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Tra i prodotti creativi che circolano nelle organizzazioni sotto forma di racconto, quelli finora analizzati, le micronarrazioni, sono caratterizzati da un’autorialità individuale, attribuibile cioè a singoli soggetti attivi nella comunità. Esistono poi racconti, che per opposizione potremmo chiamare macronarrazioni, che hanno origine da una volontà programmatica, e per questo la loro paternità appartiene all’impresa (o all’istituzione) nel suo complesso. In una prospettiva interpretativa come quella di questo lavoro, strettamente legata cioè alle teorie dei linguaggi e della comunicazione, sono queste specifiche istanze discorsive a rappresentare l’oggetto di studio privilegiato: lo storytelling organizzativo (OS) in senso stretto, in altre parole, dovrebbe tendere a

focalizzare la propria attenzione su prodotti e processi narrativi di natura strategica e dalla vocazione esplicitamente creativo-comunicativa. Ciò che abbiamo chiamato storytelling nell’organizzazione accoglie quindi come proprio interesse prioritario di indagine il racconto organizzativo propriamente detto, la sua codifica formale e le modalità più idonee per la sua costruzione e diffusione.

73 2.4.1 – La comunicazione organizzativa e l’approccio narrativo

Come già anticipato, con organizational storytelling non si vuole intendere genericamente l’arte di raccontare storie, ma piuttosto la prassi di creare e condividere significati attraverso la narrazione. Si tratta cioè di una competenza collocabile nell’ambito della comunicazione d’impresa, un settore considerato sempre più importanza nella struttura di ogni organizzazione complessa e, anzi, ormai assunto ad un ruolo assolutamente cruciale: i suoi responsabili entrano a pieno titolo nel team manageriale, sono chiamati a partecipare alle decisioni più rilevanti e a contribuire in modo sostanziale al destino di una realtà organizzativa. L’area comunicazione, qualunque sia la sua specifica denominazione, non è più ritenuta una funzione organizzativa qualsiasi, ma è protagonista di attività di alto profilo strategico, con notevoli responsabilità e competenze. Questo perché le imprese e le istituzioni comunicano sempre, inevitabilmente e in modo non necessariamente intenzionale: ciò che conta è prenderne coscienza, inserendo il naturale flusso discorsivo all’interno di un progetto programmatico e consapevole.

Ancora prima di occuparsi di prodotti e servizi, la corporate communication codifica l’insieme di pratiche con cui l’impresa parla di sé, della sua identità, della sua visione del mondo e della sua missione: le modalità con cui, potremmo dire, si presenta come soggetto valoriale mostrandosi nella sua totalità di attore sociale. In questo senso, il suo scopo complessivo risiede nell’affermare una personalità distinta e coerente, gestendo al meglio la propria immagine e reputazione e, cosa non secondaria, favorendo le relazioni, formali e informali, con gli stakeholders. Questi ultimi sono intesi come qualsiasi gruppo o individuo che può influenzare il raggiungimento degli obiettivi organizzativi, o esserne a sua volta influenzato. Non pubblici passivi, ma portatori attivi di interessi reali o potenziali e in quanto tali, di conseguenza, negoziatori (co-creatori) del sistema di significati dell’organizzazione stessa: quest’ultima deve perciò rendere conto loro in merito alle proprie scelte e ai propri comportamenti. Nella descrizione della struttura dei rapporti di un’organizzazione quindi, i teorici della comunicazione stanno progressivamente sostituendo il classico modello input-output con un modello stakeholder-based basato sull’interdipendenza, che “riconosce la possibilità e la rilevanza di interazioni di natura bidirezionale e di influenze reciproche”; questo sistema di interazioni sottoscrive, da un lato, la presa di coscienza della propria parte di responsabilità pubblica e, dall’altro, l’importanza di “integrare l’azienda o l’istituzione nella comunità al cui servizio essa si trova”122.

A causa delle profonde modificazioni che, nella postmodernità, hanno interessato l’economia d’impresa, la dimensione relazionale dell’attività organizzativa ha assunto una rilevanza decisiva, tanto nei confronti degli interlocutori interni quanto di quelli esterni. In questo contesto, la comunicazione – e in particolare una comunicazione stakeholder-oriented – assume una funzione strategica decisiva perché rappresenta il collante delle comunità organizzative: essa diviene strumento di coordinamento centralizzato di tutti i processi relazionali, attraverso cui coltivare i contatti professionali, creare e mantenere la fiducia, promuovere la co-evoluzione, esercitare

122 ROBERTO GRANDI,MATTIA MIANI, L’impresa che comunica. Come creare valore in azienda con la comunicazione, Milano, ISEDI, 2006, p.57.

