ τε λιγέα/ ᾄσονται κτλ.).

A questo punto, sembra opportuno fare qualche considerazione sul significato del termine sofi,h nel nostro passo331: a me sembra che proprio la compresenza di modulo epico, riflessione professionale e finalità didattica non autorizzi a una scelta interpretativa netta tra una σοφίη di carattere sapienziale e una di carattere tecnico; nel termine sussiste anzi una co-implicazione tra le due componenti per niente estranea al corpus Theognideum.

La sovrapponibilità di piano etico e tecnico nel significato di σοφίη trova nella iunctura ἀρετῆς σοφίης τ᾿ di v. 790 la sua enunciazione più chiara ed è uno dei principi ispiratori della sphragis, dove Teognide, definendosi σοφίζόμενος, non fa semplicemente riferimento alla capacità tecnica di praticare l'arte poetica, ma anche alla sostanza etica e sapienziale che è posta a disposizione degli altri (cf. v. 2, τοὐσθλοῦ παρέοντος332). Un confronto ancor più calzante può essere istituito con i vv. 563-566, che offrono una descrizione del perfetto simposiasta affatto simile a quella del poeta del nostro tetrastico: egli è capace in ogni arte (v. 564 σοφίην πᾶσαν ἐπιστάμενον = v. 772 ἐπιστάμενος), sa offrire accorti pronunciamenti (ὅποτάν τι λέγῃ σοφόν = εἴ τι περισσόν εἰδείη) e tale abilità è indissolubilmente associata all'apprendimento e al vantaggio (v.

330 Cf. Vetta 1984, 118ss.

331

La scelta di editori e commentatori non è univoca a riguardo e occorre qui rendere conto brevemente delle diverse interpretazioni, rimandando al paragrafo successivo per una discussione più approfondita. Molti, dando particolare rilievo alla metafora iniziale del poeta 'scudiero e nunzio delle Muse', hanno colto nel termine σοφίη un valore esclusivamente sapienziale e l’hanno interpretata come il patrimonio di saggezza poetica di cui il poeta costituisce l’unico intermediario autorizzato a comunicarlo al resto degli uomini. Così Kroll 1936,243ss; Carrière 1948, 62; Garzya 1958, 242. Per la σοφίη nel senso di un sapere sapienziale e pratico cf. Hudson Williams 1910, 224s. Per un’accezione esclusivamente professionale e tecnica, cf. tra gli altri Gilli 1988, 529 e Bagordo 2000, passim.

332 Per la più recente discussione approfondita sul valore sintattico (genitivo dipendente da avlla,ssw o genitivo