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In buona compagnia: doni, lasciti e gioielli di famiglia

Capitolo terzo

1. In buona compagnia: doni, lasciti e gioielli di famiglia

MIRELLA

Età: 79

Località dell’abitazione: Porta a Mare, prima periferia di Pisa Composizione del nucleo familiare: vedova, due figli

Attività: casalinga/pensionata Data della visita: 04/01/2008

Mirella vive da sola come usufruttuaria in un appartamento costruito intorno agli anni ’60 in un quartiere della prima periferia di Pisa. Risiede in questa casa da circa trent’anni, a seguito del matrimonio col marito che ha sposato in seconde nozze. Rimasta vedova alcuni anni fa, conserva ancora gli arredi e gli oggetti acquistati dalla coppia durante i primi anni della loro vita insieme; altre suppellettili provengono dalla sua famiglia di origine o sono regali ricevuti da amici e parenti. Il tour della casa è proceduto abbastanza rapidamente eccetto che di fronte alle credenze del salottino e della sala da

pranzo, dove l’intervistata si è spontaneamente soffermata più a lungo. Ogni oggetto descritto ha riportato alla luce ricordi e racconti legati a persone care, evidenziando un legame tra individui e cose che sembra essere tanto vivo oggi come un tempo.

Dal diario di campo:

“Io c’ho tutto ... E’ tutto qui!” - Il mondo di Mirella è tutto dentro le credenze con gli oggetti a lei cari. Tutto si riassume in questa frase che lei ripete più volte nel corso dell’intervista.

E’ con fare cauto e prudente che intraprendiamo l’intervista alla signora Mirella. Non solo perché si tratta della prima intervista, bensì a causa delle attente precauzioni che i familiari ci hanno suggerito di adottare: dopo la morte del marito la signora vive in quella casa da sola, con tanto bisogno di incontrare persone e tuttavia con una certa difficoltà a parlare del lutto e dei trascorsi personali. L’entusiasmo dovuto alla nostra presenza ci agevola nel superare l’imbarazzo iniziale, e tra un preambolo e l’altro il tour della casa prende il via, precisamente dalle stanze del reparto notte. Nella camera da letto matrimoniale sono collocate la maggior parte delle foto del marito; la signora le sorvola, ignorandole, e noi soprassediamo, spostandoci con circospezione per non imbatterci in spiacevoli gaffe. La seconda camera offre l’occasione per due brevi accenni ai propri cari defunti: c’è un lettino da una piazza, Mirella ci dice di averci dormito alcune notti quando suo marito, in precarie condizioni di salute, veniva accudito da un infermiera nell’altra stanza; poi indica una foto poggiata sul comò, è quella del fratello deceduto

indistintamente, come lei stessa specifica. Fulcro di entrambi sono le grandi credenze, che una volta aperte lasciano fluire una serie continua di racconti relativi agli oggetti che la nostra interlocutrice sceglie di mostrarci:

Questa … la sig.ra Cinci, la mamma di Giovanna … questa, perché l’andavo a fa’ … a cuocere il riso perché … si sentiva male, mi fece questa … vedi, tutta di Capodimonte […] Questo lo metto a volte coi formaggi, o quando c’è i dolci a volte lo metto, Graziella mi fa: o’ com’è bellino! E’ della mi’mamma, questo [… ]

Mirella ha perfetta memoria della provenienza di tutte le suppellettili che estrae dai ripiani della credenza, e ci descrive aneddoti a essi legati riportando con precisione anche dialoghi e nomi di persone, per la maggioranza a noi ignote:

Per esempio, questo servito da pesce è da’ssei, ma me lo fecero le cugine della mia mamma, Lisa e Bruna, sai? Tante cose c’ho di loro, tante e belle, di porcellana … le prendevano dal Marchi in Borgo Largo, eh! […] Questa qui è una cosa che mi portò il mi’fratello[…]Quelle lì so’state

comprate a S. Anna … queste me l’ha regalate Maria … capito? […] Quelle là la moglie del dottore […]

Nel giro di pochi minuti ci ritroviamo direttamente coinvolti in vicende a cui non abbiamo mai preso parte, sebbene l’intervistata non sembri curarsene più di tanto; gli oggetti hanno attivato un flusso di storie difficile da interrompere, e il giro taciturno della casa si è arrestato ora su una fitta lista di nomi di persone e di luoghi, che non possiamo far altro che figurarci: ecco la signora Cinci, la mamma Velia, Lisa e Bruna, il Dottor Macchia, Emilio, Maria, Lori, la “nora” di Maria, la moglie del dottore, Graziella e Luciano e “le bimbe di su”; e poi ci sono anche ipotetiche botteghe come quella del Graziani, l’Orsini, il Marchi, e così via.