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strategie di influenza e di condizionamento. Da questo punto di vista, appare sempre più chiaro che ogni organizzazione, oltre che prodotti e servizi, è chiamata a generare contenuti, comportandosi come una media company che, più che fare comunicazione, deve essere comunicazione. Si potrebbe dire che, al saper-fare, si è aggiunta una nuova competenza complementare: il far-sapere.

Se quindi comunicare in modo strutturato è vitale per un’organizzazione, farlo narrativamente è una possibilità da non sottovalutare. Ogni impresa o istituzione possiede un capitale biografico e semantico che il racconto è chiamato ad organizzare ed espandere, inserendo il discorso di marca in una trama credibile e coerente, in modo che la fredda logica del business possa concedere spazio ai significati condivisi, ai valori, alle emozioni. Praticare lo storytelling organizzativo significa quindi istituzionalizzare la narrazione, spostando il focus dall’efficienza produttiva alla definizione e valorizzazione di un’identità distintiva.123 È proprio questo aspetto di posizionamento esistenziale

a meritare una sottolineatura: in una strategia di comunicazione narrativa, tutte le singole manifestazioni testuali, visive, sonore, percettive partecipano alla costruzione di un senso comune e danno vita ad uno storyworld governato da valori e dinamiche coerenti.

Naturalmente, la definizione di ogni universo narrativo può variare molto, identificando due tendenze opposte in base al livello di articolazione: come esistono storie organizzative altamente complesse ed organicamente multicanale, non si può negare la possibilità di realizzare singoli prodotti comunicativi con scopi specifici ed un orizzonte limitato, pensati per particolari necessità organizzative e non declinate al di fuori di esse. L’estensione, sia nello spazio sia nel tempo, di un racconto è un agevole indicatore della sua complessità, ma può essere anche un paradigma della sua qualità: più a lungo un racconto circola e più è sviluppato lo spettro delle sue declinazioni mediatiche, più sarà valido in un’ottica di studi organizzativi; viceversa, più una narrazione sarà frammentaria e scollegata dagli altri prodotti comunicativi, meno sarà rilevante in prospettiva interpretativa. Allo stesso modo, come vedremo anche l’intensità dell’impatto sui destinatari e la vivacità della ricezione di questi ultimi possono essere considerati fattori proporzionali all’efficacia del processo di organizational storytelling.

Quali sono invece i fattori che rendono una manifestazione comunicativa iscrivibile alle logiche del racconto? Cosa rende cioè tale una storia dell’organizzazione? Sulla narratività di un prodotto organizzativo è possibile mantenere le stesse posizioni validate in precedenza parlando in maniera complessiva di narrazione, a prescindere dal contesto in cui essa si realizza. In quest’ottica, l’eredità lasciata in dote dalle scienze del racconto più tradizionali è da ritenersi un patrimonio che può essere accolto senza particolari discontinuità. Ricordando la distinzione proposta tra hard storytelling e soft storytelling, e parlando in particolare della prima categoria, all’interno di una narrazione organizzativa devono essere solitamente riscontrabili, parzialmente o integralmente, alcune caratteristiche: la presenza di personaggi riconoscibili ed in reciproca interazione; una serie di comportamenti-azioni a loro attribuibili; eventi o avvenimenti orientati ad una o più trasformazioni di stati e inquadrabili nel contesto di una trama; uno storyworld coerente; una leva di coinvolgimento emotivo-irrazionale più o meno marcata; un intreccio non necessariamente

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approfondito, ma ricostruibile attraverso i due paradigmi della sequenzialità temporale e della consequenzialità logica.

Questi fattori, che in prospettiva semiotica si manifestano a livello della superficie discorsiva, co- partecipano ad un processo di sensemaking orientato alla definizione di significati profondi che passa anche attraverso il riconoscimento e l’interpretazione di linee tematico-valoriali all’interno della trama. I racconti organizzativi, al di là delle scelte espressive e stilistiche, a causa degli scopi tendenzialmente pragmatici (e non estetici) per cui sono concepiti, devono avere argomenti definiti e ben riconoscibili; anche per questo, non deve sorprendere che si possa riscontrare una certa continuità con le traiettorie diegetiche delle narrazioni classiche. Anche pensando intuitivamente a svariati discorsi di marca, sarà facile trovare al loro interno temi come la sfida per la crescita personale (buildungsroman individuale o collettivo), lo scontro bene-male, la ricerca di un nuova ricchezza materiale o simbolica (caccia al tesoro), il recupero memoriale di un passato virtuoso, la scoperta e l’esplorazione che portano a nuove conoscenze, il viaggio (che spesso è più importante della destinazione) e il ritorno a casa.

