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I motori di ricerca online rappresentano un moderno ed efficace strumento per misurare la diffusione di una qualunque forma linguistica. Nel momento in cui scrivo, la ricerca su Google dell’espressione corporate storytelling fornisce la possibilità di accedere a circa 45 milioni di pagine web, a dimostrazione della straordinaria diffusione del concetto; se volessimo ampliare la ricerca alla sola parola storytelling, le occorrenze risultanti sarebbero addirittura 145 milioni. Il fatto che nel

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2009 Gabriele Qualizza ne recensisse appena 20,2 milioni70 può far riflettere, in generale,

sull’inarrestabile espansione dei contenuti digitali, ma anche, d’altro più specifico canto, sulla crescente fortuna di un’espressione a cui si guarda con attenzione in modo trasversale e da diversi punti di vista disciplinari. L’inizio di questa tendenza, come già detto, può essere collocata nell’ultimo decennio del secolo scorso, quando, con il manifestarsi del cosiddetto narrative turn, si assiste alla diffusione transdisciplinare di pratiche, metodologie ed orientamenti di tipo narrativo, in grado di aprire un nuovo terreno di confronto teorico e pratico tra specialisti di provenienza e formazione diverse. Le cifre sopra presentate possono quindi significare non poco in termini quantitativi a proposito di una formula che appare fortemente inflazionata, il cui uso non è sostenuto tuttavia, nella maggior parte dei casi, da un adeguato sforzo di formalizzazione, concettualizzazione ed approfondimento. Una prassi che, in altre parole, quando non adoperata con criterio, si presta al rischio di eccessive semplificazioni, che possono risultare anche dannose. Proprio a proposito di questa presunta onnipresenza narrativa, Peter Brooks sostiene che

i teorici della narrazione debbano essere lieti di constatare che i loro studi stanno colonizzando vasti ambiti del discorso, sia divulgativo che accademico. Il problema, tuttavia è che la promiscuità stessa dell’idea di narrazione potrebbe aver reso il concetto inutile.71

Una posizione piuttosto affermata considera infatti lo storytelling “l’arte di produrre e condividere racconti”72, proposta condivisibile per il suo potere inclusivo, ma per certi versi problematica.

Risulta più opportuno forse sostenere che non significhi genericamente raccontare storie, quanto invece comunicare attraverso gli strumenti e le strutture proprie della narrazione. La predilezione per una definizione – la seconda – meno generalista è infatti da considerare più opportuna al fine di tutelare un’espressione – storytelling – che facilmente si presta a comode approssimazioni e a declinazioni lontane dall’interesse specifico di questo lavoro. È proprio l’incontrollata circolazione del termine a rischiare di creare confusione tra ciò che, nella prospettiva discorsiva di questa tesi, è da considerarsi storytelling e ciò che, invece, non lo è. Si può quindi cominciare dall’elencare alcuni di quelli che sono stati indicati come “sconfinamenti del narrativo fuori di sé”73, in modo

che l’argomento affrontato in questo capitolo cominci a delineare il proprio perimetro per differenza da ciò che ne deve essere escluso.

2.1.1 – Alcune interpretazioni da rifiutare

Esterne ai confini di questa discussione è corretto che rimangano, per esempio, tutte le applicazioni dello storytelling in ambito politico, così diffuse da meritarsi una trattazione autonoma, anche perché meritevoli di un sistema di competenze analitiche appropriato. A dimostrare quanto l’approccio narrativo si sia radicato in contesti apparentemente estranei al suo mondo, cito soltanto un esempio ricavato dalla campagna di George W. Bush per le elezioni presidenziali del novembre 2004, e consolidatosi come materia di studio per i ricercatori di comunicazione politica. È il caso

70 GABRIELE QUALIZZA, Lo storytelling nella comunicazione d’impresa, in Tigor, n. 2. (2009), p. 4. 71 CHRISTIAN SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, Fazi Editore, 2008, p. 10. 72 Ivi, p. 5; G. QUALIZZA, Lo storytelling nella comunicazione d’impresa, op. cit., p. 4.

