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Tra i canali che hanno controllato la circolazione delle informazioni nel ‘900 (i mass media) e quelli che ad essi si sono affiancati nel nuovo millennio, fino a prenderne per certi versi il sopravvento, (i media digitali) esiste una distanza sostanziale, che è di natura tecnologica ma, anche e soprattutto, di natura socio-culturale. È ormai del tutto accettabile considerare i cambiamenti che, negli ultimi vent’anni, hanno così significativamente trasformato il paesaggio mediale a disposizione come una vera e propria rottura evolutiva, del tutto paragonabile all’invenzione della scrittura o della stampa. Il verificarsi di una effettiva mutazione non solo comunicativa, ma più ampiamente antropologica, è ormai uno stato di fatto perfettamente riconoscibile, i cui segnali sono percepibili tutt’altro che debolmente: ci troviamo, invece, nel pieno di un frastuono causato proprio dall’imporsi di spazi ed abitudini mediali diventati ormai fondamentali, e che per questo non possiamo più permetterci di catalogare come “nuovi”. Citando un lavoro inedito di Mauro Ferraresi, Alberto Contri osserva:

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La grande rivoluzione digitale è arrivata. Anzi è già alle nostre spalle. […] Essa ha cambiato il modo in cui sviluppiamo le amicizie e manteniamo i rapporti, ha cambiato il ritmo e le occupazioni delle nostre giornate, ha contribuito a creare un continuum tra il tempo della ricreazione e il tempo del lavoro, portando quest’ultimo sempre con noi anche quando ci riposiamo e, all’opposto, ha infarcito di momenti di svago e di relax il tempo della produzione.201

Per quanto non leggibile nella sua interezza perché in continua e rapida evoluzione, la metamorfosi è reale e, oltre ad aver investito le forme di socializzazione e cognizione umana, ha avuto conseguenze anche di natura economico-produttiva, rompendo gli equilibri in alcuni segmenti di mercato assai importanti, uno su tutti quello editoriale. Più in generale, è comunque tutta l’industria dei media di massa (stampa, radio, TV, cinema) ad aver dovuto ridimensionare il proprio ruolo e rivalutare la propria funzione sociale.

Volendo provare a fornire delle coordinate cronologiche a questo fenomeno, è necessario riconoscere al suo interno un processo di sviluppo distinto in due fasi separate, che è possibile ricondurre alle due note categorie di web 1.0 e web 2.0. Nella prima, si fanno solitamente convergere tutte quelle innovazioni di natura essenzialmente tecnica che hanno permesso la nascita ed il perfezionamento di un’infrastruttura informativa basata sull’ipertestualità, ovvero su una progressione di link organizzati in modo non lineare, bensì a rete. La prima formalizzazione di una struttura di questo genere è attribuita a Tim Berners-Lee, ricercatore del Cern; egli non pensava ancora ad un sistema globalizzato dell’informazione, ma ad una “riserva localizzata di conoscenza”, gestita da una ragnatela di reciproci rimandi, in risposta alla necessità di tenere traccia delle informazioni in un organismo complesso qual è il laboratorio europeo di ricerca nucleare di Ginevra.202 Al di là delle sue intenzioni, Berners-Lee è spesso considerato un autentico precursore

e anticipatore di internet come lo concepiamo oggi203, ma il web 1.0 ha trovato la sua forma

consolidata anche e soprattutto grazie a due studenti della Stanford University; essi, a partire dal 1998, hanno sviluppato un modello per fare ricerche su internet classificando i risultati in base al numero di link in entrata: un’idea che oggi conosciamo come Google.

Dal punto di vista delle forme di interazione, la versione 1.0 della rete può essere ritenuta una sorta di estensione digitale del mondo massmediatico, rispetto al quale possiede grandi vantaggi in termini di accessibilità e diffusione dei contenuti, ma rimane utilizzata come mezzo per riprodurre format tendenzialmente noti e consolidati. In quest’ottica, essa risulta quindi ancora piuttosto sbilanciata nel rapporto tra i (pochi) destinanti e i (molti) destinatari del messaggio veicolato. Per fare un esempio, a partire dal ‘96 la monumentale Enciclopedia Britannica, ha cominciato ad avviare lo sviluppo di una versione online, permettendo la fruizione del proprio patrimonio divulgativo ad una platea indubbiamente più ampia e secondo modalità più agevoli di quanto permettessero i volumi cartacei; in termini di processi comunicativi però, la portata di tale rinnovamento non