Anche le dinamiche tra personaggi possono determinare variazioni argomentative importanti: se relazioni empatiche possono declinare storie di amore, di cura, di gioco di squadra, relazioni oppositive possono incarnarsi in racconti di antagonismi professionali, di lotta per la supremazia, di tradimenti ed usurpazione. Come già in qualche modo anticipato in 2.3.3, c’è poi un conflitto esistenziale che nelle organizzazioni emerge a tutti i livelli ed è quello tra la dimensione individuale e quella collettiva: un dualismo tra emancipazione e senso del dovere che può sfociare in narrazioni di anticonformismo, evasione, disobbedienza. A queste trame antisistemiche però, una comunicazione programmaticamente orientata al controllo ne preferirà altre di cadute seguite da redenzioni, di errori e di rinascite. Naturalmente però, non tutte le storie d’impresa conducono dalle stalle alle stelle; in determinati momenti e per determinate ragioni, lo storytelling organizzativo può dover affrontare temi come la paura, la vergogna, la privazione, la sconfitta. La gamma di significati da declinare è così ampia da rendere praticamente impossibile ricondurre i racconti organizzativi ad un elenco ristretto di generi e di temi. La scelta creativa quindi può variare molto a seconda degli specifici obiettivi del discorso narrativo e dei contesti d’intervento in cui esso viene veicolato.

2.4.2 – Finalità ed ambiti di applicazione

La narrazione organizzativa è uno strumento creativo complesso, capace di generare risultati notevoli se utilizzato con consapevolezza strategica, con pertinenza e, innanzitutto, con le idee chiare circa gli obiettivi da perseguire. Per la sua capacità di ri-lettura del passato, di presidio dell’esistente e di immaginazione del futuro, ha una natura esplicitamente diacronica e si presta a molteplici modalità di applicazione. Per questo, le funzioni a cui questa metodologia è stata chiamata a rispondere, sono molto varie, come varie sono e formalizzazioni proposte in questo senso dai ricercatori organizzativi. Ad esempio, Steve Denning, in Scoiattoli SpA124, un saggio dalla

vocazione marcatamente operativa in cui sono condensati i risultati di diversi anni di ricerca sulle

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organizzazioni complesse, propone di dividere i racconti d’impresa in sette tipologie: storie che comunicano l’essenza, storie per condividere la conoscenza (knowledge management); storie che incitano all’azione; storie che riguardano il futuro; storie “trampolino”, che illuminano il futuro a partire da un esempio passato; storie che trasmettono valori; storie che sostengono il cambiamento. Il già coinvolto Claudio Cortese individua invece quattro ragioni fondamentali che orientano e motivano il ricorso allo storytelling d’impresa. 125 La prima è il controllo, che corrisponde alla

necessità di sicurezza e di presidio dell’esistente; così funzionalizzate, le storie diventano strumenti di mantenimento e di circolazione statica dei saperi: quanto più, infatti, una narrazione rimane stabile, tanto più genera tradizione storica, controllo e conservazione della struttura sociale. La necessità di sviluppo, invece, si collega alla necessità organizzativa di costruire il reale, attraverso narrazioni di compimento; in quest’ottica, le storie sono interpretate come dispositivi pedagogici per diffondere pratiche comportamentali (internamente) o di consumo (esternamente), e per farle diventare attività quotidiane. La cura, rappresentata dalle narrazioni che Cortese chiama “di dedizione”, è connessa alla necessità di tutela emotiva, per sanare, medicare e lenire i malesseri di un individuo o di un gruppo organizzativo; quanto più la narrazione riesce ad attenuare le ferite emotive o psicologiche dei destinatari, tanto più questi sarà riconoscente e fedele. Infine, le narrazioni di eccitamento, connesse all’esplorazione e al piacere, sono strumenti di attivazione emozionale straordinaria, praticati per generare sentimenti positivi e di investimento affettivo sul reale.

