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Una delle posizioni argomentative che sono state, implicitamente o esplicitamente, portate finora avanti nel corso della discussione sostiene la possibilità di approcciare la comunicazione d’impresa e la comunicazione istituzionale attraverso paradigmi interpretativi comuni. In virtù di questo, categorie tipiche del mondo corporate sono state utilizzate in modo intenzionalmente inclusivo, andando a definire un modello di storytelling disponibile ad essere declinato anche in contesti organizzativi senza scopo di lucro. Per questo, essendo arrivato il momento di svolta tra la parte prevalentemente teorica della tesi e la parte prevalentemente pratica, tenterò di verificare la validità del metodo finora descritto attraverso una sua messa alla prova. Proverò cioè a dimostrare come anche le istituzioni, e in particolare le università, possano condurre operazioni di comunicazione ad approccio narrativo strutturalmente paragonabili a quelle aziendali. In altre parole, l’intenzione quindi è di far emergere come per tali organizzazioni sia possibile - e in certi contesti pienamente strategico - articolare dei veri e propri discorsi narrativi di marca, adottando comportamenti caratteristici di quelle istanze di mercato che con più naturalezza chiamiamo brand.

Infatti, senza voler in nessun modo ignorare la peculiare funzione socio-culturale delle università, che evidentemente prescinde da logiche di tipo economico, è ormai una prassi consolidata pensare al loro funzionamento con un approccio aziendalistico, importando nelle loro dinamiche modelli gestionali tipici delle imprese di profitto. Tale tendenza è stata dibattuta con particolare attenzione durante la Conferenza dei Rettori del 2005, nel cui contesto si è presa coscienza di un accresciuto sentimento di competitività tra gli atenei italiani. Le cause di questo orientamento sono in gran parte rintracciate nella riforma governativa del cosiddetto 3+2, che, a partire dagli anni ‘2000, avrebbe costretto gli atenei ad una vera e propria “corsa alla matricola”, con notevoli ed inevitabili stravolgimenti delle politiche di reclutamento. Come è intuibile, e come emerge anche dal volume miscellaneo che di questa conferenza rappresenta il risultato concettuale269, tale clima ha coinvolto

e trasformato soprattutto, il settore organizzativo della comunicazione verso l’esterno. Come sottolineato da Alessandro Lovari, in quegli anni, “le attività di comunicazione venivano infatti curate da strutture spesso di nuova istituzione, con la presenza di consulenti provenienti dai media o dalla pubblicità”270, che adattavano pratiche d’impresa e strategie di branding al contesto

accademico.

Volendo abbozzare una panoramica del sistema comunicativo degli atenei italiani nei primi anni ‘2000, la percezione generale che emerge è di uno scenario eterogeneo, ma tendenzialmente

269 MAURIZIO BOLDRINI,MARIO MORCELLINI (a cura di), Un'idea di Università. Comunicazione universitaria e logica dei

media, Milano, Franco Angeli Editore, 2005.

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caratterizzato da modalità di relazione con i propri pubblici ancora piuttosto tradizionali. Quella che Lovari chiama la stagione d’oro della comunicazione universitaria appare, infatti, una fase basata su budget oggettivamente elevati, destinati a mezzi cartacei, radio e tv d’ateneo, attività di public relations, merchandising e campagne pubblicitarie estensive, “indirizzate all’opinione pubblica e agli opinion maker, piuttosto che calibrate su target specifici come gli studenti potenziali e le loro famiglie”271. Nel complesso, tali scelte strategiche appaiono poco orientate al dialogo con

la comunità studentesca presente o futura, che dovrebbe essere, di fatto, la platea privilegiata del discorso della marca-università.