201 ALBERTO CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, p. 24.

202 TIM BERNERS-LEE, Information Management, a proposal, 1989. info.cern.ch/Proposal.html

203 “I had (and still have) a dream that the web could be less of a television channel and more of an interactive sea of shared knowledge. I imagine it immersing us as a warm, friendly environment made of the things we and our friends have seen, heard, believe or have figured out.” T. BERNERS-LEE, Hypertext and Our Collective Destiny, 1995. bitl.ly/3d5AG6x

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appare paragonabile alla ben più epocale svolta co-creativa rappresentata dalla nascita di Wikipedia nel 2001.

Questo riferimento non vuole rappresentare una comparazione nel merito dell’autorevolezza dei due prodotti culturali, ma solo esplicitare come la caratteristica più distintiva del web 2.0 sia la sua dimensione di agorà partecipativa. Nella rete odierna, infatti, il valore non solo circola liberamente, ma viene anche prodotto in modo condiviso. Da un punto di vista socio-comunicativo, infatti, il cambio di paradigma più decisivo tra media tradizionali e media digitali è da collocare nell’evoluzione dei rapporti tra gli attori coinvolti nel processo discorsivo, che si equilibra secondo una logica maggiormente paritaria: quello che un tempo era il lettore dell’Enciclopedia Britannica (cartacea o online), con Wikipedia può cambiare le proprie prerogative ed il proprio ruolo, collaborando con altri individui alla costruzione e alla circolazione delle informazioni. Il discrimine cronologico è solitamente collocato attorno all’anno 2000, perché, più o meno casualmente, proprio a partire dall’implosione del Millennium Bug la rete ha cominciato a sviluppare le proprie funzioni di spazio conversazionale, accogliendo alcune delle piattaforme di intelligenza e creatività collettive oggi più affermate: Wikipedia, come detto, nel 2001; MySpace nel 2003; Facebook nel 2004; Youtube nel 2005. La scelta del Time di nominare “You”, ovvero l’utente attivo del web, come persona dell’anno 2006 può essere letta come la definitiva presa di coscienza pubblica del cambio di paradigma in atto. Il tributo offerto dal settimanale agli internauti che hanno contribuito all’espansione democratica della digitalsfera è spesso considerata la decisiva consacrazione della cultura della partecipazione come chiave di lettura fondamentale del sistema mediale contemporaneo.

La diffusa consapevolezza della presenza di una crescita dei soggetti attivamente coinvolti nell’interazione comunicativa comporta che anche lo stesso concetto massmediatico di “spettatore” possa apparire di fatto incongruente alla natura del web 2.0, tanto da suggerire a Frank Rose di sostituirlo con il termine più calzante di “partecipante”.204 Una lettura simile ha condotto

Alberto Contri a proporre una rielaborazione di una delle massime più emblematiche dell’era aurea della comunicazione da uno a molti, la celebre affermazione di Marshall McLuhan secondo cui “the medium is the message”, trasformandola in “the people is the message”. Nello stesso titolo del testo a cui faccio riferimento, l’autore si chiede se le posizioni del sociologo canadese siano ancora attuali, senza tuttavia mostrare nella trattazione di volerle archiviare; viceversa, appare intenzionato a confermare la direzione interpretativa, adattandola alle rinnovate logiche della contemporaneità: “nell’era della comunicazione ‹‹da tutti a tutti›› avviene invece che il pubblico sia il messaggio, dato che costituisce allo stesso tempo il percettore ed il vettore che si rende disponibile a veicolare la comunicazione ad altre persone”205. Nella stessa ottica, è possibile sostenere che nel web

collaborativo si sia sviluppata una vera e propria di economia della condivisione, basata sul fatto che il risultato di un’operazione co-creativa abbia una rilevanza sempre superiore al patrimonio contenutistico di partenza; in altre parole, nella digitalsfera il valore, sia esso informativo, comunicativo o narrativo,

204 FRANK ROSE, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet, Torino, Codice Edizioni, 2013, p. XVI. 205 A.CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., p. 66.

