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Oltre ad intervenire nelle dinamiche delle interazioni individuali, i media digitali possono agire con potenzialità inedite anche nel rapporto tra i brand e i destinatari del loro discorso, siano essi consumatori, come nello specifico caso delle imprese di mercato, o più generalmente soggetti esterni portatori d’interesse, come avviene nel caso di qualsiasi realtà organizzativa con o senza scopo di lucro. Ai giorni nostri, che l’uso di risorse comunicative online nella generazione complessiva di un discorso di marca sia una scelta strategica opportuna è ormai una condizione che possiamo ritenere difficilmente discutibile. E in effetti, la necessità di presidiare la digitalsfera può essere considerato un fatto assodato per la stragrande delle imprese e delle istituzioni, le quali, tuttavia, spesso ritardano nel comprendere l’autentico potenziale relazionale (e narrativo) di questi canali. Nell’ultimo decennio in particolare, si è assistito ad una corsa affannosa alla colonizzazione organizzativa dei social media, non sempre sostenuta però da uno sforzo di apprendimento dei codici comunicativi adatti; un atteggiamento che non ha fatto altro che trasferire forme e contenuti vecchi ad ambienti nuovi. Tale comportamento è l’esito di un approccio conservativo che rischia di non ripagare le risorse investite nella “trasformazione digitale”, e persino di essere controproducente in termini di credibilità.

Possiamo considerare a tutti gli effetti errato, infatti, “considerare la tecnologia un mero fatto di moda, oppure credere che la tecnologia stessa sia un contenuto, e che basti usarla per avere successo, senza metterla al servizio delle idee e della creatività”216; nel web partecipativo, in altre

parole, non basta esserci tanto per esserci, ma bisogna saperci stare, in un modo che sia strategico, coerente, maturo e pianificato. Per le realtà che intendono andare oltre il semplice “seguici!”, diventa quindi necessario ripensare complessivamente le logiche di relazione tra marca e persone, e tra persone e persone a proposito della marca. Nel web partecipativo infatti, discorsi organizzativi e discorsi individuali si intrecciano e conversano, in un meccanismo di produzione condivisa di senso nel quale una molteplicità di soggetti processano informazioni e le consumano criticamente, ri-codificando continuamente il messaggio. Tale fenomeno spesso associato alla definizione di prosuming, avviene in modo spontaneo, secondo dei modelli di gestione più aperti, democratici ed inclusivi; grazie alla naturale predisposizione a far emergere creatività e intelligenza collaborativa tipica degli habitat digitali, questi ultimi divengono “mezzi di ibridazione e condivisione tra competenze e nuove conoscenze ideative e applicative che permettono di ampliare la capacità relazionale e cognitiva di un’impresa”217.

216 A. CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., p. 22.

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Ma in che modo è possibile governare il racconto organizzativo all’interno di spazi in cui milioni di individui vogliono, con pieno diritto di farlo, dire la loro? Per affrontare con efficacia la rete, valorizzandone a pieno le potenzialità, da parte delle imprese e delle istituzioni è necessario accettare l’idea di una inevitabile perdita di controllo discorsivo. La consapevolezza di un sostanziale cambio di paradigma è emerso con assoluta evidenza e precocità nel Cluetrain Manifesto, un celebre pamphlet firmato da un gruppo di comunicatori professionali composto da Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger. Diffuso online nel 1999, esso ha avuto notevole eco, tanto da trovare successiva pubblicazione in un libro tradotto anche in italiano.218 La

sua prospettiva interpretativa si focalizza sull’impatto che i media digitali hanno avuto nello specifico ambito dei mercati, che vengono descritti come attraversati da un fermento umanistico che rimette al centro le individualità degli utenti, riposizionando il baricentro delle conversazioni nel web. Il testo, realizzato con uno stile enfatico e visionario, è organizzato in 95 tesi, proclamandosi così come una proposta di riforma delle relazioni mediatiche di ispirazione luterana. Il Manifesto, in sostanza, elenca una serie di cambiamenti richiesti alle organizzazioni che vogliono entrare in contatto con i propri consumatori nel rinnovato contesto della digitalsfera. Il messaggio centrale è che i mercati sono conversazioni (1), sono fatti di esseri umani e non di segmenti demografici (2), e stanno così facendo nascere nuove forme di organizzazione sociale e di scambio della conoscenza (9). In un climax di entusiasmo provocatorio, gli autori decretano che, di fatto, le imprese che parlano il linguaggio dei ciarlatani già oggi non stanno più parlando con nessuno (16): “il linguaggio tronfio e gonfio con cui parlate in giro - sulla stampa, ai congressi - cos’ha a che fare con noi?” (68); e ancora: “volete i nostri soldi? Vogliamo la vostra attenzione.” (78). Per quanto si tratti di un testo ormai datato, è da ritenersi ancora una delle più significative teorizzazioni dell’impatto dei media digitali sull’universo della comunicazione organizzativa; tenendo in considerazione il linguaggio volontariamente sfidante – e a tratti bonariamente bellicoso –, ciò che emerge complessivamente è la consapevolezza della necessità di rinegoziare la relazione tra brand e consumatori, alla luce delle nuove possibilità offerte dal web partecipativo.

