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All’interno di un lavoro di ricerca che tenta di collocare lo storytelling organizzativo nell’intersezione disciplinare tra le teorie del racconto e le scienze del linguaggio, non può venire meno la convinzione basilare che qualunque forma diegetica (di marca e non solo) consista inevitabilmente in un’operazione comunicativa. Secondo questa impostazione, è importante ribadire che ogni narrazione si manifesta come un atto relazionale appartenente al piano

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dell’espressione, tale da coinvolgere almeno due attori (non necessariamente compresenti) in una performance di enunciazione, descrivibile attraverso alcune componenti fondamentali. In un discorso genericamente inteso, l’insieme vettoriale di queste istanze va a costituire il modello dell’atto comunicativo canonico, conosciuto in altre formulazioni come schema di destinazione- ricezione o schema standard dell’enunciazione. La formalizzazione più nota è riconducibile all’attività del linguista Roman Jackobson, che descrive la natura di ogni fenomeno comunicativo, indipendente dalla sua forma, attraverso sei elementi essenziali: l’emittente, il destinatario, il contatto, il codice, il contesto, il messaggio.167 Di seguito ne presento una versione parzialmente

rielaborata e oggi accettata in modo generalmente condiviso.

La cornice circostanziale all’interno della quale si svolge l’evento comunicativo nel suo insieme prende il nome di contesto. Con emittente, o destinante, si indica l’istanza che dà origine all’atto comunicativo; specularmente, il destinatario è il punto d’arrivo del vettore, colui verso il quale l’atto è indirizzato. La sostanza informativa che viaggia lungo questa direttrice è costituita dal messaggio; il trasferimento comunicativo può tuttavia avvenire solo in presenza di un codice, un sistema di regole convenzionali condivise, e di un canale o contatto, il mezzo fisico usato per la trasmissione. Messaggio, codice e canale si implicano reciprocamente; ad essi, in alcune proposte interpretative, si aggiunge il referente, la corrispondenza ontologica cui il messaggio si riferisce. Si può osservare come la struttura sopra rappresentata trovi evidenti elementi di continuità con lo schema narrativo canonico presentato in 1.2.5. Ulteriori sovrapponibilità, sia logiche sia terminologiche sono poi riscontrabili con una declinazione dello schema di destinazione-ricezione basata sul concetto semiotico di enunciazione; di seguito riporto, in particolare, la specifica elaborazione proposta da Marrone a proposito del discorso di marca, che colloca la riflessione in una prospettiva più vicina all’interesse peculiare di questo capitolo. 168

167 ROMAN JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966. 168 G. MARRONE, Il discorso di marca, op. cit., p. 154.

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In questo modello discorsivo, ai due attori concreti (emittente e destinatario reali) si aggiungono due figure di mediazione, enunciatore ed enunciatario, che, come il narratore ed il narratario dello schema narrativo proposto in 1.2.5, possiamo considerare parte integrante della performance discorsiva. Essi rappresentano delle proiezioni ideali rispettivamente del brand e dei consumatori, istanze prive di corporeità a cui è affidato il passaggio dell’enunciato di marca (con i suoi significati), concretamente incarnato nelle diverse possibili manifestazioni comunicative superficiali.

Nel complesso, affrontando una lettura comparativa di queste distinte prospettive interpretative, sembra emerge tra di esse una non trascurabile vicinanza concettuale. Una vicinanza che si presta al tentativo di ipotizzarne una convergenza formale, all’interno di un modello nel quale far coesistere le riflessioni proprie della teoria dei linguaggi con quelle delle scienze della significazione e con quelle, invece, più vicine ad un approccio di tipo narrativo. La sintesi di questi approcci può concretizzarsi in una struttura vettoriale, uno schema canonico della comunicazione narrativa a cui poter ricondurre ogni possibile manifestazione discorsiva, di marca e non solo, caratterizzata da una qualche riconoscibile presenza di narratività.

Secondo la sistematizzazione proposta, la narrazione, nella sua natura di linguaggio, si incarna in un medium rispettandone le caratteristiche di codice e, in quanto atto comunicativo, mette in connessione due attori reali, il destinante (mittente) ed il destinatario della performance discorsiva. Per essere tale, il racconto deve però anche veicolare un messaggio dotato di una più o meno marcata componente diegetica che risulta riconoscibile, come più volte affermato, da alcuni elementi fondamentali (personaggi, trasformazioni di stato, sequenzialità, consequenzialità…) che nell’insieme costituiscono lo storyworld; fanno parte del mondo rappresentato anche le due istanze intradiegetiche di storyteller e storytaker, che sostituiscono concettualmente le figure di enunciatore ed enunciatario della teoria semiotica, adattandole in chiave narrativa.