Più articolata è la sistematizzazione proposta da Andrea Fontana in Storytelling d’impresa. La guida definitiva126; all’interno di un manuale che si propone, non a torto, come il contributo italiano alla

teoria del racconto organizzativo più attuale e autorevole, l’autore propone un elenco aperto di possibili finalità a cui una comunicazione ad approccio narrativo può rispondere. Nel complesso, l’obiettivo della comunicazione narrativa si può ricondurre (come ampiamente esplicitato anche in questa tesi) all’esigenza di sensemaking, di generare significati rispondenti ai bisogni generali dell’organizzazione. Possono tuttavia esistere funzioni che non rispondono a necessità dell’organizzazione nel suo insieme, ma a bisogni di determinati settori, con aree d’intervento circoscritte, scopi e destinatari specifici. A partire dalle riflessioni di Fontana, propongo di seguito una sintesi rielaborata delle finalità strategiche dello storytelling organizzativo, con riferimenti ai relativi ambiti di applicazione.

Informare circa iniziative e risultati. La narrazione, secondo una logica divulgativa, aiuta la comprensione di eventi complessi e agevola la costruzione di un senso comune circa le decisioni del management e le loro conseguenze; al di là della dimensione funzionale ed operativa, il racconto permette cioè di accedere alla dimensione umana, affettiva e simbolica dei fatti organizzativi, giustificando le scelte compiute e motivando i comportamenti suggeriti.

Condividere le origini. Trasformare gli eventi del passato in miti fondativi è spesso considerata la strategia privilegiata per dimostrare autenticità e autorevolezza. La riscoperta di momenti cruciali e la loro riformulazione in episodi epici sono uno strumento utilizzato di norma per assecondare

125 C. CORTESE, L’organizzazione si racconta, op. cit. pp. 57-75.

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la continuità gestionale, praticato soprattutto in momenti di prosperità. Ad esempio, la diffusione di storie personali di personaggi esemplari, come il fondatore o l’ideatore di un prodotto di punta, agiscono da giustificazione del successo del presente e dell’agire virtuoso dell’organizzazione. È un processo per certi versi assimilabile a quello che, in un contesto disciplinare del tutto diverso, Eric Hobsbawm ha chiamato invenzione della tradizione127: in un contesto di mercato in cui tutto appare

più incerto e sfumato, l’organizzazione è chiamata a darsi una ragion d’essere costruendo un racconto del proprio passato a presidio e garanzia del presente.

Il passato di un’impresa è funzionale anche ad esplorare e definire l’identità. La consapevolezza del patrimonio contenutistico accumulato nel tempo è essenziale per costruire una mappa di significati coerente, tale da rispecchiare ciò che l’organizzazione è, ciò in cui crede e ciò a cui aspira. Come emerge da un noto speech motivazionale di Simon Hayek128, chiedersi “perché esistiamo” è

un’esigenza organizzativa tutt’altro che secondaria: se la story di un’impresa spiega come si diventa ciò che si è, mission e vision determinano la meta a cui si tende e le scelte che si rendono necessarie per raggiungerla. La weltanschaung di un’organizzazione, la sua visione del mondo, deve essere quindi ben definita perché determina i valori che ispirano gli individui nella quotidianità. Essa, a differenza degli obiettivi operativi, è in perenne aggiornamento e non viene mai conseguita; è qualcosa a cui infinitamente tendere, da intendersi come la stella che orienta il cammino dell’organizzazione. La narrazione è in grado quindi di saldare il rapporto tra i segni visibili di un’organizzazione (i comportamenti e le manifestazioni discorsive di superficie), e i loro presupposti identitari, i valori e le motivazioni che li muovono: quelli che Grandi e Miani chiamano “gli assunti di base, ossia il modo in cui l’impresa considera e interpreta concetti fondamentali quali quelli di tempo, spazio, natura, relazioni.”129

Diffondere una cultura sociale. In modo strettamente connesso, la comunicazione narrativa può aiutare a stabilizzare l’apparato valoriale, trasformandolo in un sistema di norme esplicite o di pratiche implicite, espressione tangibile delle componenti immateriali della cultura organizzativa condivisa. In quest’ottica, lo storytelling diviene strategico anche nella gestione delle relazioni interne, sia orizzontali sia verticali, perché trasferisce la conoscenza necessaria per passare da comportamenti improvvisati a comportamenti formalizzati. Interiorizzare e presidiare la cultura della comunità significa anche imparare un copione di prassi appropriate, di performance stabilite e di tradizioni che si consolidano e diffondono in forme già note alle scienze narrative più classiche:

Organizations are now regarded as possessing certain folkloristic and even mythological qualities, such as proverbs, recipes, rituals, ceremonies, myths and legends. […] Undoubtedly, they possess certain characters, such as heroes, fools, tricksters, and so forth, as well as plot elements, such as accidents, deceptions, mistakes, punishments, coincidences and conflicts, which can also be found in ancient myths.130

Posizionare un marchio o un prodotto. In un’ampia categoria di organizzazioni, un discorso narrativo rivolto all’esterno dei suoi confini spesso può avere l’obiettivo di migliorare la conoscenza di

127 ERIC J.HOBSBAWM, TERENCE RANGER, (a cura di), L'Invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987. 128 SIMON HAYEK, Start with why, youtu.be/qp0HIF3SfI4

129 R.GRANDI,M.MIANI, L’impresa che comunica. Come creare valore in azienda con la comunicazione, op. cit., p. 45.

130 “Si ritiene che ormai le organizzazioni presentino alcuni tratti folkloristici o persino mitologici, come proverbi, ricette, rituali, cerimonie, miti e leggende… Naturalmente hanno i loro personaggi, eroi, pazzi, truffatori, ecc., ed anche elementi di trama, incidenti, inganni, errori, punizioni, coincidenze e conflitti, che si ritrovano nei miti antichi.” Y. GABRIEL, Myths, stories and organizations: premodern narratives for our time, Oxford, Oxford University Press, 2004, p. 6.

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marca, ovvero la percezione pubblica di un brand, data dal rapporto tra le sue caratteristiche reali e quelle diffuse nelle opinioni degli stakeholder. Utilizzando un linguaggio vicino a logiche di marketing, si potrebbe dire che il contributo più ambizioso di una strategia di organizational storytelling rivolta all’esterno è il miglioramento della brand reputation; essa è data dalla somma di due indicatori, uno qualitativo, l’immagine di marca (brand image), ed uno quantitativo, la consapevolezza di marca (brand awareness). L’immagine di marca si compone di opinioni individuali che si posizionano in modo soggettivo su una scala di positività-negatività; la consapevolezza di marca invece indica la sua notorietà e riconoscibilità, in un campione di pubblico più o meno limitato, ma descrivibile numericamente. Strategie di comunicazione di tipo narrativo possono sollecitare entrambi questi fattori, perché possono operare su un pubblico già ingaggiato, migliorando (qualitativamente) la sua percezione, oppure agire (quantitativamente) su un pubblico potenziale, coinvolgendolo nel proprio discorso di marca. Ci troviamo qui a confrontarci con l’interessante tema dello storytelling per il consumo, che tante opportunità creative offre alle imprese cosiddette b2c e che, per la varietà e profondità delle riflessioni che si rendono possibili sull’argomento, verrà trattato più sistematicamente nel capitolo successivo.

Orientare opinione pubblica. Sempre a proposito di comunicazione verso l’esterno, si deve considerare che le organizzazioni contemporanee tendono ad applicare nozioni presenti nella propria visione del mondo anche al di fuori dei confini della propria area di competenza produttiva. Trasferiscono cioè, anche in modo narrativo, concetti appartenenti al proprio orizzonte culturale e valoriale, a questioni di interesse sociale, morale e anche politico, emancipandosi dal proprio specifico campo di riferimento, prendendo posizione su temi di attualità o di interesse pubblico. Si parla a questo proposito di brand activism, e se ne approfondirò con più attenzione i caratteri nel capitolo successivo: pur non potendo collocare questo fenomeno all’interno di strategie di tipo esplicitamente commerciale, esso senza dubbio incide sull’immagine pubblica di un’impresa e, di conseguenza, può condizionare implicitamente le scelte di consumo dei destinatari del discorso di marca.

Generare senso di appartenenza. Posizionandosi su temi di interesse collettivo, le organizzazioni propongono una più o meno articolata visione del mondo e, contestualmente, offrono ai loro pubblici la possibilità di immedesimarsi e farla propria. In questo modo, i destinatari del discorso narrativo proiettano sull’impresa (o sull’istituzione) un sistema di significati che li rispecchia, costruendo un immaginario condiviso e codificando così un’affinità di spirito che spesso si traduce anche in una fedeltà di consumo, capace di indirizzare determinati comportamenti d’acquisto. Allo stesso tempo, rivolgendo l’attenzione all’interno dei confini organizzativi, come si è visto nel capitolo precedente, lo storytelling può servire ad aggregare comunità professionali: una storia comune offre un territorio di esperienza collettiva che, può far emergere le differenze individuali o di gruppo, ma se ben progettata e raccontata, è in grado di generare senso di appartenenza: in