La sfera di influenza per ciò che riguarda le conversazioni nel web appare spostarsi sempre più nel campo degli utenti, i quali riducono sempre più i confini dell’egemonia comunicativa delle marche. Per vivere e prosperare nella contemporaneità, queste ultime hanno quindi bisogno “di un discorso portato avanti dagli stessi consumatori, che valuteranno, giudicheranno, si emozioneranno e faranno la sua fortuna o la sua disgrazia secondo il loro punto di vista”219. Il flusso del discorso

organizzativo ha moltiplicando i propri vettori di diffusione, e il nuovo sistema che regola la relazione tra destinanti e destinatari si traduce, in una prospettiva storytelling-oriented, nella tendenza a passare da una forma di supremazia narrativa, asimmetrica e verticale, ad una di condivisione narrativa, fondata sul contributo plurale e su comportamenti collaborativi:

218 RICK LEVINE ET AL., Cluetrain manifesto: la fine del business as usual, Roma, Fazi Editore, 2001.

219 A. CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., p. 22.

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le imprese hanno potuto dialogare direttamente con i propri clienti, mentre i consumatori si sono visti sbloccare in mano la possibilità di scegliere, chiedere, pretendere, il che ha comportato anche un importante mutamento nelle tecniche di comunicazione.220

La necessità di un mutamento interpretativo, ma anche strutturale, dell’offerta mediatico appare una percezione consolidata da tempo se, ad esempio, già nel 1995 George Gilder teorizzava il superamento della televisione, intesa come esperienza di fruizione e modello distributivo.221 Col

senno di poi, tale previsione si è rivelata per certi versi avanguardistica, ma neanche troppo se pensiamo a quanto il potere attrattivo di internet sia cresciuto a scapito proprio della tv tradizionale (e di tutto il sistema massmediatico), come accertato da innumerevoli indagini statistiche, e come anche percepibile nelle nostre esperienze empiriche di consumatori mediali.

Le conseguenze di ciò nell’ambito della comunicazione di marca sono evidenti, ed hanno ribaltato, ad esempio, il modello di advertising novecentesco, basato sull’assimilazione passiva di un messaggio da parte di un pubblico inerte davanti allo schermo, descritto con la categoria antropologica della couch potato. La caratteristica più felice della tv dal punto di vista pubblicitario era proprio la sua abilità di offrire alle marche milioni di occhi puntati sui loro messaggi: l’organizzazione del palinsesto seguiva queste regole e scatenava una guerra alla concorrenza per l’audience. Con la digitalsfera, si è invece assistito al passaggio dal broadcasting, basato sulla presenza di una massa omogenea di destinatari di fronte al medesimo contenuto unidirezionale, al narrowcasting, ovvero alla creazione di un’esperienza di fruizione altamente personalizzata in termini temporali (introduzione dell’on-demand) e contenutistici (moltiplicazione dell’offerta). La netta frammentazione del panorama mediatico contemporaneo ha creato non poco allarmismo nell’industria della comunicazione, che ha verificato come il suo approccio consolidato non fosse più sostenibile; già nel 2003, il presidente di Coca-Cola, Steven Heyer, sosteneva come fosse necessario “andare oltre i trenta” – intesi come i secondi solitamente dedicati ad uno spot tradizionale – accettando che, di fatto, “la tv non è più il medium di riferimento”222.