Ciò che colpisce è il contrasto con l’atmosfera che precede l’apertura delle credenze: non è stato rotto solo il silenzio, ma anche la solitudine di questa gioviale signora.

Ric.: - Ha sempre usato la lavastoviglie o … ?

Mirella: - Un po’ la la uso, una volta alla settimana, e n’po’ faccio a mano per

perde’più tempo, eh …

Mirella in effetti non nasconde il vuoto che comporta il vivere da sola. Ma di fronte a quelle vetrine si anima e, d’un tratto, sembra essere in ottima compagnia. Proprio così si spiega l’assenza di chiarimenti in merito a quei nomi e a quei luoghi cui fa continuo riferimento: mentre racconta lei è lì, circondata da mille persone che fanno evidentemente parte del suo

Chevalier (2002) sottolinea quest’importante funzione esercitata dal mondo materiale ponendo un’attenzione specifica alle cose ricevute in dono o in eredità:

“ Gli oggetti che si ereditano e i regali sono i più vincolanti: con essi ci presentiamo attraverso la manifestazione delle nostre relazioni, sia quelle con i vivi che con i defunti. Appropriandoci di beni ereditati o di regali, riconosciamo i nostri legami con gli altri e accettiamo di mantenerli nel tempo” (Chevalier 2002, p. 851). Mentre conversiamo con la nostra interlocutrice, infatti, le ante delle vetrine vengono aperte e ogni volta richiuse con maniacale rigore, per poi essere aperte di nuovo non appena un attimo dopo: l’impressione è che quei mobili abbiano cambiato status, trasformandosi da credenze in scrigni preziosi da cui fuoriescono quasi esclusivamente regali o serviti di famiglia, e Mirella li custodisce con cura occupandosene personalmente.

… Però io faccio: - un ci spolverare, eh […], ci spolvero da me”- perché a volte con tutte quelle cosine, uno ni dà un colpettino …

E’ così, nemmeno la fidata signora delle pulizie ha accesso agli scrigni e ai tesori che racchiudono; pur adempiendo a un suo compito, quello di spolverare mobili e scaffali della casa, l’intrusione nei ripiani delle credenze le viene interdetta, e quelle ante segnano una soglia che solo Mirella può varcare. Del resto, sarebbe troppo rischioso affidare quel patrimonio ai riguardi di estranei, poiché si tratta di un patrimonio di famiglia; i soprammobili, qui, sono transfert dell’universo relazionale di chi li possiede, e la loro custodia rappresenta la salda conferma dei legami che incarnano, sia con le persone viventi che con quelle defunte. Se da un lato i regali del Dottor Macchia e di sua moglie esplicitano la socialità attuale di Mirella, dunque, dall’altro gli oggetti ereditati dalla mamma e dalle zie mediano il rapporto con l’aldilà e riconfigurano relazioni tutt’altro che svanite. E’ in questo senso che Chevalier definisce questa tipologia di oggetti come i più costrittivi sul piano delle scelte d’arredo: veicoli di ricordi e di sentimenti di appartenenza, lasciti e doni nascono con un intrinseco potenziale affettivo che raramente viene negato, capace anzi di sollevare la sensazione di un obbligo morale per la conservazione, tanto dell’oggetto materiale che del legame ivi incastonato. Laddove il denaro sembra sciogliere ogni debito sociale nei confronti delle cose acquistate, la dinamica dello scambio e della trasmissione pare invece dar luogo a comportamenti assai meno flessibili, insomma; e Mirella proprio questo argomenta durante la paziente rassegna dei suoi soprammobili:

... Si, no no, io sono … un po’ … ecco, se mi danno un oggetto d’oro io non posso né cambiarlo ne s… niente. Io … quello è così, e deve stare così!

lasciarci ci vengono svelati gli spiacevoli risvolti legati all’infrazione di tali principi:

... Mi piace se … do una cosa, che quella persona la tenga senza … levarla, sai? A volte qualcuno … si … […] Io prima, quando venivo da S. Anna, a volte portavo delle cose però poi non l’ho più viste, l’ho viste una volta due … e poi levate e portate in soffitta, allora no, allora un … 'o.

