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Prima di passare alla descrizione dei progetti professionali storytelling-oriented che hanno rappresentato il cuore operativo di questo percorso formativo, può risultare opportuno dare conto di alcuni ulteriori spunti di criticità circa la natura delle relazioni comunicative nella digitalsfera. Come sarà chiaro, tra i progressi più significativi resi possibili dallo sviluppo delle tecnologie digitali vi è senza dubbio l’affermazione di un panorama mediatico caratterizzato da un’accessibilità alle informazioni tendenzialmente illimitata. Nella rete infatti, le esperienze di fruizione di contenuto si caratterizzano per due condizioni fondamentali di ubiquità e istantaneità, tali da coinvolgere gli utenti senza pressoché alcun vincolo spaziale o temporale. Tale dimensione, che rappresenta senz’altro una straordinaria conquista socio-culturale, ha tuttavia radicato nei consumatori mediali alcune prassi comportamentali inedite, che possono manifestare alcuni aspetti problematici: essi meritano di essere presentati e argomentati non solo per uno scrupolo sociologico, ma perché sono in grado di incidere in modo non secondario sulle rapporti comunicativi che le organizzazioni intrattengono con i destinatari del proprio discorso.

Non si può certo negare che il vertiginoso sviluppo dei mezzi e delle tecnologie di comunicazione degli ultimi vent’anni ci abbia messo a disposizione una quantità impressionante di strumenti capaci di aumentare le nostre conoscenze e le nostre informazioni. E questo è un fatto di cui sarebbe sciocco non apprezzare la portata. Ma altrettanto sciocco sarebbe ignorare che l’uso errato e compulsivo di questi mezzi può generare effetti collaterali anche gravi.259

La condizione contemporanea ci porta a vivere in un contesto di connessione permanente, che esalta l’accessibilità ad internet come una necessità primaria sia da un punto di vista personale sia professionale. Come sarà capitato a tutti di sperimentare, la percezione di questo bisogno rischia talvolta di condizionare (ed anche compromettere) le nostre attività quotidiane, le relazioni interpersonali, la produttività lavorativa. In quest’ottica, sembra evidente che il crescente perfezionamento degli strumenti di mobilità digitale abbia assunto un ruolo tutt’altro che secondario; un tema presentato con intelligente ironia da Coca-Cola che, in uno spot per il web del 2014,260 proponeva una soluzione semplice ed efficace all’abuso di internet: un collare “anti-

smartphone” che ne impedisce l’utilizzo e permette a tutti di riappropriarsi della propria vita reale (nella quale, ovviamente, non può mancare qualche sorso di Coca-Cola). Divertenti prese di posizione a parte, tale situazione può dar luogo a risvolti anche seri: lo stato di costante allerta

258 F. ROSE, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet, op. cit., p. 219.

259 A.CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., p. 118.

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indotto dai dispositivi digitali può comportare degenerazioni clinico-patologiche (disordini del sonno, disturbi del comportamento, ansia, stress) che la psicologia sta cominciando a riconoscere ufficialmente, classificandole come Internet Addiction Disorders.

Rispetto ai cosiddetti iDisorders, è giusto essere consapevoli dei rischi, ma allo stesso tempo evitare gli allarmismi, perché sarebbe impossibile ed illogico rinunciare a soluzioni che ci hanno così facilitato nell’apprendimento e nella diffusione della conoscenza; è importante tuttavia sorvegliare le possibili problematiche, anche quelle che non necessariamente arrivano a sfociare in una questione di natura medica. L’iperconnessione a cui gli internauti sono indotti nella digitalsfera determina modalità di fruizione che possono implicare un sovraccarico di compiti richiesti al cervello e, di conseguenza, forme di frammentazione del pensiero: la nostra attenzione, infatti, appare “spargersi tra milioni di singoli flussi informativi, con i quali interagiamo costantemente a vari livelli di coinvolgimento”261. Questo perché, come è aumentata la nostra accessibilità ai