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della Ashley’s Story74, uno spot elettorale in cui l’uomo più potente del mondo, durante un incontro

pubblico, viene mostrato mentre consola un’orfana dell’11 settembre, la accudisce tra le braccia e si assicura sulla sua condizione. Quel celebre “are you safe?” assume i caratteri dell’incontro memorabile e della guarigione miracolosa, ma è soprattutto parte di una più ampia e consapevole strategia comunicativa capace di cambiare, secondo gli osservatori, le sorti delle elezioni presidenziali. Analizzando i discorsi di quella campagna elettorale, Christian Salmon osserva che la parola “story” compare con grande insistenza, al punto da avere l’impressione che diventi per Bush la categoria onnipresente in cui si riassume il senso del mondo.75 Ad ogni modo, questo abuso

semantico risulta convincente per gli elettori americani, costringendo analisti ed esperti di comunicazione politica a trovarne una qualche spiegazione:

Perché John Kerry ha perso contro un presidente in carica che sfiorava il record negativo dei consensi? […] Non ha raccontato una storia coerente, ma una menzogna che si facesse ricordare e diffondere con il passaparola. Che piaccia o no, George W. Bush ha svolto un lavoro straordinario vivendo la storia del leader forte, sicuro ed infallibile.76

Storia, menzogna, leader. Nelle parole di Seth Godin troviamo già alcuni degli effetti dell’appropriazione operata dall’universo della politica sul patrimonio concettuale e semantico della narratività, causa di significativi mutamenti nella percezione diffusa circa la pratica del racconto. Una prima conseguenza è la riduzione, nell’immaginario comune, della nozione di storytelling ad un insieme di espedienti retorici ed affabulatori orientati alla persuasione, o persino all’inganno deliberato. Quello tra realtà, finzione e narrazione è un rapporto estremamente delicato, che merita di essere affrontato con attenzione, ma ciò che per il momento si può sottolineare è l’inevitabile diffidenza che questa associazione semantica consegna alla comunicazione storytelling-oriented. Si potrebbe dire che, quando il pensiero narrativo si è esteso ad altri campi, storici, giuristi, economisti, psicologi hanno riscoperto il potere delle storie di costruire una realtà, scoprendole “così convincenti che alcuni critici temono che diventino un pericoloso sostituto dei fatti e delle argomentazioni razionali.”77

Questo scetticismo è incentivato, per di più, dal proliferare di esperti, consulenti e manager che riducono la narrazione (d’impresa, ma non solo) ad un elenco di tecniche oratorie standard orientate alla costruzione del successo professionale. Questi presunti guru, talvolta vere global superstars in tournèe, hanno creato ed alimentato una vera e propria industria del racconto, nella quale proliferano maestri di dialettica e discorsi efficaci, capaci di ritagliarsi ruoli chiave nei

management delle organizzazioni, in modo, secondo alcune letture, non del tutto opportuno.78

Inoltre, laddove lo storytelling arriva ad assumere una posizione strategicamente centrale nel management organizzativo, ecco emergere spontanea un’altra sovrapposizione, quella della nozione di storyteller a quella di leader; secondo questa lettura, il carisma e l’autorevolezza del capo deriverebbero, più che da doti di governo e gestione, dalla capacità di ben padroneggiare i

74youtu.be/LWA052-Bl48

75 C. SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, op. cit., p. 12.

76 SETH GODIN, Tutte le palle del marketing, Milano, Sperling & Kupfer, 2006, p. 128. 77 C. SALMON, Storytelling. La fabbrica delle storie, op. cit., p. 8.

78 “Once upon a time, we had managers, not storytellers” scriveva nel 2004 Lucy Kellaway sul Financial Time;

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dispositivi e le regole della persuasione, per entrare in sintonia con le aspettative dei propri collaboratori, dei propri stakeholders, dei propri pubblici.

Un ulteriore esempio di semplificazione terminologica, in parte collegabile ai precedenti, è l’identificazione del processo narrativo con il solo momento della performance discorsiva. L’idea che con storytelling si intenda l’atto in sé del narrare è piuttosto diffusa79 ed appare, per altro, del

tutto in linea con una concezione teatralizzata della dimensione pubblica della vita organizzativa, che interpreta l’impresa come uno spazio performativo al cui interno gli individui si comportano come attori recitanti80. Che nelle organizzazioni complesse, le relazioni sociali abbiano un ruolo ed

una funzione strutturale è senz’altro condivisibile; tuttavia, è per certi versi limitante ridurre la comunicazione narrativa da una condizione di intervento strategico ad ampio respiro ad occasionale momento performativo. Se è indiscutibile che l’efficacia di una storia dipenda dall’abilità di chi la racconta e dalle modalità di presentazione che vengono scelte, un’operazione di comunicazione narrativa include infatti attività che vanno al di là della gestione di singole occasioni di manifestazione diegetica. Più ampiamente e più complessivamente, uno storytelling specialist deve possedere, come vedremo, competenze di produzione strategica e creativa che precedono l’atto e lo superano: “i maestri del settore […] dominano i meccanismi propulsori del narrare, o del tradurre l’esperienza narrativa in forma di vita.”81

