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Conservare, mostrare, ricordare: un'etnografia della cultura materiale domestica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DI PISA

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea in Storia e Civiltà

TESI DI LAUREA

COSERVARE, MOSTRARE, RICORDARE: U'ETOGRAFIA

DELLA CULTURA MATERIALE DOMESTICA

Relatore:

Prof. Fabio Dei

Correlatore: Dott. Matteo Aria

Candidata: Silvia Bernardi

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Indice

Introduzione p. 3

Capitolo Primo

Su materia e memoria: alcune riflessioni p. 6

1. Un tuffo nel quotidiano p. 7

2. Solo materia? p. 9

3. Due nuovi punti di vista p. 10

4. Sulle orme del ricordo: il testimone ci porta in casa p. 12

5. Metodi e dintorni p. 14

Capitolo Secondo

La memoria nell’immagine: fotografie e archivi familiari p. 18

1. Echi dal passato p. 19

2. La memoria sociale p. 24

3. Gli album fai da te p. 30

4. Iconografia vs iconoclastia p. 38

Capitolo Terzo

Antenati e testimoni: tra recupero e trasmissione p. 55 1. In buona compagnia: doni, lasciti, e gioielli di famiglia p. 57 2. Totem e santi, novelli lari della modernità p. 66 3. Teoria e tecnica del riuso: l’irresistibile fascino della

tradizione p. 76

4. Lo chiamavano il salottino p. 91

Capitolo Quarto

Aldilà del ricordo: una cultura fatta di cose p. 100 1. Case e musei: ricette per fermare il tempo p. 102

2. Il lato umano e quello ideale p. 118

3. Un perro, una mucca e un caballito p. 133

4. Un paradigma indiziario p. 143

5. Sapore di casa p. 147

6. Il turista, un altro da sé p. 156

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Indice dei Ritratti

1. Vera p. 19 2. Paola p. 27 3. Tiziana p. 43 4. Angela p. 48 5. Chiara p. 52 6. Mirella p. 57 7. Rosanna p. 67 8. Marta p. 78 9. Graziella p. 81 10. Flavia p. 84 11. Laura p. 89 12. Lisa p. 109 13. Giovanna p. 122 14. Lorella p. 125 15. Rossella p. 136 16. Anna e Luigi p. 151 17. Mario e Silvana p. 157

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Introduzione

E’ un pomeriggio di metà ottobre dello scorso anno accademico quando si riunisce, per la prima volta, il gruppo di ricerca del progetto “Vita quotidiana e cultura materiale nell’Italia del dopoguerra: storia e antropologia degli oggetti ordinari”1. Dagli incontri seminariali che da quel momento si protraggono, con cadenza quasi regolare, per diversi mesi, scaturiscono alcune prospettive di studio che vedono impegnati studenti, docenti e ricercatori su due fronti principali: un approccio storico alla cultura domestica, incentrato su una dimensione diacronica del fenomeno, e un approccio antropologico alla cultura materiale nei contesti familiari, basato su una documentazione etnografica locale. Entrambe le prospettive di analisi convergono nel tessuto comune delle finalità del progetto: l’indagine degli oggetti e delle pratiche di vita quotidiana nella Toscana contemporanea, con riferimento ai mutamenti culturali e di costume avvenuti dalla seconda metà del Novecento sino a oggi.

La riflessione sul consumo e sulle sue valenze sociali, politiche ed economiche ha radici ormai salde nel terreno della storia e della storiografia: dal dibattito pubblico settecentesco sino agli odierni contributi sulla civiltà del consumo globale, ci è ormai familiare scorgere i lineamenti di una o più culture dietro abitudini e consuetudini della popolazione. E se in passato eravamo soliti attribuire a società tribali la circolazione di oggetti distintivi di alleanze, conflitti e gerarchie, oggi è grazie all’antropologia e alle scienze umane che esiste una consapevolezza più diffusa dell’universo materiale come vitale sostegno all’interazione sociale anche nel mondo contemporaneo.

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Tuttavia l’attenzione agli oggetti quotidiani, quelli apparentemente poco meritevoli d’interesse intellettuale, sono entrati a far parte degli studi accademici in tempi relativamente recenti, alimentandosi dell’intreccio tra curiosità scientifica, estetica, politica e mediatica che con rapidità sono stati in grado di sollevare. Allo stesso modo, proprio una pluralità di saperi sembra essere necessaria per lo studio di quell’inafferrabile dimensione che è la vita di tutti i giorni: ogni tentativo di rinchiudere la quotidianità entro confini disciplinari rigidi risulta una scelta fallimentare a priori, incapace di rendere ragione dell’infinità di implicazioni che l’attraversano. Non molti anni fa un insigne archeologo2, abituato a trattare con ovvia consuetudine gli oggetti quotidiani, benchè quelli del passato, ricordava in un celebre articolo che l’osservazione di un semplice manufatto può riferire molto dei propri fruitori, dei loro bisogni, delle loro abilità e conoscenze. Le soluzioni pratiche adottate di fronte a quesiti e problemi altro non sono che interpretazioni soggettive della realtà, e come tali, hanno molto a che fare con la produzione culturale, politica e morale di una società. I nessi tra cultura materiale e cultura esistenziale sono evidenti, dunque; più difficile è districarsi tra le maglie dei molteplici punti di vista offerti dall’ambito dell’ordinario. E’ anche per questo motivo, infatti, che la ricerca da noi intrapresa ha richiesto un’articolazione metodologica in tre fasi diverse eppur interagenti tra loro: gli incontri teorici preliminari, volti a conoscere lo stato dell’arte sull’argomento; la raccolta dei dati, che per la parte antropologica che interessa anche questo elaborato è consistita in una vera e propria ricerca sul campo, con una documentazione etnografica videoregistrata. Ma soprattutto una terza fase di elaborazione, realizzata, per così dire, in corso d’opera: la discussione e il confronto sui contenuti che emergevano via via durante l’indagine. Quest’ultima fase ha forse messo in risalto più interrogativi che risposte, suggerendo la necessità di

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anche quello che segue nelle prossime pagine: la memoria nell’ambiente domestico.