contenuti, è aumentata anche la loro disponibilità quantitativa; di conseguenza, la nostra incapacità di processare tutte le informazioni a disposizione comporta una effettiva diminuzione della qualità del nostro coinvolgimento cognitivo ed emotivo. Con l’avvento e la progressiva diffusione della televisione, l’accesso ai messaggi è passato in pochi decenni da una condizione di scarsità ad una di disponibilità, fino all’abbondanza; l’attuale situazione mediatica, con l’affermarsi di hub digitali partecipativi, appare andare persino oltre, caratterizzandosi per una sorta di eccesso comunicativo. Con l’affollamento della rete, si è assistito ad una evidente proliferazione di soggetti autoriali e produttivi a spartirsi l’arena discorsiva, aumentando il numero di microattività comunicative fruibili, sia user-generated sia di marca. Il moltiplicarsi dei vettori di diffusione ha comportato, da un lato, un’enorme varietà di scelte per i destinatari, ma dall’altro, ha agevolato fenomeni di dispersione e disordine del contenuto: è stato calcolato che, nei paesi industrializzati, i consumatori siano oggi esposti a qualcosa come 3000 messaggi al giorno, circoscrivendo il dato alla sola comunicazione di marca.262 Questa sostanziale saturazione del panorama mediatico ha

inevitabilmente conseguenze sulle facoltà di ricezione degli utenti; un fenomeno che Alberto Contri ha complessivamente definito costante attenzione parziale e che descrive come un epocale fattore di mutamento di natura non solo comunicativa, ma più ampiamente antropologica.263 La

sovrapproduzione di contenuti si traduce in una sovraesposizione a stimoli sparsi, frammentari e destrutturati che, come detto, il nostro cervello non è agevolato a codificare: a ciascuno di essi è quindi possibile dedicare solo una piccola percentuale del nostro patrimonio di attenzione, traducendosi in una perdita di intensità e qualità cognitiva.

In altre parole, siamo portati a pensare che, incamerando frammenti, non si potranno che rielaborare solo frammenti. Per certi versi, ci troviamo a che fare con un contesto che appare caratterizzato da una forma di economia dell’attenzione che ci costringe a ponderare in ogni occasione comunicativa il nostro coinvolgimento cognitivo ed emotivo. In quest’ottica, la digitalsfera appare dominata da una evidente contraddizione tra l’immersività dell’esperienza che la sua dimensione

261 C.PETRUCCO,M.DE ROSSI, Narrare con il digital storytelling a scuola e nelle organizzazioni, op. cit., p. 22. 262 C. SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, op. cit., p. 31.

263 A.CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., pp. 60-63.

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partecipativa rende possibile e la superficialità delle forme di fruizione a cui gli utenti sono indotti. È questa una riflessione in linea con quanto emerge anche da un noto editoriale di Nicholas Carr, pubblicato nel luglio 2008 sul magazine americano The Antlantic e reso probabilmente ancora più celebre dall’efficacia del suo titolo: Is Google making us stupid? Il saggio indaga la capacità delle tecnologie digitali di condizionare le nostre abitudini esistenziali e sociali, riflettendo su come però l’aumento esponenziale dei flussi informativi nell’esperienza personale incontri il proprio limite nella capacità delle nostre menti di elaborarne la profondità dei processi di significazione:

Even when I’m not working, I’m as likely as not to be foraging in the Web’s info-thickets, reading and writing e-mails, scanning headlines and blog posts, watching videos and listening to podcasts, or just tripping from link to link to link. […] Once I was a scuba diver in the sea of words. Now I zip along the surface like a guy on a Jet Ski.264

Per di più, se da un lato aumenta in maniera esponenziale il numero delle fonti di conoscenza e intrattenimento a disposizione, dall’altro si riduce sempre più la durata che possiamo dedicare ad ognuna. I media digitali, infatti, ci permettono di intercettare molti più contenuti di quanti riusciamo effettivamente ad immagazzinarne nella mente: la permanenza nella memoria si riduce drasticamente ed il tempo si impone così come un ulteriore fattore di criticità. Le storie digitali hanno date di scadenza assai brevi (spesso ben al di sotto dei famosi dieci minuti di celebrità di Warhol), che le rende destinate, nella maggior parte dei casi, ad un rapido oblio, con tutti i possibili vantaggi o svantaggi del caso. Ciò che è certo è che, nella rete tendiamo ad esporci a messaggi in modo continuo ed incontrollato, talvolta senza ponderarne la qualità, la legittima, l’autorevolezza. Si assiste, in definitiva, all’affermarsi di un modello di fruizione caratterizzato da quella che potremmo chiamare bulimia informativa: di fatto, ingeriamo contenuti ad un ritmo elevato, salvo poi dimenticarcene con altrettanta velocità, vanificando quello che potrebbe essere considerato il loro “potenziale nutritivo”.