Se storytelling non è (soltanto) performance, leadership o esercizio retorico, altrettanto limitante è, per certi versi, considerarlo tecnica di coinvolgimento esclusivamente emotivo, capace di far leva solo sugli aspetti dell’irrazionalità. Anche in questo caso bisogna fare le giuste precisazioni e sottolineare il corretto valore della dimensione patemica nel racconto, che è in ogni atto narrativo è centrale, fondativa ed indispensabile. Se è senz’altro vero che “fare storytelling significa coinvolgere e creare legami emotivi con il pubblico a cui queste storie (d’impresa) sono indirizzate”82, questa concezione non deve tuttavia banalizzarlo riducendolo ad una pratica di mero

sentimentalismo. È bene quindi precisare che, in una narrazione, la mobilitazione delle emozioni, obiettivo a cui tutte le storie consapevolmente o inconsapevolmente tendono, può e deve coesistere con la dimensione cognitiva, sfatando così l’esclusività della sovrapposizione racconto = irrazionalità. Infatti, se lo storytelling ha assunto una posizione centrale negli studi di comunicazione organizzativa e ha meritato una propria dignità strategica, è proprio perché ha saputo costruire un modello di coerenza strutturale fondato sulla razionalità del metodo, ma anche dell’interpretazione contenutistica.

2.1.2 – Per una definizione di Organizational Storytelling

La rassegna compiuta circa le possibili semplificazioni terminologiche e gli usi non pertinenti dovrebbe aver reso manifesta l’esigenza di chiarire i confini di una pratica che, proprio a causa della sua fortunata e trasversale diffusione, si presta ad un alto rischio di banalizzazione e/o fraintendimento. Da qui il tentativo di fare chiarezza, attraverso la ricerca di quelle che possono

79 CLAUDIO CORTESE, L’organizzazione si racconta, Milano, Guerini e Associati, 1999, p. 56. 80 Cfr. G. QUALIZZA, Lo storytelling nella comunicazione d’impresa, op. cit., p. 14.

81 G.FERRARO, Teorie della narrazione. Dai racconti tradizionali all’odierno storytelling, op. cit., p. 248.

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essere ritenuti i caratteri peculiari dello storytelling all’interno delle organizzazioni complesse, descrivendone le buone prassi e le soluzioni strategicamente più opportune. In quest’ottica, la bonifica lessicale non rappresenta l’obiettivo in sé, ma solo uno degli aspetti di una più complessiva stabilizzazione concettuale e metodologica. Rimane tuttavia necessario circoscrivere una definizione da cui la riflessione possa partire, attraverso cui circoscrivere il campo dell’intervento analitico, pur mantenendo un atteggiamento il più possibile inclusivo. Nel complesso quindi, l’intenzione programmatica è quella di interpretare lo storytelling organizzativo (OS) come

l’insieme eterogeneo delle attività strategiche, creative e performative praticate all’interno di un’organizzazione con lo scopo di articolare e comunicare significati attraverso le forme proprie della narrazione.

Questa descrizione generale necessita di due immediate precisazioni. Come già anticipato, nel concetto di organizzazione si è scelto di far convergere tanto le imprese quanto le istituzioni, perché le prime articolano comportamenti narrativi del tutto sovrapponibili e comparabili con le seconde. L’attributo organizational va quindi ad includere sia la nozione di corporate storytelling sia quella di institutional. In aggiunta, è necessario specificare che la definizione proposta non specifica l’origine e l’autorialità delle storie riconducibili ad un determinato contesto organizzativo; è quindi importante introdurre subito una distinzione tra due approcci alla questione concettualmente diversi: lo storytelling nell’organizzazione e lo storytelling dell’organizzazione.