Ricorrente categoria d’analisi nella società contemporanea, la memoria si configura oggi come uno tra i fattori più importanti del processo di costruzione della soggettività e delle collettività. In effetti, ci troviamo di fronte ad uno dei temi più dibattuti dell’ultimo secolo, e ad una sfera concettuale aperta a numerose letture trasversali. La riflessione che qui si propone, senz’alcuna pretesa di esaustività, concentra la propria attenzione sulle pratiche individuali e familiari del ricordo, e sulle relative manifestazioni attraverso gli oggetti quotidiani e lo spazio domestico.

Memoria e cultura materiale vengono dunque circoscritte all’ambito privato, e in linea con le intenzioni del progetto, quella degli oggetti è l’ottica d’elezione scelta per indagare il rapporto tra le persone e le cose. Case, cose e persone, appunto: come il lettore avrà modo di osservare, la relazione tra questi elementi è meno scontata di quello che può apparire, tanto che oltre agli oggetti anche la voce delle persone avrà tuttavia un ruolo in quest’analisi, e persino la rigida separazione tra memoria pubblica e memoria privata a tratti sembrerà vacillare e timidamente offuscare i netti confini.

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Capitolo Primo

Su materia e memoria: alcune riflessioni.

La nostra ricerca etnografica si è fatta largo tra le poche e deboli resistenze dei soggetti intervistati, ed entrare nelle case nel complesso non è stata un’impresa molto difficile. Le persone sembravano avere dimestichezza con questo tipo di studio, e le modalità di svolgimento non sono apparse bizzarre o inafferrabili a nessuno. Qualche contatto, i primi accenni al tema dell’indagine, e un appuntamento con consenso alla video-ripresa si materializzava nel giro di alcuni giorni. Convinte che nessuna risposta delle interlocutrici andasse data per scontato, ci siamo interrogate a lungo sul motivo di questa disponibilità, e ogni volta non potevamo fare a meno di richiamare alla mente odierne immagini televisive a cui ormai non facciamo neanche più caso: gente comune che racconta vicende strettamente personali, vite quotidiane e abitudini domestiche che lasciano l’ambito privato consacrandosi a quello pubblico, amori disperati vengono condivisi su reti nazionali, e in molte trasmissioni le porte della propria casa vengono aperte all’Italia intera.

Negli ultimi decenni, il medium televisivo può averci senz’altro abituato alla narrazione di sé, e forse anche a una relativa ridefinizione dei tradizionali confini dell’intimità3. Citando un’acuta osservazione di Gaussen agli albori degli anni Ottanta, Annette Wieviorka ci ricorda che “raccontare la propria esistenza è una soddisfazione a cui difficilmente ci si sottrae. E’ la prova del fatto che si è esistiti e che un interlocutore è lì, pronto a interessarsi a noi. I grandi uomini – ma anche i meno grandi – hanno sempre bramato di rivolgersi al resto dei mortali scrivendo le proprie memorie. Gli altri, la gente

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del tavolo della locanda. Ma ora questa relatività dei destini individuali non è più ammessa. Si è imposta l’idea che tutte le vite si equivalgono e sono degne di essere raccontate”4. Il processo di democratizzazione dei protagonisti della storia deve indubbiamente molto al ruolo svolto dalla televisione a partire dagli anni Ottanta; con alcuni anni di anticipo, e una capacità di penetrazione inferiore, anche la radio aveva mosso i suoi passi nella stessa direzione, dando voce a una fetta di umanità che raramente aveva avuto accesso all’espressione di sé come soggetto attivo attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Tuttavia, il contesto sociale in cui sono avvenuti questi processi aveva già subito profonde trasformazioni negli anni Sessanta e Settanta, decenni in cui intere generazioni di esclusi si erano conquistati il diritto di parola e di partecipazione. Da allora un frenetico susseguirsi di studi ha aperto la strada alla testimonianza privata e al racconto di sé, e forse è anche a questi contributi che dobbiamo ricondurci per capire l’atteggiamento incontrato nelle nostre interviste.