Connessione permanente, moltiplicazione degli habitat mediatici e della proposta discorsiva, sovraccarico cognitivo, dispersione e disarticolazione del messaggio; sono tutti elementi riconducibili ad un più generica trasformazione degli atteggiamenti comunicativi degli individui, attribuibile all’introduzione delle tecnologie digitali nelle loro abitudini mediali. Come è intuibile, questo cambio di paradigma non può che riguardare anche il territorio delle organizzazioni, condizionando le strategie discorsive attraverso cui le marche si relazionano online con i propri interlocutori. Le imprese e le istituzioni, infatti, si trovano a dover fronteggiare un panorama mediatico saturo, nel quale diventa sempre più complesso raggiungere consumatori bersagliati di messaggi (di marca e non solo), e quindi poco inclini a farsi coinvolgere in conversazioni non rispondenti ad una loro esplicita volontà. In effetti, diventa sempre più chiaro che, “oltre a misurare le teste, oggi sarebbe altrettanto importante, se non di più, pesare il loro tipo di attenzione. Cosa ce ne facciamo di milioni di spettatori se sono distratti o dediti a fare altro?”265 In risposta alla

scarso coinvolgimento cognitivo dei loro destinatari, le organizzazioni non possono che produrre

264 “Anche quando non lavoro leggo e scrivo e-mail, scorro i titoli e ipost dei blog, scarico video, adcolto podcast o saltello semplicemente da un link all’altro [...] Se un tempo ero un sub che si immergeva nel mare delle parole, ora plano sulla superficie come un ragazzino in sella ad un acqua-scooter.” bit.ly/3aBiakN

265 A.CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., p. 45.

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contenuti e racconti che sappiano raccogliere il più possibile di quegli occasionali frammenti di attenzione messi loro a disposizione, se possibile ingaggiando direttamente gli utenti nell’elaborazione condivisa del senso.

4.3.1 – Consenso discorsivo e brand entertainment

In un contesto mediatico di bulimia informativa, l’attenzione dei destinatari diventa così, per le organizzazioni, un bene assai prezioso da conquistare e da gestire. Come detto, il tempo messo a disposizione dei brand da parte dei consumatori è sempre minore ma, spesso, anche di qualità non adeguata in termini di coinvolgimento cognitivo ed emotivo; in considerazione di ciò, le regole del marketing, dello storytelling e, in generale, della comunicazione organizzativa, si sono dovute adattare ad un contesto rinnovato. L’approccio discorsivo di marca, infatti, – in epoca massmediatica, ma non solo – si è di norma basato sulla prassi dell’interruzione, inserendo all’interno di un flusso informativo unitario (che sia un programma televisivo, un giornale o una playlist su Youtube) un contenuto, spesso promozionale, indipendente da quel flusso, e quindi in qualche modo ad esso estraneo. In tale condizione, gli spettatori si trovano di fronte ad un messaggio che non hanno scelto di fruire e che percepiscono perciò come invasivo: la conseguenza di questo nei comportamenti di consumatori è il progressivo affermarsi, come atti di difesa naturale, di fenomeni di resistenza e persino di intolleranza alle strategie di posizionamento discorsivo dei brand. In una situazione del genere, un intervento organizzativa illuminato dovrebbe prevedere il passaggio dal paradigma dell’interruzione al paradigma del consenso.

Questo approccio, affine a quello che in contesto commerciale è chiamato permission marketing, si basa sulla convinzione che un messaggio di marca non debba sembrare un’intrusione, quanto piuttosto una proposta che gli utenti possono scegliere spontaneamente di ascoltare, perché la ritengono personalmente coinvolgente ed affine alla propria visione del mondo. Si tratta di una strategia pull per la quale l’azione di informare o intrattenere avviene in modo non forzato e solo con l’adesione dei destinatari, inviando “messaggi precisi e rilevanti verso persone realmente interessate, e allo stesso tempo dando loro maggior potere ricompensandoli per il tempo e l’attenzione passata”266. Tale atteggiamento permette di esporre i consumatori a contenuti

brandizzati, superando la loro diffidenza con un offerta discorsiva ben curata da un punto di vista creativo-produttivo e allo stesso tempo trasparente; secondo Alex Bogusky, direttore creativo dell’agenzia che porta il suo nome, “questa generazione sa che gli vuoi vendere qualcosa, e tu sai che loro lo sanno, quindi togliamoci la maschera e facciamo che la cosa sia il più divertente possibile. Perché essere ipocriti?”267 In considerazione di questa reciproca consapevolezza, la

comunicazione di marca dovrebbe quindi mettersi nelle condizioni di smettere di interrompere la programmazione, per diventare essa stessa programmazione a disposizione degli utenti, dando vita a quella forma espressiva che possiamo definire branded entertainment.