La prima prospettiva interpreta l’impresa o l’istituzione come un contenitore di storie, e si occupa di tutte le narrazioni particolari e personali create dai singoli individui riguardo la realtà a cui appartengono. Ciascun soggetto produce infatti una propria versione della vita organizzativa, articolata in storie, aneddoti ed interpretazioni che si incontrano (e scontrano) con le storie, aneddoti, interpretazioni altrui, contribuendo alla costruzione polifonica del senso organizzativo. In questa prospettiva, i racconti diventano uno strumento analitico utile ad indagare e descrivere le dinamiche interne, sia quelle orizzontali, sia quelle verticali. Il secondo approccio abbandona la propensione polifonica e guarda all’organizzazione come produttore e distributore di storie, coerenti tra loro e rispetto al sistema di valori dell’ente. Questa visione interpreta la narrazione come una competenza strategicamente decisiva del management, declinabile in una grande varietà di aree e funzioni, ma tutte riconducibili ad uno sforzo creativo e gestionale coordinato. È l’aspetto che guarda più da vicino lo storytelling in quanto strumento comunicativo, perché in esso le singole manifestazioni discorsive sono ricondotte sempre ad una medesima volontà programmatica, diventando in quest’ottica vero e proprio linguaggio organizzativo, veicolo di contenuti, saperi e significati tanto all’interno quanto all’esterno.

Si tratta di due prospettive che possiedono finalità, caratteristiche e modalità di svolgimento evidentemente diverse, condizione che induce a considerarle due categorie interpretative complementari ma fondamentalmente indipendenti. Per questo motivo, in questo capitolo verranno trattate in modo autonomo e in due sezioni distinte (2.3 e 2.4), così da evidenziarne le relative specificità. In entrambe le direzioni che verranno esplorate, tuttavia, mantiene un’assoluta importanza la questione dei meccanismi di produzione di senso. E proprio alla centralità dei processi di significazione narrativa occorre dedicare preliminarmente un’analisi.

54 2.2 – LOGICHE DI SIGNIFICAZIONE NARRATIVA NELLE ORGANIZZAZIONI COMPLESSE

L’idea che le organizzazioni abbiano un carattere narrativo, che producano storie, che riprendano dalla cultura sociale racconti preesistenti per sfruttarli ai propri specifici scopi e che, allo stesso tempo, li rielaborino partecipando così alla (ri)costruzione della medesima cultura, è abbastanza diffusa e generalmente condivisa.83 Avendo visto le incomprensioni che l’uso spontaneo ed

incontrollato del termine storytelling può generare, occorre quindi passare da un’idea intuitiva di racconto organizzativo ad una più precisa e rigorosa, costruita anche attraverso l’aiuto di alcune categorie semiotiche classiche. Da questo punto di vista, parlare di narrazione (e di narratività) significa quindi considerare le caratteristiche teoriche e formali che si ritrovano all’interno di ogni prodotto testuale – cioè di ogni testo in senso semiotico – che indicheremmo, appunto, come narrativo. A livello di principio, c’è narratività in ogni racconto, ma non sempre c’è racconto quando c’è narratività: i discorsi organizzativi possono contenere tracce di narratività pur non essendo racconti tradizionalmente detti. Questo perché le imprese, le marche, le istituzioni producono significati in modo naturale ed inevitabile; e lo fanno, ad un livello di consapevolezza più o meno esplicita, attraverso gli strumenti della narrazione. Occorre dunque trovare, anche e soprattutto, “barbagli di narratività laddove non ce li si aspetterebbe: nei progetti delle marche, nei ragionamenti strategici e nei comportamenti d’acquisto del consumatore”84, così come nella

struttura complessiva del discorso organizzativo.

Prendiamo in considerazione il cosiddetto discorso di Stanford85, la lectio magistralis pronunciata da

Steve Jobs il 12 giugno 2005 ai neolaureati dell’università californiana. Si tratta di un tipico speech motivazionale, pronunciato tuttavia, non da un manager qualunque, ma da uno nel cui percorso personale e professionale appare incarnarsi lo spirito più intimo ed autentico del brand che rappresenta. La simbiosi è tale che è possibile trovare in queste parole un vero e proprio manifesto valoriale ed esistenziale di Apple Inc., ed è in questa occasione che quest’ultima diventa nell’immaginario comune l’azienda del “stay hungry, stay foolish”. Il discorso di Jobs è esplicitamente articolato in 3 racconti collegati tra loro sia strutturalmente (contenendo istantanee delle fasi di vita del fondatore, sequenziali e consequenziali) sia, soprattutto, a livello di capitale simbolico: il bildungsroman iniziale, in cui è raccontato il percorso formativo delle origini, diventa prima un “racconto di amore e di abbandono”, ed infine una storia di morte e (apparente) resurrezione. Ciò che ne emerge è una narrazione autobiografica che è anche evidentemente una narrazione organizzativa: la storia del brand incarnato nell’uomo che l’ha creato, fissata all’interno di alcuni episodi topici ad alta densità di significato. Come in tutte le imprese, a fasi di vita diverse (start-up – consolidamento – presidio) corrispondono trame e temi diversi: ragionando per nuclei di senso, si potrebbe dire che sacrificio, coraggio ed esplorazione diventano rigore, sforzo e solitudine valorosa, e successivamente governo, presidio e consapevolezza.