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Nel complesso, lo schema qui presentato si presta a descrivere la struttura formale di ogni comportamento discorsivo di marca, facendo convergere proposte di diversa provenienza disciplinare in un unico modello interpretativo, nel quale appare quindi giustificabile la lettura dello storytelling organizzativo come linguaggio di comunicazione. L’operazione compiuta non è da considerarsi un esercizio descrittivo fine a sé stesso, purché si dia il giusto rilievo agli spunti di riflessione offerti da questa classificazione. Può essere interessante, ad esempio, sottolineare la natura dinamico-relazione dello schema: qualunque sostanza assuma l’oggetto comunicato (il messaggio narrativo), quest’ultimo costruisce il proprio significato lungo l’asse di destinazione- ricezione, che congiunge colui che ha prodotto l’evento performativo a colui per il quale è stato prodotto. Entrambi gli attori coinvolti nel processo comunicativo partecipano quindi in modo attivo e complementare alla codifica del senso discorsivo. In quest’ottica, potremmo sostenere che il racconto contiene al proprio interno traccia del processo stesso di produzione, una marca di responsabilità cognitiva: ecco che, se accettiamo l’esistenza di questa marchiatura di destinazione e fruizione insita in ogni messaggio, ogni discorso diventa, per certi versi, un discorso di marca. Nei successivi paragrafi, saranno ulteriormente approfonditi alcuni suoi caratteri, con attenzione privilegiata ai comportamenti degli attori reali coinvolti nel processo comunicativo.

3.2.1 – Ruoli e relazioni comunicative. Il destinante, deleghe discorsive e relazioni polemiche

All’interno delle pratiche della comunicazione di marca, a proposito della relazione tra destinante e destinatario, gli aspetti della ricezione possiedono, come vedremo, una considerazione privilegiata. Tuttavia, agli operatori dello storytelling per il consumo è del tutto consigliabile prestare la necessaria attenzione alle proprie responsabilità espressive, non tralasciando di mettere il giusto focus sulle questioni riguardanti il destinante del racconto di brand, ovvero il brand stesso. Quest’ultimo è infatti da ritenersi il responsabile del punto di vista complessivo del discorso, colui che controlla i flussi di sapere che il discorso stesso intende veicolare. La marca-enunciatore può palesarsi più o meno esplicitamente all’interno dei singoli segni testuali del proprio progetto comunicativo: per questo, le modalità della sua interazione con i destinatari possono essere molto variabili, e avere ripercussioni in termini di obiettivi organizzativi, scelte di posizionamento sul mercato, risultati strategici. Da una marca presentata come soggetto che parla ad un consumatore in ascolto passivo, passando per una marca dialogante con il proprio pubblico, fino ad una marca- oggetto che subisce l’azione di un consumatore-soggetto, la relazione che congiunge i due attori empirici sull’asse di destinazione-ricezione può concretizzarsi in prodotti comunicativi capaci di moltiplicare notevolmente i piani dell’enunciazione.

Bisogna infatti considerare che, nella comunicazione di marca, possono esistere forme diverse e graduali di soggettività discorsiva, a seconda della riconoscibilità dell’organizzazione all’interno del proprio messaggio-enunciato. A seconda del livello di esplicitazione della presenza del brand – potremmo anche chiamarlo il grado di marchiatura – è possibile immaginare di posizionare le manifestazioni del discorso di marca su una scala che va dalla pura soggettività alla pura oggettività. Nella comunicazione commerciale, casi di in cui la marca destinante interpella in modo diretto il

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destinatario-consumatore sono piuttosto frequenti; l’uso di forme dialogiche io-tu nel linguaggio verbale o gli sguardi in camera in quello visivo sono tra i più riconoscibili effetti di soggettività, attraverso i quali il legame tra i due attori si fa più manifesto, suggerendo forme di immedesimazione e di sovrapposizione identitaria: “prenditi cura dei tuoi denti con Oral-B (come faccio io che difatti ho un sorriso splendente)”. Specularmente, alcuni testi possono presentarsi come “enunciati puri”, che sembrano parlare da sé, senza bisogno di interlocutori. Tendenze oggettivanti possono anche assumere la forma delle cosiddette deleghe discorsive; il ricorso a passaggi di parola, citazioni, discorsi para-scientifici sono modi per trasferire al proprio enunciato di marca una credibilità fondata su un’(apparente) imparzialità, in quanto proveniente da altri attori sociali: “nove dentisti su dieci raccomandano questo spazzolino”.