C’è da tenere conto, tuttavia, che imprese della statura di Coca-Cola possiedono strumenti e risorse che permettono di leggere i segnali di trasformazione con una prontezza non sempre possibile per realtà organizzative più ordinarie. Come già detto infatti, la ricettività su questo tema da parte degli operatori della comunicazione organizzativa non è sempre assoluta, e può dare luogo ad atteggiamenti conservativi nell’uso dei media digitali. Di norma, all’interno delle imprese e (soprattutto) delle istituzioni, esiste spesso un gruppo più resistente alle innovazioni, che conserva una fisiologica prudenza nell’abbracciare il cambio di paradigma discorsivo, soprattutto se generato spontaneamente dal basso: “ogni nuovo mezzo espressivo, dalla stampa fino alla televisione, ha aumentato l’incantevole potere della narrazione. E ogni nuovo mezzo espressivo o di comunicazione, al suo esordio, ha sempre suscitato paura e ostilità”223. La scarsa padronanza di

codici ritenuti tendenzialmente non convenzionali, che dovrebbe per la verità condurre le marche a sperimentare forme conversazionali inedite, può condurle invece ad adattare modelli discorsivi

220 Ivi, p. 10.

221 GEORGE GILDER, La vita dopo la televisione, Roma, Castelvecchi, 1995.

222 F. ROSE, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet, op. cit., p. 200. 223 Ivi, p. 28.

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tradizionali ad habitat che invece non lo sono, sfociando in comportamenti catalogabili come tra- digitali. Allo stesso modo, è ancora possibile attestare all’interno dei processi decisionali una sorta di subordinazione concettuale (e anche strategica) delle operazioni comunicative sul web a quelle condotte nei più familiari spazi massmediatici:

Gli operatori di questo nuovo settore riferiscono che non è infrequente incontrare aziende che si rifiutano di pagare più di 1500-2000€ per un video di tre minuti da postare su Facebook o su Youtube. Il che è una follia; si è disposti a pagare centinaia di migliaia di euro per produrre uno spot e milioni di euro in spazi per la sua programmazione, e poi a un prodotto audiovisivo destinato anche ai giovani (consumatori di oggi e di domani) si destinano briciole.224

In questo contesto interpretativo, alle imprese e alle istituzioni che, come ammoniva il Cluetrain Manifesto, non vogliono essere marginalizzate nei mercati conversazionali odierni, non resta che dare piena legittimazione a modalità di relazione con i propri pubblici basate sul dialogo e sul confronto paritario. Accettando senza eccessivi drammi la perdita del monopolio discorsivo su ciò che le riguarda, le organizzazioni possono così aprirsi alla possibilità che il consumatore (inteso sia come fruitore di prodotti/servizi sia di informazioni/narrazioni) contribuisca attivamente ai loro processi di significazione e, di conseguenza al loro miglioramento emotivo, valoriale, identitario. Un equilibrio inedito che, per come è stato presentato, permette di rivedere anche la complessiva struttura formale attraverso cui possiamo leggere le interazioni comunicative tra destinanti e destinatari del discorso di marca.

4.2.1 – Nuovi vettori della comunicazione organizzativa

I diversi aspetti indagati finora appaiono, nel loro insieme, complessivamente orientati ad argomentare come l’ecosistema mediatico che chiamiamo digitalsfera abbia modificato i comportamenti comunicativi sia dei singoli individui, sia di quegli eterogenei gruppi umani rappresentati dalle organizzazioni complesse. In risposta ad esigenze di sistematicità, questo insieme di spunti sparsi può (e deve) essere ricondotto ad una formalizzazione che ne espliciti i caratteri fondamentali, anche evidenziando le discontinuità tra i sistemi mediatici tradizionali e quelli costitutivi del web partecipativo. In 3.2 ho introdotto una schematizzazione funzionale alla descrizione di una struttura canonica di comunicazione storytelling-oriented. A partire da quella proposta concettuale, è possibile ora presentarne un’integrazione che, tenendo conto delle posizioni emerse in questo capitolo, accolga le inedite condizioni che le imprese e le istituzioni si trovano a fronteggiare negli habitat digitali. L’intento si concretizza così in un nuovo modello vettoriale che descrive la relazione dialogica tra le organizzazioni e i loro interlocutori, in una prospettiva narrativa ma non solo. Tale modello acquisisce significato soprattutto in una lettura comparativa, in grado di far emergere il cambio di paradigma verificatosi nei canali che abbiamo definito orizzontali, in confronto a quelli verticali.