1. Un tuffo nel quotidiano.

La fase di crescente benessere economico sperimentata in Italia a partire dai primi anni Sessanta impose una trasformazione radicale dello stile di vita della popolazione, ponendo il tema dei consumi al centro dell’attenzione di diversi approcci disciplinari. Le scienze sociali, in particolare, rinnovavano la loro riflessione sulla vita quotidiana alla luce della prospettiva della modernizzazione delle abitudini; la maggior parte degli argomenti trattati dalle ricerche – l’evoluzione del mondo del lavoro, dei rapporti interfamiliari, l’urbanizzazione – risentivano in profondità di una

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visione lineare e progressiva dei processi sociali, legata al cambiamento avvertito così intensamente in quegli anni. Nel decennio successivo e per tutta la durata degli anni Ottanta, una serie di importanti fattori contribuirono a costruire una rilettura del quotidiano secondo un’impronta più riflessiva. In primo luogo la tradizione marxista, che gettava uno sguardo critico ai nuovi bisogni delle fasce sociali, pur mantenendo un linguaggio e un pensiero fortemente orientati all’analisi economica e dei rapporti di produzione. All’emergere dei movimenti neofemministi, invece, si deve un ripensamento della domesticità intesa come terreno di confronto di genere: superato il concetto di sfera che esprime una struttura semplicemente economica, la vita legata alla casa diviene oggetto di dibattito pubblico, e le modificazioni dei ruoli e degli assetti sociali si legano indissolubilmente agli aspetti materiali, visti come le componenti più concrete e più veritiere dell’esistenza. Questi complessi mutamenti sociali invitarono a spostare la focalizzazione intellettuale su una dimensione più soggettiva della vita quotidiana, ben sviluppata in Inghilterra all’interno della corrente dei cultural studies, la cui interpretazione dei contesti e delle strutture della vita materiale ha permesso l’abbandono di approcci talvolta intrisi di eccessivo determinismo, riservando così agli attori sociali un ruolo da protagonisti. Consumi e mezzi di comunicazione di massa – ma il raggio d’azione è molto più esteso, in realtà - sono indagati all’interno delle pratiche concrete degli individui, secondo una metodologia “visibilmente avversa a essere rinchiusa entro rigide barriere disciplinari”5.

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2. Solo materia?

Questo nuovo sguardo all’interno dell’ambiente domestico, nel corso degli anni Novanta e anche successivamente, si declina in misura sempre maggiore attraverso l’analisi della cultura materiale. Di difficile definizione, il termine viene usato spesso dagli storiografi per indicare tutti gli aspetti visibili di una cultura, quali i manufatti, gli utensili della vita quotidiana e delle attività produttive. Proprio attraverso lo studio di queste tipologie di oggetti, ad esempio, un’autrice come Raffaella Sarti6 (2008) ha proposto la ricostruzione di un escursus storico dell’evoluzione materiale della società, individuando, sin dal principio dell’impresa, la complessità di un’opera di sintesi in cui convergono ambiti di ricerca differenti. Se è indubbio che Sarti si attenga alle tracce visibili della cultura, infatti, è vero altresì che risulta difficile dare un’etichetta disciplinare al suo saggio, prova tangibile dell’articolazione composita dell’argomento. Daniel Miller (1998, 2001), invitando all’esplorazione della cultura materiale in ambito privato, sottolinea il carattere potenzialmente sovversivo di queste pratiche etnografiche, laddove il tentativo di comprendere il significato di ciò che assumiamo come ovvio e “naturale” conduce inevitabilmente a una discussione del sistema in cui viviamo e delle strutture che abitualmente consideriamo acquisite. Questi esempi sembrano suggerire l’idea che quando si riferisce di cultura materiale, più che di uno studio settoriale e selettivo, si parla di oggetti riconducibili a un tessuto culturale e sociale ampio ed eterogeneo, fatto di fenomeni, persone, cose e relazioni. E’ difficile, insomma, pensare a una storia costituita da oggetti svincolati da azioni e individui. Lavori come quello di Jean-Pierre Warnier (2005)7, a questo proposito, sono esemplificativi dei meccanismi che

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“Vita di casa” è il titolo del saggio in cui Raffaella Sarti elabora una dettagliata ricostruzione della vita materiale delle famiglie europee dalla fine del Quattrocento all’inizio dell’Ottocento.

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Riprendendo tesi classiche di Schilder, Mauss e Leroi-Gourhan, Warnier si prefigge di analizzare la materia in rapporto alle condotte sensorio-motrici del soggetto, considerando l’oggetto come “matrice di soggettivazione”. La

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intervengono sulle diverse culture materiali espresse dall’umanità: quali parti incorporate delle nostre azioni, gli oggetti non costituiscono soltanto pura materia, e una serie di mediazioni intercorrono tra il soggetto, le sue dinamiche motorie e gli attrezzi utilizzati per realizzarle. Lo scarto tra materialità e rappresentazione, dunque, deve essere colmato da concettualizzazioni che tengano conto del legame inscindibile tra queste due componenti, poichè se guardiamo agli utensili come a protesi del nostro corpo, è inevitabile vederli anche come elementi che partecipano alla nostra percezione della realtà (Turci 2009).

3. Due nuovi punti di vista.

Dubitare di una natura esclusivamente materiale degli oggetti non è cosa nuova. Marcel Mauss, evidenziando per primo la funzione della cultura sociale nel dare significato agli oggetti, individuò nella pratica dello scambio di beni un’affermazione simbolica di valori, ruoli e legami tra le persone; donare, ricevere e ricambiare, dunque, come azioni che servono per definire le relazioni sociali. Lévi-Strauss, in un più ampio sistema di reciprocità, riconosceva agli oggetti la funzione di codici culturali e di strumenti logici per ordinare le esperienze e i comportamenti delle collettività. Con un accento ancora maggiore sul potenziale simbolico delle cose, Mary Douglas parla dei beni materiali e di consumo come mezzi per rendere stabili e visibili le categorie culturali di un gruppo sociale, dove gli individui sono tuttavia soggetti attivi che ridefiniscono continuamente le relazioni tra gli oggetti e il loro contenuto comunicativo. Come è intuibile da queste poche e sintetiche

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citazioni, diversi autori di rilievo hanno affrontato la questione del valore simbolico dei beni, e alcuni di questi approcci sono stati oggetto di riscoperte e riletture anche piuttosto recenti. Tuttavia, nel mare delle interpretazioni antropologiche legate alla cultura materiale, mi preme sottolineare l’avvento di un paio di correnti che, per la loro portata innovativa e in qualche modo carica di connessioni, possono forse assurgere a modelli teorici significativi, in grado di offrire ricchi spunti per gli studi futuri.