83 GIANFRANCO MARRONE, Il discorso di marca. Modelli semiotici per il branding, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 36. 84 Ivi, p. 37.

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Se ammettiamo la connessione semiotica tra significati profondi e significanti di superficie, dobbiamo accettare che l’identità del prodotto-azienda-brand, o più in generale dell’organizzazione, non possa venire delineata solo mediante le sue caratteristiche fisiche, ma anche in base al senso intangibile che essa stessa vi inscrive. Ci muoviamo quindi nel territorio di quell’economia dell’immateriale che presta attenzione agli aspetti simbolici e profondi dell’organizzazione, e che contribuisce in modo fondativo alla formazione del suo capitale identitario e culturale. Si tratta di un fenomeno organizzativo di dimensione costitutiva: se è vero che la narrazione rappresenta “la principale modalità con cui ogni individuo organizza la propria comprensione del mondo (e di sé)”86, essa diviene, nei sistemi organizzativi, uno strumento

decisivo per comprendere e filtrare la complessità delle dinamiche che si generano al loro interno: non solo dunque un mezzo per stupire, emozionare o intrattenere, ma per conoscere ed interpretare la realtà; un modalità di accesso all’essere stesso di un’impresa o di un’istituzione, attraverso cui gli individui si fanno presenti a sé e agli altri, e con cui delineano le identità soggettive e comunitarie.87 In quest’ottica, i racconti organizzativi si configurano come singole unità portatrici

di senso, e l’organizzazione diviene, in sostanza, un complesso hub di significati, ma anche di processi di significazione; tanto quanto il senso in sé infatti, in prospettiva semiotica, conta il sensemaking, l’insieme delle modalità che regolano la sua costruzione e circolazione.

2.2.1 – Modelli di sensemaking nei discorsi organizzativi

Con sensemaking possiamo indicare sil processo di sintonizzazione tra significati profondi e significanti superficiali che avviene (in modo potenzialmente narrativo) quando soggetti, oggetti discorsivi, temi e valori entrano tra loro in reciproca associazione all’interno di quelle istanze che la semiotica chiama segni o testi. Il rapporto tra significati organizzativi e relativi significanti può essere indagato e validato da una doppia prospettiva, espressa nella schematizzazione: quella deduttiva, dai valori alle loro incarnazioni superficiali, e quella induttiva, dalle manifestazioni superficiali ai significati soggiacenti.

È infatti condivisibile che, concettualmente, il senso organizzativo parte dall’astratto per realizzarsi nel concreto. Ogni professionista della comunicazione e della creatività, ad esempio, organizza la

86 C. CORTESE, L’organizzazione si racconta, op. cit. p. 3.

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propria produttività in questo modo: partendo da una fase puramente teorica, la mappa dei significati, passando per una fase intermedia di connessione, il concept, ed arrivando infine alle scelte di codice e alle sue declinazioni discorsive superficiali, punto d’incontro queste ultime tra destinante e destinatario del messaggio. Come è piuttosto intuitivo però, ciò non vieta la possibilità di articolare senso con un movimento contrario: attribuendo significati profondi alla realtà empirica che esiste di per sé. È un approccio che è stato per certi versi seguito, come vedremo, nel contesto del progetto StoryLab, che da esperienze personali ed individuali dei suoi protagonisti ha tentato di cogliere significati universali e condivisi.

A prescindere quindi dalla prospettiva da cui si guarda il processo di produzione di senso, ciò che conta è l’indiscutibilità del legame tra livello profondo e livello superficiale. È possibile far coincidere il punto di congiunzione con un livello intermedio, quello della grammatica narrativa a cui appartengono gli attanti del discorso, categorie semiotiche che abbiamo già analizzato e che ben si adattano anche ad un’analisi della significazione di marca. All’interno di ogni forma di sensemaking, presente in un singolo testo quanto in una complessiva strategica discorsiva, gli attori concreti del discorso si posizionano all’interno di precise categorie attanziali che conferiscono loro uno specifico ruolo relazionale e un loro specifico valore diegetico. Questa operazione avviene contestualmente alla produzione, dal momento che, recuperando un concetto fondamentale della semiotica, “il mondo delle cose ed il mondo dei significati si implicano reciprocamente”88: in altre