In seguito però, in modo curiosamente contemporaneo all’arrivo in Italia della grande recessione (e quindi dei tagli di budget alla comunicazione), comincia a manifestarsi quello che è considerabile il più significativo aggiornamento nei comportamenti comunicativi recenti degli atenei: la colonizzazione dei social media e del web 2.0. Secondo uno studio Nexa, proprio nel biennio 2008- 2009 si colloca infatti lo sviluppo dei primi presidi sui canali partecipativi da parte delle istituzioni accademiche, situazione che nei tre anni successivi avrebbe assunto le forme di una vera e propria istituzionalizzazione selvaggia dei vari Facebook, Twitter, Youtube.272 Rispetto ai macro-atenei, più

precoci a intuire l’evoluzione delle forme di consumo mediale e di information scouting da parte degli studenti sembrano essere le realtà medio-piccole, più sensibili allo sviluppo di un rapporto diretto con gli studenti e, di conseguenza, più ricettivi alle potenzialità dei nuovi strumenti dialogici. Nel complesso comunque, a oltre un decennio di distanza, il posizionamento degli atenei italiani sui social media risulta ormai una condizione del tutto consolidata, e la loro animazione è un’attività del tutto integrata nei communication mix degli uffici competenti. La corsa al popolamento dei nuovi habitat mediatici rappresenta, quindi, il condivisibile tentativo di superare la mediazione dei canali di massa nelle conversazioni con gli studenti, durante tutto il ciclo della loro vita accademica, dalla pre-immatricolazione al passaggio ad alumni nella fase post-laurea.

La percezione, tuttavia, è che il senso d’urgenza con cui le istituzioni accademiche hanno affrontato tali nuove opportunità discorsive non abbia permesso di assimilarne e sfruttarne al meglio le potenzialità relazionali, in linea con quell’atteggiamento descritto in 4.2 come tra-digitale. Questo anche a causa del bagaglio di storici difetti strutturali, come la mancanza di personale digitalmente alfabetizzato e la connaturata resistenza al cambiamento delle organizzazioni complesse. Tali caratteristiche, unite alla perplessità di dare spazio alle voci potenzialmente critiche sembra aver condotto gli atenei ad un uso dei media digitali ancora piuttosto conservativo, secondo una logica top-down scarsamente partecipativa, che non lascia particolare spazio a forme di condivisione e di dialogo, e non supera quindi la verticalità asimmetrica dei canali comunicativi consolidati. In sostanza, il modello discorsivo offerto dai social media è stato accolto solo nei suoi aspetti più istituzionali, senza che abbia dato vita, almeno nella maggior parte dei casi, ad un rinnovato patto comunicativo tra università e pubblici di riferimento.

L’idea del format StoryLab nasce proprio in questo contesto. A partire da un’esigenza – non necessariamente esplicitata, per la verità – di rinnovamento dei codici di comunicazione

271 Ibid.

272 FIORENZA OPPICI ET AL., Social University - Le università italiane sui social network, Nexa Working Paper, 1 (2014).

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organizzativa, si è infatti pensato di sperimentare modalità di costruzione e distribuzione del discorso di marca-università più autenticamente in linea con le caratteristiche della digitalsfera. Di conseguenza, la volontà di immaginare forme discorsive nuove si è unita all’esigenza (centrale nel mio percorso di apprendistato) di mettere in pratica il sistema di competenze accumulate, attraverso una prova pratica di quanto formalizzato. Questa intenzione ha dato vita ad un progetto operativo di storytelling istituzionale, strutturato per una diffusione online, dallo stile informale (si potrebbe dire “laboratoriale”, coerentemente al nome dell’iniziativa) e aperto ad un linguaggio più vicino alla sensibilità dei suoi destinatari privilegiati, ovvero gli studenti. A livello intenzionale quindi, al di là delle specifiche declinazioni del format, si potrebbe nel complesso dire che StoryLab ha voluto rappresentare il tentativo di sviluppare, all’interno di un contesto accademico, una comunicazione maggiormente orientata al dialogo e alla co-partecipazione. Come ora vedremo, tale intenzione si è concretizzata in un sostanziale cambio di prospettiva enunciativa: concedendo cioè l’opportunità agli stessi studenti di appropriarsi del discorso istituzionale, parlando in prima persona ai propri pari di determinati aspetti della vita universitaria.