La prima è quella che ha originato il filone di ricerca inaugurato da Arjun Appadurai (1986) e Igor Kopytoff (1986), che si interrogano sul significato delle cose indagandone la relativa biografia, la quale viene sì contestualizzata socialmente, ma resta essa stessa in primo luogo il punto d’avvio dell’analisi simbolica dell’oggetto. Come Warnier, anche questi autori ribaltano la prospettiva di studio costruendo un impianto metodologico che fa perno sulla materia; ma l’audacia del punto di vista che essi propongono consiste nel supporre una vita sociale vera e propria immagazzinata ed espressa dagli oggetti stessi. Alla sostanza etnografica delle cose, dunque, si risale ripercorrendone le tappe della storia culturale, fatta di fasi e cambiamenti che sembrano avvicinare la loro natura a quella altrettanto mutevole degli individui e delle collettività. I passaggi di status, e gli articolati processi di mercificazione e demercificazione, consentono l’applicazione di questo tipo di indagine a gruppi sociali di vario tipo, sia a quelli organizzati secondo sistemi capitalistici sia ad altri strutturati in sistemi diversi. Destinazione, uso e funzione del bene divengono fattori cruciali per comprendere la dimensione allegorica degli oggetti; e per l’appunto queste caratteristiche introducono l’altra tendenza etnografica legata ad aspetti di cultura materiale, quella manifestata dall’odierna antropologia museale. Le pratiche di musealizzazione e patrimonializzazione dei beni demoetnoantropologici hanno subito modificazioni profonde negli ulltimi anni; le funzioni simboliche ed evocative dei documenti in mostra sono oggi

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privilegiate ed esternalizzate, a fronte di modalità espositive superate che si proponevano come illustrative di contesti socio-culturali. Un’etnografia museale che renda conto della biografia culturale degli oggetti, e di come essi siano arrivati a una collocazione che li definisce “patrimonio”, è quella intrapresa recentemente in Francia da Bazin e Bonnot, e in Italia, tra gli altri, da Pietro Clemente.

4. Sulle orme del ricordo: il testimone ci porta in casa.

Per comprendere come si inserisce la memoria nell’ambiente domestico, dove gli oggetti del quotidiano entrano in gioco intersecandosi alle pratiche legate al ricordo, è ancora una volta sul finire degli anni Sessanta che dobbiamo tornare. Nella densità dei fermenti culturali di quegli anni, infatti, due rilevanti processi storici prendono corpo acuendo la percezione di una cesura rispetto al clima sociale dell’epoca precedente: anzitutto, la rarefazione delle politiche commemorative nazionali e nazionalistiche, a fronte di celebrazioni dedite in misura sempre maggiore all’ambito locale e comunitario; secondariamente, un graduale cambiamento della composizione e della natura dei nuclei familiari, responsabile di nuove esigenze di rappresentazione identitaria. Nel primo caso, proprio l’ampliamento delle forze che partecipano alla formazione della società civile, e il loro ruolo in progressiva ascesa, sono stati i fattori determinanti per costruire quella che è stata definita “l’autobiografia di tutti” (Passerini, 1988), voce di soggettività ritrovatesi inserite in propulsivi movimenti di massa. Come già osservato in precedenza, la funzione del testimone in questo contesto è valorizzata dagli

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strumenti forniti dall’oralità di ritorno (Ong 1986)8, in grado di sollecitare nuovi modi di concepire la storia della cultura umana. Inoltre, la perdita di fiducia nell’idea dello Stato-Nazione, dovuta in gran parte al dolore e alle amare delusioni lasciate dal Secondo Conflitto, provoca una grande ferita nel senso identitario collettivo, incapace ormai di riconoscersi appieno nella cornice di una storia e di una memoria nazionali (Gillis 1994). Ma a fianco di questi macro-fenomeni anche mutamenti più sottili - non per questo meno efficaci - contribuiscono alla costituzione di nuove forme di autorappresentazione, in cui l’ambito privato sembra offrire risposte più adeguate al tipo di società in divenire. In questo quadro sociale in formazione è la famiglia che si trova al centro dei rituali di memoria e di celebrazione, secondo modalità e prassi che enfatizzano l’unità e la compattezza dei legami parentali. Ricorrenze e anniversari, infatti, in sensibile aumento negli ultimi decenni, sembrano voler ripristinare una temporalità capace di offrire ancora occasioni di intimità e senso di permanenza a nuclei sempre più piccoli e disgregati, in cui i naturali cicli generazionali si distinguono con fatica (Ibid.). Produrre memoria, dunque, registrare e archiviare ricordi, ma soprattutto collezionare supporti materiali d’ausilio a queste pratiche, sembra l’imperativo di una nuova società che guarda dentro le case e dentro i gruppi familiari. I complessi processi che hanno condotto a una progressiva privatizzazione delle pratiche di memoria non possono certo esaurirsi con questa breve descrizione; tuttavia l’affermarsi dell’esperienza individuale attraverso le testimonianze orali, e il crescente bisogno di una costruzione privata del ricordo, hanno fatto slittare l’attenzione degli studi legati a memoria e identità all’interno delle mura dello spazio domestico.