Il rammarico nelle parole di Mirella scaturisce dalla evidente delusione di non aver più ritrovato alcuni dei suoi regali nelle case di parenti e amici; la punta di indignazione che si coglie nel tono della sua voce, inoltre, rimanda quasi l’impressione di un’offesa vissuta sul piano personale, come se ad esser relegati in soffitta non fossero stati soltanto i suoi doni, ma anche una parte piuttosto rappresentativa di lei e dei suoi sentimenti. Ciò pare essere altresì confermato dalle difficoltà di accettazione di quell’occultamento: “Allora no, allora un … No”. E proprio sulla materializzazione del donatore nell’oggetto di dono, d’altro canto, sono riflessioni importanti come quelle di Mauss a venirci in soccorso: “ La cosa […] non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore è ancora qualcosa di lui. […] Donde deriva che regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi; […] accettare qualcosa da qualcuno equivale ad accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima; […] esiste, prima di tutto, una mescolanza di legami spirituali tra le cose, gli individui e i gruppi ” (Mauss 2002, pp. 170-175)20.

Il rispetto per tali legami è riscontrabile in questa casa anche attraverso un’altra tipologia di oggetti, non ravvisabile all’interno delle credenze ma molto presente nei discorsi dell’interlocutrice:

20

Il dono è stato oggetto di rinnovate riflessioni interdisciplinari negli ultimi decenni. La riscoperta delle implicazioni simboliche della pratica di donare, e della dimensione antiutilitaristica a essa legata, hanno condotto a una significativa rivalutazione dello “spirito del dono” che pone al centro la relazione tra cose e persone. (Cfr. fra gli altri Aria 2008 in F.

Mirella: - E poi io non … anche della mia mamma, io … c’ho quelle … c’ho quella ‘osina lì […] c’ho quell’anello che ho detto ora poi ve lo do a voi21, perché un voglio che vada in altre mani … eh no, no … è di casa mia … io … no. […]

Ric.: - E l’anello sarebbe … l’anello …

Mirella: - Della mia mamma, un’acquamarina della mia mamma. Poi ci ho gli

orecchini di ametista rosa […], uno spillino fu fatto quando nacque Alessandro …

Mirella sta parlando dei gioielli di famiglia. Si tratta di una categoria di oggetti il cui tasso di preziosità è particolarmente elevato: sono cose appartenute alla mamma, alle zie, o realizzate in occasione di eventi speciali, ma rispetto agli oggetti collocati nelle credenze questi altri vengono tenuti in una cassaforte anche per via del loro alto valore economico. Il gioiello tramandato è più importante dei serviti di porcellana, siano questi regalati o ereditati; anelli, spilli e orecchini dispongono di un diverso statuto simbolico, grazie al quale si aggiudicano il privilegio della trasmissione:22

… C’ho delle cose, sì, c’ho da guardare, poi un giorno che vengano … e bisogna …

21

Mirella si rivolge a una delle nuore che è presente all’intervista.

22

Annette Weiner (1992) reinterpreta la norma maussiana della reciprocità alla luce del “paradosso universale del conservare mentre si dona” e del ruolo dei possessi inalienabili; questi ultimi, beni non cedibili, si tramandano

all’interno del gruppo familiare e in questo modo si preservano attraverso le generazioni. Rappresentano la stabilità nei passaggi e nelle fasi di cambiamento, si distinguono rispetto ad altri beni che circolano diversamente (scambi, o comunque beni alienabili) e conferiscono autorevolezza al ruolo del donatore. Il caso di Mirella è esemplare: distingue i

Sono le nuore che devono venire a casa di Mirella per ricevere in eredità pietre e preziosi; “altre mani” ne comprometterebbero il delicato meccanismo di passaggio interfamiliare, così vitale per il mantenimento del nucleo domestico cui il soggetto sente di appartenere. L’ atteggiamento che si evince da questo tipo di relazione con il mondo materiale, volto alla valorizzazione dei legami tra avi e discendenti, sembra avere somiglianza con le dinamiche rilevate da Chevalier nella ricerca condotta nel sobborgo parigino di Nanterre (2002), dove le famiglie indagate hanno mostrato una spiccata predilezione per le espressioni di lignaggio all’interno dello spazio domestico. L’organizzazione degli ambienti e dei vani, le scelte degli oggetti e la loro disposizione, le modalità di fruizione delle proprie dimore, tutto mira all’enfatizzazione della continuità familiare e delle pratiche di successione, in contrasto con le espressioni di alleanza e di costituzione di nuovi nuclei abitativi, più tipiche delle famiglie inglesi del Jersey Farm, vicino St. Albans.

“E’ di casa mia”, queste sono le parole con cui Mirella esprime la volontà di far circolare l’anello materno tra i familiari più prossimi. Eppure anche gli oggetti delle colme credenze appartengono a casa sua, e come già detto rivestono senza dubbio una certa importanza; ma l’accezione di “casa”, qui, ha confini assai più ristretti, e intende abbracciare soltanto coloro che hanno il diritto esclusivo alla successione, ossia figli e nuore: è per loro insomma che la cassaforte può aprirsi, i più idonei a garantire la continuità della famiglia e la permanenza dei gioielli “in casa”.