266 B.COVA ET AL.,Marketing non-convenzionale, op. cit., p. 130.

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Secondo questo modello, le imprese e le istituzioni si comportano in tutto e per tutto come delle autentiche media companies perché, insieme ai propri prodotti e servizi, esse offrono sul mercato anche una proposta discorsiva, declinata all’interno delle specifiche manifestazioni online e offline identificate; tale proposta non si declina in contenuti esplicitamente promozionali o autoreferenziali, ma deve pur sempre rimanere coerente al sistema di significati dell’organizzazione, mantenendosi in linea con il suo ambito d’intervento. Come esempio virtuoso di narrazione di marca emancipata da una vocazione puramente commerciale, si può fare riferimento alla web series Easy to assemble, prodotta da Ikea a partire dal 2009 e distribuita su un canale Youtube appositamente creato.268 La serie, interamente ambientata all’interno di un negozio della catena,

racconta in quattro stagioni la storia di un’aspirante attrice che tenta di smettere con la recitazione per dedicarsi finalmente ad un vero lavoro come dipendente della multinazionale svedese. Le vicende coinvolgono diversi personaggi, talvolta impersonati da star hollywoodiane come Keanu Reeves, e sviluppano una trama sul modello di una tradizionale situation comedy, rendendo la serie perfettamente godibile a prescindere dal ruolo giocato dalla marca. Ikea, in sostanza, offre ai propri clienti (o potenziali tali) un prodotto di intrattenimento brillante e curato, nel quale la presenza del brand è evidente, ma allo stesso tempo discreta, e per questo perfettamente accettabile dai destinatari.

Naturalmente, se un’organizzazione predispone un investimento produttivo importante, promuovendo un intervento comunicativo di questa portata, non possiamo pensare che lo faccia in modo del tutto disinteressato. In un processo di questo tipo, la distanza tra intento creativo ed obiettivo promozionale si affievolisce, dando vita ad un risultato in cui la strategia di branding converge all’interno di una cornice di entertainment (o, volendo, di advertainment) pienamente funzionale alle necessità organizzative. Nell’ambito dei media digitali quindi, la progettazione e la distribuzione di contenuti collocabili in un contesto di marca o comunque ad essa riconducibili, può rappresentare un’opportunità notevole di posizionamento tematico-valoriale e, più in generale, di relazione con i propri interlocutori. Proprio in questo senso, è l’origine della stessa parola “intrattenere” a consegnarci un’interessante chiave di lettura della questione; il suo significato etimologico, dal latino “tenere dentro”, ci aiuta a comprendere come non si tratti solo di cogliere l’attenzione dei destinatari, ma anche e soprattutto di mantenerla all’interno della medesima esperienza discorsiva, attraverso forme di gratificazione cognitiva o emotiva; condizione, come detto, non particolarmente semplice in un panorama mediatico così dispersivo e saturo qual è la digitalsfera.

In quest’ottica, la produzione di contenuti di marca di qualità deve essere considerata la giusta ricompensa per l’attenzione che il pubblico ha scelto di dedicarvi. Certamente operazioni comunicative di questo tipo risultano per le organizzazioni piuttosto impegnative in termini di risorse, tempo ed energie, e necessitano perciò di essere inquadrate all’interno di un processo strategico ampio, strutturato e consapevole. Allo stesso tempo però, è giusto considerare il content management, inteso come la gestione del patrimonio contenutistico complessivo di un’organizzazione, una competenza assai decisiva nella definizione dei suoi progetti comunicativi

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(e narrativi). A maggior ragione all’interno dell’arena digitale, dove esso può dimostrarsi uno strumento non trascurabile per entrare in contatto con i destinatari del proprio discorso e, anzi, un fattore di efficacia per coinvolgerli in un dialogo aperto e paritario, trasmettendo autenticità e sincerità in risposta alla diffidenza che gli habitat online, come detto, hanno contribuito a diffondere.

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STORYTELLING AUDIOVISIVO PER LA COMUNICAZIONE UNIVERSITARIA.