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Walter Ong parla di “oralità di ritorno” a proposito di quelle società in cui sistemi di comunicazione come la scrittura e i mezzi informatici hanno sostituito l’oralità “primaria”(propria delle culture orali), ma in cui tuttavia la

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5. Metodi e dintorni.

Nei seminari che hanno preceduto i nostri incontri etnografici sono state affrontate alcune basilari questioni di metodo, dalle quali sono scaturite le scelte di prassi intraprese di cui è importante in questa sede dar conto.

Anzitutto i soggetti della ricerca; complessivamente corrisponde a un numero di diciassette persone il gruppo di intervistati che qui viene presentato. Il lavoro prosegue, attualmente, nel territorio di Viareggio e di Livorno, con materiali che non sono rientrati in questa analisi per motivi di incongruenze temporali. Le interviste di seguito illustrate sono state realizzate nelle province di Lucca, Carrara e Pisa, specificate in modo più dettagliato nei singoli ritratti. Il reperimento del primo contatto è stato, per così dire, casuale: la conoscenza non approfondita di uno dei soggetti, avvenuta per ragioni professionali che esulano dall’ambito di questa ricerca, ha suggerito la possibilità di compiere il primo tentativo etnografico, consistente in un sopralluogo dell’abitazione concordato con la disponibile proprietaria.

L’interesse manifestato in questo primo incontro ha originato i sopralluoghi successivi, due visite di due ore ciascuna con videoripresa. Un esordio così fortunato ci ha indotte a rivolgerci allo stesso soggetto per il reperimento di ulteriori contatti, ottenuti in gran parte grazie all’aiuto della sua mediazione. Di norma si è trattato di contatti telefonici, a cui facevano seguito gli accordi per le visite. Gli appuntamenti che da quel momento si sono succeduti per la durata di alcuni mesi hanno visto protagoniste della ricerca prevalentemente donne impiegate nell’insegnamento: ciò si spiega attraverso la catena di contatti generati dal passa parola della prima persona intervistata, un’insegnante di scuola superiore, appunto. In tre casi, però,

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Complessivamente, questa modalità di reperimento dei soggetti è risultata efficace: la “neutralità” di persone sconosciute, bilanciata dalla disponibilità accordataci nelle telefonate preliminari, hanno reso gli incontri etnografici relativamente disinvolti eppur scevri da aspettative precostituite da entrambe le parti. In un solo caso la visita ha riguardato una persona coinvolta da legame di parentela con una di noi studentesse; tuttavia, la ricchezza e la specificità di quel materiale è stata giudicata tale da essere inserita a pieno titolo nell’archivio di video raccolti. In un’ottica di riservatezza, ogni nome è stato sostituito con uno di nostra invenzione.

In secondo luogo, è lecito accennare alla tecnica di intervista. Nei seminari sono state formulate un paio di griglie di domande pertinenti l’argomento di indagine. I consumi, gli oggetti d’affezione, gli archivi di memoria, le abitudini domestiche: questi i principali punti proposti negli schemi. Se è vero che tali temi sono stati rispettati, in linea di massima, d’altro canto la tecnica del videotour realizzato in casa, sotto la guida spontanea del soggetto, ci ha messo di fronte alla difficoltà di realizzare interviste strutturate e rigidamente pianificate in anticipo. Si è scelto di privilegiare gli spunti che sembravano nascere in maniera naturale nelle intenzioni dei proprietari delle abitazioni, al cui desiderio di raccontarsi si è già fatto cenno nei paragrafi precedenti. La ripresa con la videocamera, infatti, non ha rappresentato un ostacolo per i nostri tentativi di relazione con le persone; tutt’altro, l’impressione è stata quella di una loro maggiore collaborazione in funzione dell’obiettivo della visita, tanto che in più circostanze le nostre riprese sono state aiutate aprendo ante e cassetti o spostando gli oggetti in direzione dela luce. Un giro iniziale della casa veniva effettuato su nostra richiesta, e di solito interlocutori e interlocutrici proseguivano soffermandosi su soprammobili individuati da loro in maniera autonoma; dalle registrazioni è possibile percepire quali soggetti hanno avuto maggiori resistenze al racconto a seconda della frequenza delle nostre

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sollecitazioni. Abbiamo sempre effettuato le visite in due o tre persone, ritenendo utile una divisione dei compiti tra chi riprendeva e chi si dedicava al colloquio con le persone. La documentazione etnografica degli oggetti è stata realizzata anche attraverso foto che si trovano qui di seguito riportate. La videoregistrazione, invece, è la tecnica che a nostro parere rifletteva nel modo più soddisfacente la pratica di raccontarsi attraverso le cose. Il materiale è infine stato salvato su supporti hard disk di vario tipo per consentirne la fruibilità.

Un diario con annotazioni è stato via via utilizzato per appuntare le

impressioni predominanti all’uscita di ogni visita. In questo lavoro se ne trova nota all’interno dei ritratti: il cambio di tono usato in tali descrizioni illustra per l’appunto il carattere informale e soggettivo di tali estratti.

Dopo le interviste numerosi occasioni di scambio tra noi studentesse

hanno fissato le nostre impressioni anche nei giorni successivi alle visite; tra gli elementi da rilevare, a questo proposito, c’è una condivisione pressoché totale di tali impressioni. I ritrovi seminariali, poi, hanno offerto ulteriori spunti di riflessione e di dibattito alla luce dei riferimenti letterari già discussi.