224 A. CONTRI, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, op. cit., p. 37.

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Possiamo associare a ciascuna freccia presente una distinta linea di diffusione di un messaggio di marca; la stessa linea specifica la direzione vettoriale dell’informazione, identificando gli attori coinvolti nella relazione comunicativa ed attribuendo loro i ruoli formali di destinante e destinatario. Nella parte sinistra dello schema, che descrive il modello discorsivo tipico dei media di massa, è presente una sola retta, che si origina all’interno dei confini organizzativi per iniziativa della marca stessa, e si indirizza al suo esterno, verso un pubblico concepito in modo omogeneo. In questo caso, il brand possiede un primato discorsivo nei confronti dei suoi interlocutori, ai quali non è concesso di prendere parte alla produzione di significato. Ben più complessa appare invece la situazione presentata nella parte destra dell’immagine, a cui è affidato il compito di descrivere essenzialmente le dinamiche comunicative vigenti all’interno degli habitat digitali partecipativi. È possibile sottolineare innanzitutto una proliferazione di soggetti coinvolti nel processo, esito di una frammentazione del pubblico in una molteplicità di utenti individuali, ciascuno dei quali è protagonista di specifiche forme di interazione, sia con la marca sia con altri pari.

Questo affollamento dà vita ad una struttura discorsiva che appare decisamente più ramificata, composta da linee di congiunzione potenzialmente infinite e, soprattutto caratterizzate, a differenza dei sistemi massmediatici, da una vettorialità a doppio senso. Ciò comporta, da un lato, che i ruoli di destinante e destinatario non siano più attribuibili in modo univoco, e dall’altro, che anche al di fuori dei confini organizzativi si possano generare energie creative attivamente coinvolte nella produzione del messaggio. In altre parole, lo schema restituisce una struttura che da unidirezionale diventa evidentemente pluridirezionale: accanto ad un andamento interno  esterno, si manifestano due direttrici inedite, che si originano al di fuori dei confini di controllo organizzativo, e procedono rispettivamente esterno  interno ed esterno  esterno. In quest’ultimo caso, è da sottolineare come il discorso sulla marca possa avvenire anche a prescindere da un suo coinvolgimento diretto, tra singoli utenti. In quest’ultimo caso, le interazioni possono manifestarsi liberamente oppure all’interno di communities circoscritte, spazi di aggregazione tribale che gli internauti scelgono volontariamente di popolare, caratterizzati da un’identità riconoscibile, regole e confini precisi. In generale comunque, i media partecipativi sembrano allestire una struttura relazionale a rete, nella quale la marca mantiene il ruolo di fulcro discorsivo, ma le informazioni viaggiano con un moto che è allo stesso tempo centrifugo e centripeto, dal centro verso la periferia e viceversa.

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Nel complesso quindi, dalla sistematizzazione proposta nello schema emerge un sostanziale ri- bilanciamento degli equilibri del discorso di marca, a cui corrispondono nuovi e più articolati meccanismi di significazione ed un effettivo assottigliarsi della supremazia comunicativa del brand nei confronti dei suoi interlocutori. Accettando queste dinamiche, diviene consigliabile alle organizzazioni di assecondare modalità di interazione co-creativa, dando luogo a storie concepite nella logica della condivisione narrativa: ciò può avvenire cedendo una parte di responsabilità espressiva ai propri destinatari e rivolgendosi loro per ri-codificare la propria proposta di senso. Le modalità privilegiate in cui questa forma di coinvolgimento può manifestarsi sono riconducibili alla già introdotta categoria di Consumer Generated Contents, nella quale trova accoglienza una grande varietà di prodotti comunicativi circolanti in rete, realizzati per iniziativa spontanea degli utenti. Con i CGC, i consumatori, da intendersi sia in senso economico (come fruitori di prodotti/servizi)

sia più ampiamente in senso mediale (come fruitori di messaggi), amplificano le energie creative a disposizione delle marche, occupandosi autonomamente della progettazione e diffusione di contenuti ispirati, orientati o comunque in qualche modo riconducibili alla marca stessa.