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non esiste a prescindere, ma è co-costruito e con-diviso, nella sua dimensione materiale e immateriale, attivamente nella complessa rete i relazioni tra le persone che vi partecipano [...] Appropriazione e godimento non possono avvenire, nella loro totalità, in assenza di partecipazione e coinvolgimento emotivo proprio e dell’altro.206

Il web così come lo concepiamo oggi si afferma quindi come un immenso spazio di esplorazione libera, dove un numero di soggetti potenzialmente infinito può produrre contenuti, condividerli e controllarne la diffusione in un meccanismo di continua ridistribuzione orientata alla riduzione dell’asimmetria comunicativa che aveva caratterizzato il panorama mediatico precedente. In quest’ottica, la rivoluzione 2.0 consisterebbe proprio nella possibilità dei dati in circolazione di diventare indipendenti dalla persona che li produce o dal sito in cui vengono creati.207 Tale

rivoluzione, come detto, possiede dei presupposti tecnologici indispensabili, come la crescita di potenza delle sovrastrutture informatiche e, parallelamente la loro convergenza all’interno di supporti sempre più alla portata di tutti, sia a livello di competenze strumentali sia di risorse economiche richieste. Basti pensare a come hanno abbattuto la distanza tra destinanti e destinatari delle informazioni l’utilizzo di device come il laptop e, soprattutto, lo smartphone; quest’ultimo, in particolare, è con pochi dubbi diventato il fulcro delle nostre attività comunicative, tanto da rendere la mobilità digitale la modalità di fruizione della rete di gran lunga più praticata. A questo proposito, un’altra delle caratteristiche distintive della digitalsfera può essere considerata proprio la sua ubiquità: la frequentazione di ambienti privi di fisicità e di legame con uno specifico hardware non avviene infatti grazie da un luogo di accesso univoco, ma può realizzarsi ovunque grazie a coordinate identitarie personali (l’account con le sue credenziali) che rappresentano il “simbolico colpo di grazia inferto alla dimensione dello spazio”208.

È tuttavia soprattutto degli effetti socio-culturali di questo fenomeno mediatico che è interessante occuparsi, perché esso ha comportato una trasformazione sostanziale dei comportamenti comunicativi individuali e anche, di conseguenza, delle modalità di codifica delle forme narrative. A livello di struttura profonda, ciò che rispetto ai media di massa e al web di prima generazione appare significativamente aumentato nei media digitali odierni sono il numero e la direzione dei vettori su cui viaggiano le informazioni. Come potrà suggerire lo schema proposto in 4.2.1 (lì posizionato perché più precisamente riferibile ai contesti organizzativi), i canali tradizionali si caratterizzano per un flusso discorsivo che da una singola origine si propaga in un solo senso a raggiungere un pubblico concepito come unità compatta, verso il quale spingere contenuti predeterminati (media push): i destinatari non possiedono potere conversazionale attivo e la relazione comunicativa appare perciò fortemente sbilanciata in senso verticale (top-down). Viceversa, nella digitaslfera, i messaggi sono generati da una pluralità di attori produttivi e viaggiano su percorsi multidirezionali; conquistando la possibilità di prendere parte alla diffusione delle informazioni, ogni utente attira il contenuto in base alle proprie intenzioni ed esigenze (media pull), interagisce con esso e lo rielabora in una logica di collaborazione tra pari (bottom-up). In una prospettiva narrativa, è del tutto usuale che “racconti iniziati o suggeriti dalle marche vengono

206 T.TUTEN,M.SOLOMON, Social media Marketing. Post-consumo, innovazione collaborativa e valore condiviso, op. cit., p. 1. 207 BERNARD COVA ET AL.,Marketing non-convenzionale, Milano, Il Sole 24 ore, 2008, p. 81.

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integrati, completati o totalmente reinventati dal pubblico”209. In questo modo, nella rete la

supremazia comunicativa (e diegetica) è annullata, e il discorso viene co-creato e perennemente ri- creato, secondo un modello che siamo portati a definire orizzontale.