Le trascrizioni delle parti di intervista citate sono state effettuate

intervenendo il meno possibile sulla narrazione discorsiva. Esitazioni, ripetizioni ed espressioni colloquiali sono state riportate in modo piuttosto fedele, nell’intento di rendere la specificità della fonte biografica orale e riservandoci la possibilità di puntualizzare e commentare nella successiva argomentazione interpretativa.

I ritratti sono frutto di un lavoro comune realizzato con Cinzia

Ciardiello, la cui tesi ha il titolo: “Etnografia della cultura domestica: oggetti e racconti della casa”.

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l’avvio di ogni intervista. I biscotti e i dolci con cui ogni volta facevamo ingresso nelle abitazioni riducevano immediatamente la sensazione di incursione nella vita privata delle padrone di casa, e sono stati elementi comportamentali importanti a nostro avviso. Con una delle intervistate è nata anche una relazione di amicizia, segno forse delle implicazioni emotive che intervengono in una ricerca etnografica, a maggior ragione in ambiente domestico dove si è subito immersi in sfere significativamente intime delle persone.

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Capitolo Secondo

La memoria nell’immagine: fotografie e archivi familiari.

Se quella in cui viviamo è stata da molti definita una società dell’immagine, le lenti con le quali guardare al suo sviluppo vanno estratte senza dubbio dalla temperie iconografica scatenatasi almeno un secolo prima, con la diffusione della tecnica della fotografia. Non ancora affermatasi come espressione artistica, questa nuova forma di lettura della realtà già svelava le potenzialità inedite di una riproduzione analogica del mondo, a fronte di quelle approssimazioni - sintesi meravigliose – che le Arti Maggiori avevano saputo offrire sino ad allora. L’immagine fotografica è stata considerata, fin dalle sue origini, il mezzo che più di ogni altro è riuscito a rappresentare fedelmente la realtà, capace di immortalare su un supporto sensibile un «qui» e un «ora» irripetibili, ma soprattutto in grado di riprodurre un fotogramma per un numero infinito di volte. E per l’appunto la riproducibilità, decennio dopo decennio, ha permesso a questo tipo di rappresentazione di fare il proprio ingresso nella vita quotidiana delle persone, e di trovare posto all’interno delle dimore familiari; con tempi e costi notevolmente ridotti, lo scatto fotografico ha lentamente consentito l’incremento degli archivi domestici, e ha allenato lo sguardo delle persone ad una nuova modalità narrativa. Immediatezza della percezione e “realtà” della testimonianza: sono questi i rivoluzionari criteri rappresentativi. A fianco dell’uso sociale e politico che nel primo Novecento gli stati fanno del nascente strumento, l’altro filone emergente attraverso cui si fa strada la fotografia professionale è dunque quello delle memorie familiari, orgogliosi diari di vita in cui ritratto e celebrazione spesso si distinguono a malapena.

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1. Echi dal passato.

Vera attende la nostra visita con gioioso fermento. La casa tutta ci sembra predisposta all’accoglienza delle persone, pronta a dischiudere segreti a coloro che indugino sui suoi segnali. Una trentina di foto fanno mostra di sè dal ripiano di un mobile del soggiorno, mentre un’intera parete della stessa stanza è tappezzata di vecchi ritratti di famiglia.

VERA

Età: circa 80

Località dell’abitazione: Carrara centro Composizione del nucleo familiare: nubile Attività: insegnante in pensione

Data della visita: 09/05/2008

Vera vive da sola in un grande appartamento nel centro di Carrara, circondata da decine di vecchie fotografie che illustra volentieri e con accorata partecipazione. Preziosi oggetti del passato e

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memorie di famiglia sono in mostra nel vetro di un piccolo tavolino da fumo attorno a cui si svolge gran parte dell’intervista. Gli scarsi elementi moderni presenti nella casa vengono ignorati per dare risalto a quelli più antichi, che le consentono di ricostruire il corso della sua vita e degli eventi della città. Ci parla dei suoi ricordi come se ci impartisse una lezione di storia, e gli oggetti che ci mostra diventano le fonti da cui scaturisce la sua narrazione.

Dal diario di campo:

Durante l’intervista veniamo interrogate sugli ultimi libri letti: Vera è una professoressa a tutti gli effetti, ancora molto calata nel suo ruolo didattico. E’ una signora del secolo scorso, e non a caso ci parla con nostalgia dei pregi della borghesia di fine Ottocento. Ci fa sorridere che si definisca addirittura foscoliana, ma usciamo contente dall’incontro con questa elegante signora. Alcuni degli oggetti visti in questa casa, come la comoda e il carnet di ballo, li abbiamo trovati veramente unici e piuttosto insoliti.

… In questa foto ci sono anche i miei bisnonni, oltre ai nonni e a mio papà e mamma. 'on c’è la mia bisnonna, però è una foto ... è rappresentativa di tutta la famiglia ...

Vera tiene in mano una foto che ha tolto dalla parete e che ritrae un ampio gruppo familiare, ci dice che è stata scattata verso la fine dell’Ottocento. Le altre cornici restano appese, sono grandi e troppo pesanti:

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interruzioni, come una rassegna continua che dall’Ottocento ci conduce fino agli inizi di questo secolo.

… Poi c’è questa che è deliziosa, le cugine di mia madre, c’è quel qualcosa che si vede che è del primo ‘900 ... tutte vestite di bianco [...]. E questi sono i miei nonni, qui mi fanno tenerezza perché son così giovani, secondo me [...] qui i fratelli della mia mamma, da piccoli, belli eh? Proprio belli come bambini ...