Queste manifestazioni possono avere un legame più o meno esplicito con le organizzazioni cui si riferiscono, e sono solitamente distinte tra organiche, quando corrispondono ad un’iniziativa individuale totalmente volontaria, e incentivate, quando invece rispondono ad uno stimolo ricevuto dall’impresa-istituzione in forme variabili. Non sempre la differenza tra le due categorie è evidentemente percepibile, condizione che può creare elementi di disturbo e disorientamento per i destinatari, talvolta non in grado di determinare l’autenticità del CGC che hanno di fronte. Non si

tratta di una questione semplicemente formale, ma anche di un problema di trasparenza comunicativa nei confronti dei consumatori; può capitare infatti che la provenienza “dal basso” di un dato messaggio sia solo simulata, mentre invece il discorso è pienamente concordato con l’organizzazione, dando vita “a vere e proprie pratiche di contraffazione del contenuto, presentato come espressione autentica dei consumatori quando non lo è”225. La pratica dell’influencer

marketing, per la quale utenti tendenzialmente autorevoli sono pagati per produrre contenuti brandizzati, è ad esempio assai diffusa, ma sfugge ancora ad una regolamentazione che la renda riconoscibile come tale; la Federal Trade Commission americana si sta muovendo in questo senso, stabilendo che anche nella digitalsfera “i blogger devono rivelare qualsiasi compenso ricevuto in cambio della recensione di un prodotto, regola che vale già per TV, giornali e riviste”226.

Proprio a proposito di CGC e di chiarezza interpretativa, è attestabile il tentativo di sistematizzare

e circoscrivere il fenomeno, classificando le diverse forme di contenuti user-generated in base ai diversi gradi di autonomia e, viceversa, di controllo organizzativo in essi riscontrabili. Una proposta autorevole arriva, anche in questo caso, da Tracy Tuten, che già nel 2008 identificava sei distinte modalità espressive provenienti dall’esterno dei confini di marca.227 L’autrice distingue innanzitutto

i Consumer Generated Media, intesi come giudizi, opinioni, recensioni dei consumatori su prodotti e servizi, dai più complessi Consumer Generated Multimedia, caratterizzati da una maggior ricchezza creativa e dall’uso di modalità di intrattenimento più sofisticato. I Consumer Solicited Media

225 J.SASSOON, Web storytelling. Costruire storie di marca nei social media, op. cit., p. 29.

226 T. TUTEN, M. SOLOMON, Social media Marketing. Post-consumo, innovazione collaborativa e valore condiviso, op. cit., p. 169. 227 T. TUTEN, Advertising 2.0: Social Media Marketing in a Web 2.0 World, London, Praeger, 2008, pp. 101-104.

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rispondono invece a stimoli di natura generalmente ludica, proposti dal brand come parte di una strategia comunicativa consapevole, fattore che li rende maggiormente dipendenti da dinamiche organizzative rispetto ai precedenti. Sono definibili Incentivized Consumer Solicited Media quando sono assimilabili a veri e propri concorsi con una logica premiante, anche in denaro: “crea la tua pubblicità e vinci un’automobile!”. Nel caso dei Consumer Fortified Media, il controllo discorsivo cresce ulteriormente, perché con essi è incentivata la realizzazione guidata di prodotti a supporto e/o su inspirazione di un contenuto centrale proposto direttamente dall’impresa o dall’istituzione. Infine, con Compensated Consumer Generated Media Tuten descrive quelle forme di ambigua collaborazione tra brand ed utenti che prevedono accordi economici e che, come detto prima, non rendono del tutto leggibile la spontaneità e l’autenticità del messaggio.

Per quanto quindi i social media, e più in generale tutti gli spazi collaborativi del web, rappresentino uno straordinario bacino di creatività che permette l’accesso a sollecitazioni e stimoli di ogni tipo, è però giusto sottolineare che i meccanismi di partecipazione su cui tale fenomeno si basa portano con sé delle potenziali criticità. Quella che per gli utenti rappresenta la possibilità di “co-produrre la propria offerta e di permeare la propria esperienza di consumo con significati personalissimi”228,

diventa, dal punto di vista organizzativo, un elemento difficilmente controllabile, che rischia di diluire l’identità di marca, di squilibrare il sistema valoriale e di confondere la cultura di riferimento. Per evitare questi cortocircuiti comunicativi, un approccio praticabile può puntare a coinvolgere nella co-creazione solo i consumatori riconosciuti come più fedeli, coloro che, avendo identificato il brand come lovemark, ne conoscono a fondo lo spirito e sono quindi più portati ad alimentarne positivamente il racconto. Individuare nuclei narrativi appetibili per il proprio pubblico e lasciare che li alimentino, ottenendo la loro collaborazione spontanea, è infatti, in una strategia comunicativa online, un passaggio da gestire con attenzione per evitare il proliferare di narrazioni