A volte, invece, è lo stesso consumatore, chiamato a dare l’esempio ai propri pari, a diventare enunciatore di un discorso di marca delegato; è il caso classico del testimonial. All’interno delle forme di delega di parola, quello del testimonial è l’esempio più chiaro di come, per conferire al discorso di marca uno statuto di verità ed attendibilità, è possibile (e in certi casi preferibile) operare un’esplicita distinzione identitaria tra colui che propone la storia (il destinante) ed il suo storyteller. La questione del testimonial-influencer è piuttosto articolata, ma tendenzialmente riducibile al “non siamo noi dell’azienda che lo diciamo, è una persona di cui ti puoi fidare”. Spesso costoro diventano infatti veri propri eroi mediatici e, nei casi di maggior successo, si creano dei sodalizi così felici da operare una sorta di reciproca identificazione; è possibile che la collaborazione si consolidi a tal punto da realizzare una perfetta sovrapposizione, fino a parlare di vampirismo del testimonial: il caso più paradigmatico di questa situazione è forse il rapporto tra la Nike e Michael Jordan, titolare di un sotto-brand a cui ha dato il nome e persino l’identità del logo.

Nel complesso comunque, un influencer è convocato nel discorso di marca come garante della qualità del prodotto/servizio, e, cosa ancora più significativa, come proponente di un atto di fiducia, razionale o emotiva. Ad agire è sempre una sostanziale logica di complicità, ma è possibile fare una distinzione in base al grado di adesione mostrata tra i valori individuali del testimonial- storyteller e i valori della marca-destinante. A volte, è infatti la semplice notorietà del personaggio ad essere sfruttata per attirare l’attenzione; altre volte invece, le caratteristiche identitarie dell’individuo (reali o solo pubblicamente percepite) sono in sintonia con i contenuti stessi della comunicazione, o più in generale, con i programmi di vita proposti dalla marca. Tra queste due alternative, si potrebbe dire che maggiore è la corrispondenza di significati proposti, maggiore sarà la coerenza del discorso di brand; tendenzialmente quindi, se il comportamento del testimonial, anche nella sua vita extra-pubblicitaria, non è perfettamente allineato, o peggio, in contraddizione con la narrazione, si rischia un effetto boomerang strategicamente sconsigliabile.

Volendo approfondire ulteriormente il sistema delle relazioni tra gli attori della comunicazione commerciale, bisogna tenere conto che il destinante non articola il proprio messaggio solo e soltanto in considerazione del proprio destinatario. Colui che possiamo ritenere il soggetto dell’evento comunicativo, infatti, codifica la propria proposta di senso anche in rapporto ad attori che, nello schema, si trovano in una posizione allo stesso tempo uguale e contraria: gli antisoggetti. Come appare evidente dall’eredità narratologica della figura dell’antieroe, ogni racconto

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sufficientemente elaborato possiede infatti una struttura di tipo polemico, in cui si incrociano almeno due programmi narrativi, formalmente analoghi ma antagonisti. La differenza tra soggetto ed antisoggetto (e quindi anche tra significati ed anti-significati) si esplicita nella prospettiva valoriale da cui il discorso è pronunciato, e su cui il destinatario è chiamato a schierarsi. In quest’ottica, è comprensibile come la mappa di significati proposti nei discorsi dei brand si costruisca in modo comparativo: ogni soggetto è tale in funzione dei suoi alter-ego, si afferma nell’incontro-scontro logico e dialettico, formandosi e trasformandosi in funzione del suo altro.169