Il racconto prosegue, e tra un commento e l’altro ci infiltriamo in una rete parentale che le foto scansionano lungo percorsi verticali e trasversali, toccando ben cinque generazioni e abbracciando un arco familiare che va dalle relazioni più prossime -genitori, nipoti- a quelle meno dirette - la cugina del padre, i figli di quest’ultima, ecc...-. Non vediamo amici, colleghi, conoscenti: le vecchie immagini su cui Vera richiama la nostra attenzione sono, per la quasi totalità, realizzate da fotografi di professione, e sono tutte “foto di famiglia”. Se scattate all’interno di uno studio di posa, presentano spesso gli stessi fondali, sedute, capitelli, accessori tipici delle ambientazioni dell’epoca; se prodotte all’esterno, hanno comunque un tratto riconoscibile

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che le accomuna: la stessa rigidità formale nella disposizione delle persone e nel modo in cui vengono ritratte, rivelatrice del codice di chi detiene il mestiere e della funzione a cui l’oggetto è destinato. L’intenzione è quella di rappresentare la famiglia, ossia di mettere in scena la famiglia per sé e per gli altri, rispettando i canoni di quella che, tra Otto e Novecento, è ormai la nuova forma di ritratto domestico. Siamo agli albori degli album di famiglia. Queste foto hanno una doppia missione: costruire una memoria privata da assicurare a membri e discendenti da un lato, e dall’altro, documentare altresì persone, relazioni, eventi per un potenziale destinatario pubblico. E Vera lo lascia trapelare, questo duplice ruolo, quando sfila dai cassetti del mobile altre foto da condividere con noi:

Ric.: - Lei le tiene qui [le foto] perchè le riguarda ... ha occasione?

Vera: - Anche, anche ... ma anche perchè la gente, a volte ... passa di li, ci da un’occhiata ...

La realtà che ci viene restituita dalle immagini di questa casa e da chi la vive, dunque, non raffigura soltanto una sfera intima e riposta dell’affettività; denota anche il senso del dovere di testimonianza verso gli altri, e la consapevolezza che quel che si tiene nei cassetti e alle pareti può assumere una valenza pubblica o privata a seconda dell’osservatore a cui il materiale viene mostrato. Ma in cosa consiste esattamente il dovere di testimonianza di Vera? Cosa può assumere il ruolo di documento di interesse pubblico, tra i suoi ricordi personali?

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finestra; dobbiamo vedere bene tutti. Il volto della città ormai è stravolto, ma alcuni angoli e anfratti caratteristici si riconoscono ancora. L’ “antico” è ciò che dobbiamo guardare. Non esiste un quotidiano contemporaneo per cui gli occhi esterni possano incuriosirsi, secondo Vera: il passato è interessante, le foto - e gli oggetti, come si vedrà in seguito - di tanti anni fa sono degne di attenzione; e in nome di questo passato, nello stesso album trovano posto vecchi volantini, passaporti, piccole stampe, tessere di associazioni, propaganda di guerra. E’ la storia secondo Vera, quella sezione di passato che lei vuole ricordare e comunicare, secondo la sua precisa responsabilità di testimone:

... Lo vedete anche da qui che sono un pò patita ... però mi piacciono ‘ste cose qui ...

Non è per puro caso, infatti, che i preziosi materiali della Carrara del primo Novecento hanno finito per costituire il corpus di una mostra sulla storia del territorio organizzata dal Comune e altri enti locali. Motivo di soddisfazione per la nostra interlocutrice, tale prestito ha consentito la condivisione di una memoria familiare, e attraverso essa, la ricostruzione di una memoria collettiva.

E’ proprio nella partecipazione degli altri che il ricordo si carica di senso per Vera, e ciò spiega anche il suo desiderio di incontrarci. Annette Wieviorka (1999, p.44) così commenta l’importanza della collettività per la figura del testimone: “la specificità di un individuo non esiste mai da sola: è il gruppo a conferirla. Riscoprire la dimensione singolare significa ricostruire tale collettività e la sua cultura attraverso i materiali del ricordo. L’individuo si colloca nel collettivo”. Le parole della storica francese, nette come sentenze, ci riportano inevitabilmente alle osservazioni del suo noto

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connazionale Maurice Halbwachs, ispiratore di numerose riflessioni durante tutto il corso della nostra ricerca.

2. La memoria sociale.

Se è vero che l’attenzione di questa scrittura intende concentrarsi prevalentemente sulle pratiche di memoria domestica, già con gli esempi appena riportati si intuisce come, ancora una volta, risulti difficile scindere i ricordi individuali da quelli collettivi. Impossibile non chiamare in causa la teoria sociale della memoria e i suoi fondatori. Illustre esponente della scuola sociologica francese e discepolo di Durkheim, Halbwachs getta per primo le basi di un nuovo approccio all’analisi delle dinamiche del ricordo, scardinando le concezioni prevalenti sino allora sul tema e mostrando una prospettiva originale che non avrebbe più potuto essere ignorata, né dagli studi sociali né dalle teorie psicologiche.