La manifestazione più rappresentativa ed evidente di questa ridistribuzione delle gerarchie discorsive è probabilmente rappresentata dai cosiddetti User Generated Contents; gli UGC sono una

categoria nella quale converge una grande varietà di atteggiamenti creativi e produttivi i quali permettono ai destinatari di diventare una risorsa operante, spesso coinvolta direttamente dalle organizzazioni nella costruzione di senso, in modo funzionale al discorso di marca. In questo caso, si parla più propriamente di Consumer Generated Contents, i quali, come svilupperò meglio in 4.2.1, diventano uno strumento assai strategico per le imprese e le istituzioni che intendono assecondare il desiderio dei propri pubblici di relazionarsi e dialogare con loro. Nel complesso comunque, il web 2.0 sembra offrire inedite possibilità di espansione di alcune innate propensioni dell’uomo nella sua veste di animale sociale. I suoi habitat mediatici rispondono ad esigenze tra loro complementari, quali sono il bisogno di sicurezza ed appartenenza – attraverso forme di fruizione passiva – ed il bisogno di autostima e riconoscimento personale – attraverso forme di fruizione attiva: da un lato, infatti, stiamo online per uno stimolo di affinità, dall’altro, aspiriamo ad occasioni di auto-affermazione per coltivare il nostro status soggettivo.

Nell’arena digitale quindi, gli utenti sono alla ricerca di informazioni e di intrattenimento, ma anche di interazioni paritarie e, allo stesso tempo, di spazi di realizzazione individuale. Tutto ciò è reso possibile dalla molteplice offerta di relazioni comunicative differenti contenute in quell’unico ma eterogeneo ecosistema mediale che chiamiamo digitalsfera. In essa sono sperimentabili forme di interazione sincrona, condizionate cioè alla presenza simultanea degli interlocutori nello stesso habitat (come avviene nel caso di chat, conference call, giochi in streaming…), ma anche di forme di interazione asincrona, e quindi indipendenti da vincoli spazio-temporali. Queste ultime, probabilmente le più affermate, non rinunciano tuttavia ad una delle caratteristiche più evidenti dei media online, ovvero la tempestività e l’immediatezza della conversazione, che, assecondando una logica di perpetua attualità, agevola il radicarsi di forme di diffusione dei contenuti di natura virale.

Quello della viralità rimane per la verità un tema piuttosto articolato; per i professionisti della comunicazione digitale è infatti prassi comune tentare di rintracciare l’origine e le motivazioni dell’esplosivo dilagare di un determinato fenomeno, alla ricerca di un presunto “dna virale” in esso contenuto. Il successo delle operazioni online rimane tuttavia spesso imprevedibile nelle sue manifestazioni: rimanendo all’interno della metafora scientifica, vero è che più un virus si diffonde, più si rafforza, ma è forse necessario ammettere che le forme del contagio possono difficilmente essere stabilite a priori. Le buone prassi e i casi virtuosi (a cui gli analisti spesso si affezionano) appaiono interpretabili come tali soltanto una volta realizzatisi, ed è illusorio pensare che siano del tutto programmabili in anticipo: in questi casi è forse meglio ammettere la necessità di una sorta

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di serendipity, una contingenza di meriti e di casualità per la quale “nessuno poteva prevederlo, ma è semplicemente successo.”

All’interno della digitalsfera, è possibile fare un’ulteriore distinzione tra ambienti proprietari, i quali appartengono ad un soggetto che può disporne con una sostanziale autonomia creativa e contenutistica, e ambienti condivisi, nei quali l’utente, di fatto, è parte di una comunità, e in quanto tale deve adeguarsi a forme di utilizzo più o meno rigide, ma comunque condizionanti la sua libertà espressiva. Nei primi, come i blog personali, è più facile dare voce alla propria individualità nei modi ritenuti più coerenti alla propria volontà, ma è tendenzialmente più difficile aggregare un pubblico; viceversa, nei secondi, come i social media, è ben più facile essere trovati, ma non è altrettanto semplice essere ascoltati, per il maggior affollamento discorsivo che li caratterizza. Ad oggi, le abitudini di fruizione degli internauti sembrano preferire di gran lunga l’avvio di conversazioni all’interno di ambienti condivisi e, in particolare, di un numero sempre più limitato di piattaforme universalmente diffuse, conosciute con l’informale categoria di “giganti del web”. Questi ultimi, nei quali si produce e diffonde l’assoluta maggioranza di contenuto online, hanno reso l’industria del digitale più grande di ogni altro mercato, ma in esso, secondo una prospettiva critica, hanno assunto una posizione di assoluta egemonia. Accentrando in sé le connessioni e le attività, questi “tecno-cannibali”210 avrebbero quindi, secondo alcune letture, sottratto internet alla

sua natura di spazio libero, plurale e polifonico, posizionandosi essi stessi come hub mediatici all’interno del grande hub mediatico che è la rete.