Seguendo tali dinamiche relazionali, si potrebbe quindi dire che i discorsi di marca (e in particolare quelli commerciali) appaiono sedimentare le identità organizzative in modo differenziale, con processi di convergenza-divergenza nei confronti dei competitors. Nel contesto di mercato, tale rapporto io-altro (Nike/Adidas o Coca-Cola/Pepsi, per esempio) contribuisce a codificare reciprocamente i posizionamenti di senso e ad indirizzare, di conseguenza, le scelte strategiche di comunicazione per il consumo. Secondo questa lettura quindi, le proposte discorsive dei brand possono prevedere una presenza antagonista, con la quale instaurare un’inevitabile performance di confronto; in questo modo, le aziende definiscono e ridefiniscono continuamente i propri piani narrativi di base, anche istituendo veri e propri contro-programmi in risposta ai programmi avversari, per anticipare le scelte degli oppositori o rimediare agli ostacoli da loro posizionati. Anche per queste ragioni quindi, il discorso di marca possiede natura sostanzialmente narrativa: in esso, “ogni brand racconta infatti la propria storia, mette in scena la propria tradizione e i propri valori, e così facendo si costituisce come Soggetto contro i propri Anti-soggetti”170.

3.2.2 – I contenuti del discorso di marca: universi tematici e brand activism

A livello contenutistico, è del tutto condivisibile pensare che, in generale, il discorso di un brand- destinante possa essere riassunto nell’insieme delle tematiche che propone al proprio pubblico- destinatario. A cosa di riferiamo quando parliamo di tema? Esso è inteso come ciò che resta alla fine di una conversazione come risultato cognitivo: una sorta di selezione-interpretazione di forme discorsive induttivamente riconducibili ad un determinato sistema di senso. Per estensione, in un contesto di comunicazione di marca, con esso si potrebbe quindi indicare “ciò che si dice di una marca quando si vuole riassumere verbalmente il contenuto del suo discorso, nel momento in cui si tende a rendere linguisticamente il messaggio trasmesso nel corso della sua attività comunicativa”171.

Nella sua forma più condivisa, il tema è quindi un nucleo di senso, espressione sintetica di un atto comunicativo, o anche di molteplici manifestazioni discorsive riconducibili al medesimo universo semantico. Essendo quindi il risultato cumulativo di singole performance enunciative (ma anche di differenti interpretazioni della stessa performance), esso porta con sé una inevitabile dose di approssimazione e di semplificazione. Anche per questo, da un punto di vista della teoria della

169 Ivi, p. 85. 170 Ivi, p. 86. 171 Ivi, p. 17.

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significazione, è da collocarsi strutturalmente in una posizione intermedia tra il profondo ed il superficiale, ad un livello di cerniera tra il sistema dei significati e i relativi significanti. Si tratta quindi di un’istanza discorsiva fondamentale e complessa: se da un lato infatti, il tema precede concettualmente la sua realizzazione empirica, essendone presupposto concettuale, dall’altro, può rappresentarne anche una conseguenza, in quanto risultato di un’operazione di interpretazione cognitiva.

Volendo avvicinare queste riflessioni alle logiche del racconto organizzativo, si potrebbe dire che il tema consista nel canovaccio di partenza dei programmi narrativi articolati all’interno delle storie di marca. Per certi versi, il tema è già racconto in nuce: la base di contenuto che, attraverso gli strumenti messi a disposizione dallo storytelling, si esplicita in una o più manifestazioni discorsive percepibili. Queste ultime, nel meccanismo della trasmissione, si rendono disponibili a forme di valutazione e (ri)elaborazione da parte dei destinatari, i quali, è importante sottolinearlo, partecipano attivamente alla determinazione del senso complessivo di una storia. Le diverse possibili associazioni tra realizzazione superficiale e tema stanno alla base dei meccanismi di significazione narrativa; quando una specifica associazione assume una certa stabilità, ricorrendo in modo condiviso e con una certa insistenza nei prodotti diegetici, è riconducibile alla categoria (ereditata dalla teoria letteraria) di topos.

Tanto nei racconti tradizionali quanto in quelli organizzativi, le convergenze ostinate e prevedibili danno vita a forme narrative stereotipiche: è piuttosto semplice collegare un cowboy all’idea di avventura, oppure una tovaglia a quadri a quella di convivialità tipicamente italiana. Nel caso dei personaggi, la comunicazione commerciale ricorre spesso all’utilizzo di ruoli tematici, costituiti da caratteri riconoscibili e da comportamenti che apportano nelle storie un valore semantico standardizzato, secondo i criteri di una cultura di riferimento. Questi ruoli tipologici rivestono una funzione espressiva ed argomentativa precisa, creando nei destinatari aspettative altrettanto precise. Per fare un esempio, la tanto diffusa collocazione di un uomo o di una donna in camice bianco in una pubblicità rimanda ad un universo di ispirazione medico-scientifica che vorrebbe trasmettere i valori dell’innovazione fondata sulla ricerca, e di conseguenza dell’autorevolezza di cui non si può non fidarsi.