In questo contesto, la grande maggioranza degli utenti è comunque da ritenersi complessivamente onnivora; in genere, frequenta cioè numerose piattaforme a disposizione (anche contemporaneamente), ciascuna con caratteristiche e finalità distintive, che possono passare dallo svago allo sviluppo di conoscenze, dal posizionamento professionale alla ricerca affettivo-amorosa. Quali sono, ad ogni modo, i costituenti più rappresentativi della rete nella sua dimensione di sistema orizzontale e co-creativo? Proprio in base alle forme di partecipazione messe a disposizione degli utenti, è possibile identificare tre macro-aree al cui interno posizionare gli habitat che meglio caratterizzano la generazione collaborativa del web; ciascuna di queste aree possiede modalità gestionali proprie ed offre strumenti relazionali specifici, ma è bene precisare che si tratta nel complesso di categorie sfumate ed in parte sovrapponibili: non è da escludere, infatti, che un determinato habitat mediatico possa includere al suo interno caratteristiche dell’una e congiuntamente dell’altra.

La prima è quella degli spazi cosiddetti wiki, la cui vocazione principale è data dalla costruzione condivisa della conoscenza, e dalla revisione paritaria dei contenuti. La seconda coincide invece con la blogosfera, l’insieme eterogeneo di quegli spazi proprietari di informazione, intrattenimento e dibattito in cui l’autorialità è circoscritta ad un singolo individuo o ad un numero limitato di persone; in essi, la conversazione è sempre avviata dal soggetto responsabile della piattaforma e per questo l’equilibrio discorsivo appare parzialmente sbilanciato in senso asimmetrico. I social media, invece, rappresentano da questo punto di vista lo spazio in assoluto più paritario, perché in

210 STEFANO VERGINE, Facebook, Amazon, Google e Apple. Ecco come i giganti hi-tech dominano il mercato mondiale, L’Espresso, 27 agosto 2015. bit.ly/2Uj8BQK

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essi la potenzialità creativa e produttiva è equamente distribuita tra tutti i singoli utenti della comunità. Ad essi, per la posizione centrale che hanno inequivocabilmente assunto nella digitalsfera contemporanea, ma anche per il ruolo che si sono ritagliati nella definizione delle nuove forme di narrazione organizzativa, è appropriato dedicare una trattazione più estesa.

4.1.1 – I social media come spazi di conversazione tra pari

Nonostante si possa ragionevolmente sostenere che un’assoluta maggioranza degli individui che popolano la rete ne faccia costantemente esperienza diretta, circoscrivere una categoria così ricca di possibili declinazioni qual è quella dei social media si presenta come un esercizio meno scontato di quanto si possa immaginare. Essi rappresentano una realtà complessa ed eterogenea, nella quale trovano accoglienza piattaforme generaliste, note a tutti e contenutisticamente trasversali, così come altre più settoriali, incentrate cioè su temi o interessi specifici, e rivolte quindi a segmenti di pubblico più circoscritti. In più, la loro natura dinamica determina uno scenario in costante e rapida evoluzione, caratterizzato da innovazioni, perfezionamenti, modifiche senza soluzione di continuità: una condizione di perenne fermento che non può che complicare la definizione di confini stabili. Volendo utilizzare un approccio inclusivo, possiamo attribuire una vocazione socialmediatica a tutte quelle applicazioni digitali che offrono agli utenti uno spazio comune in condivisione, al cui interno ciascuno può codificare la propria identità personale e, attraverso essa, entrare in connessione con altre individualità. Le interazioni possono avvenire in modo diretto (da uno a uno, o comunque da uno a pochi), attraverso strumenti come le direct mail o gli instant messages, o in modo pubblico, sfruttando le potenzialità di numerose piattaforme di veicolare un messaggio in modo indiscriminato alla totalità della propria rete, sotto forma di aggiornamento di stato.

L’aspetto imprescindibile è quindi quello di mettere i propri utenti nelle condizioni di coltivare relazioni tra pari svincolate da una dimensione di fisicità: in quest’ottica, tali canali sono da intendersi come un’espansione (e non una sostituzione) del mondo reale, nella quale gli stimoli conversazionali possono provenire da soggetti già noti come da soggetti non noti. Fondamentale è però l’assenza di quella gerarchia discorsiva rigidamente unidirezionale che caratterizzava i media di massa, sostituita da una logica “da tutti a tutti”, a garantire a ciascuno il diritto di parola e il