All’interno delle molteplici declinazioni contenutistiche dello storytelling per i brand, è possibile fare un’ulteriore distinzione a seconda di quanto il programma narrativo sia rappresentato in modo esplicito o implicito. Se è tendenzialmente frequente che, in un testo narrativo classico, venga effettivamente esplicitata tutta (o almeno gran parte) della storyline, è più probabile che, nei discorsi di marca, vengano proposte manifestazioni testuali più incomplete, nelle quali una o più fasi del percorso diegetico vengano tralasciate o sottintese. I segni che danno vita alle narrazioni di marca sono cioè spesso più allusivi che manifesti, frammenti che delegano ai destinatari il compito cognitivo di costruire il racconto nella sua interezza. Nella maggior parte dei casi, non si tratta di scelte di tipo esclusivamente creativo, quanto piuttosto di valutazioni strategiche rispondenti ad esigenze di tipo pragmatico. La comunicazione commerciale infatti, almeno quella massmediatica basata su meccanismi di interruzione del palinsesto, quasi mai si rivolge ad un pubblico che volontariamente ha scelto di dare ascolto a quel messaggio: per questo, il tempo e l’attenzione che

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i destinatari concedono ad un atto comunicativo di questo tipo sono spesso limitati, e impongono la necessità di addensare i contenuti in unità enunciative molto concentrate.

Approfondirò meglio la questione dell’interruzione e del consenso discorsivo in 4.3.1, ma intanto è possibile dire che gran parte degli spot pubblicitari, ma anche un logo, l’allestimento di un punto vendita o un packaging, sono progettati in modo da raccontare istantanee di una storia anche molto complessa, pur in pochi secondi o con pochi tratti. Ciò è possibile grazie ad un meccanismo che possiamo chiamare di presupposizione, ovvero la capacità di ricostruire lo schema narrativo a partire da un limitato segmento di esso. In modo simile a quanto avviene con l’ellissi in un testo letterario (“la sventurata rispose”), anche in un racconto orientato al consumo, è possibile delegare ai destinatari il completamento dei pezzi mancanti del puzzle narrativo. Lo spiega in modo efficace sempre Marrone nel suo già più volte ripreso Discorso di marca; l’autore indica a questo proposito il caso di un annuncio pubblicitario per la stampa dell’azienda di telefonia Ericsson nel quale vediamo un telefonino abbandonato sul cofano di una macchina insieme alle chiavi, accompagnato da una headline che recita: “Vivi a modo tuo”172. Il progetto di senso espresso nella narrazione è qui

presentato nel momento del suo compimento finale; a ciascun destinatario è affidata la responsabilità, nemmeno troppo ardua, di procedere a ritroso ricostruendo la storia che precede il momento rappresentato: verosimilmente ciò che si allude è che il proprietario del telefono, soggetto d’azione implicito, abbia abbandonato il mezzo di trasporto dopo aver compiuto la telefonata decisiva per i suoi progetti di evasione e di fuga esistenziale.

A livello di contenuto quindi, le marche appaiono tendenzialmente portate a proporre un racconto alimentato da messaggi in qualche modo prevedibili e fondato su codici condivisi, per agevolare la comprensione da parte dei propri destinatari. Non bisogna dimenticare, infatti, che la funzione ultima del discorso di marca rimane la conversione a determinati comportamenti d’acquisto, e per

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questo non può rinunciare alla chiarezza e alla coerenza del messaggio. Tuttavia, ciò non significa che i progetti strategici delle organizzazioni non possano prevedere metodi e forme di espressione in qualche modo inattesi. Tra gli aspetti più interessanti a questo proposito, si può fare riferimento a quello che viene chiamato brand activism. Si tratta di una condizione per la quale il brand sceglie di oltrepassare i confini naturali della propria comunicazione commerciale, abbandonandone gli argomenti più prevedibili per diventare discorso di più ampio rilievo socio-culturale. In questi casi, si assiste ad una sorta di slittamento semantico del discorso di marca: prendendo posizione su temi dibattuti, argomenti divisivi, aspetti di attualità, riesce a proporre in modo più incisivo il proprio sistema di valori, la propria visione del mondo, della società, della realtà. Proponendo contenuti di interesse condiviso, la pubblicità va così ad occupare lo spazio di altri generi discorsivi, fino a