“Non esiste memoria possibile al di fuori dei quadri di cui si servono gli uomini che vivono in società per fissare e ritrovare i propri ricordi.” Halbwachs (1975, p. 82) si riferisce ai quadri sociali della memoria, quelle rappresentazioni collettive proprie di un gruppo sociale che plasmano le categorie logiche di ciascun individuo. Cornici dei nostri universi culturali di riferimento, i quadri definiscono i contorni di un contesto entro cui collochiamo i ricordi personali, secondo una ricostruzione realizzata in funzione del presente. In questo modo la memoria individuale si lega sempre a quella del gruppo o dei gruppi di appartenenza, attraverso convenzioni

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il concetto di memoria come fenomeno socialmente costruito: una rilettura del passato che scaturisce sempre da riferimenti collettivi del presente, quelli che costituiscono i quadri della comunità. La dimensione sociale, cui la dottrina durkheimiana attribuisce un ruolo determinante nella conoscenza della realtà, viene estesa da Halbwachs a una pratica speculativa per lo più indagata, sino ad allora, come fenomeno individuale di stretta pertinenza psicologica. La portata innovativa delle sue riflessioni emerge con maggiore chiarezza nella sua opera più celebre, edita postuma per la prima volta nel 1950, La memoria collettiva:

“Ma i nostri ricordi vivono in noi come ricordi collettivi, e ci sono rammentati dagli altri, anche quando si tratta di avvenimenti in cui siamo stati coinvolti solo noi, e di oggetti che solo noi abbiamo visto. Il fatto è, che in realtà, non siamo mai soli. Non è necessario che altri siano presenti, che si distinguano materialmente da noi: perché ciascuno di noi porta sempre con sé una quantità di persone distinte”.9E’ evidente, dunque, che per Halbwachs ricordare è un’esperienza collettiva, resa possibile in quanto ogni persona è membro di un gruppo sociale, e ogni forma di memoria si colloca in un contesto. Come ricorda Jedlowski (2001, p.26), richiamare alla mente immagini, parole, suoni, significa allora “riattualizzare la memoria di quel gruppo o quel contesto cui si appartiene o si è appartenuti”:

[…] Quando eravamo piccini, dal terrazzo, si sentivano tutte ‘ste musiche, per cui io credo a volte, quando io sento la banda, che mi piace la banda, mi piacciono tutte quelle cose lì … forse è perché dentro di me ci sono i ricordi di quando la sentivamo.

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Quasi come fosse consapevole delle proprie dinamiche di contestualizzazione del ricordo, Vera rammenta con piacere la banda che udiva suonare dal terrazzo di casa, quando era piccola; in realtà, la gioviale signora ipotizza semplicemente la possibilità di un legame tra un suono e il caro ricordo che da esso affiora. Tuttavia, se è vero che il passato non si conserva affatto, ma si ricostruisce a partire dai quadri sociali del presente, può risultare più chiaro il motivo per cui ella ci fornisce una personale interpretazione di ciò che le chiediamo di ricordare: senza saperlo ella opera una selezione di quello che per lei è importante, in base alla conformazione dei suoi interessi attuali.

… Questa l’avrete vista tante volte, la vecchia Carrara … Però è, se vedete, è bella, nel senso che in questa piccola cerchia c’è il Duomo e c’è l’Accademia, la chiesa e lo stato, le due potenze medievali […]

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posa, ritratti di famiglia in cui il fotografo si atteneva scrupolosamente allo stile corrente, sono per l’appunto il frutto di una rappresentazione collettiva che la nostra interlocutrice riattualizza commentando le pagine di quegli album così densi di ricordi.

C’è anche un’altra persona, tra le intervistate, che mostra un discreto interesse per le foto antiche.

PAOLA

Età: circa 60

Località dell’abitazione: centro storico di Lucca Composizione del nucleo familiare: sposata, due figli Attività: insegnante

Data delle visite: 13/03/2008, 03/04/2008

Paola ha comprato la residenza storica in cui vive con il marito negli anni Settanta, in un momento di scarsa valutazione delle abitazioni del centro. Col passare degli anni, abitare dentro le mura è divenuto appannaggio dei ceti più abbienti, poichè il valore di queste

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case è cresciuto vertiginosamente. Il grande appartamento di Paola ha soffitti alti e affrescati, stanze ampie e lunghi corridoi; l’ulteriore ristrutturazione apportata da lei e dal marito ne ha fatto un lussuoso appartamento dalle rifiniture di pregio. Ogni vano è stato poi arricchito con specchiere, consolle, tavoli e divani d’epoca; imponenti librerie raccolgono volumi preziosi, e alle pareti sono appesi quadri d’autore e di artisti conosciuti di persona. Nessun soprammobile è casuale: ogni oggetto è frutto di una scelta ragionata che si accorda con la personalità e il gusto della padrona. Le lunghe ore di intervista mostrano l’affezione di Paola per ogni centimetro della casa, e la sua capacità di accoglienza e di gradevole intrattenimento.

Dal diario di campo:

Siamo rimaste molto affascinate dai racconti di Paola. Tutte concordiamo che il tempo trascorso con lei è stato davvero piacevole, e ci colpisce la naturalezza con cui lei mischia pezzi antichi e preziosi con semplici cose di vita quotidiana. Dopo entrambe le visite siamo uscite come “ubriacate” dagli innumerevoli oggetti che affollano la sua casa.

Paola passa in rassegna nonni, genitori e zii invitandoci a sostare di fronte a tavoli ricolmi di ritratti, presenti in ogni angolo della sua casa. Stavolta, però, l’immagine della famiglia si ricompone anche attraverso foto più recenti, scattate da lei o dal marito; ecco che compaiono i figli, allora, e pure alcuni intimi amici. Ma soprattutto c’è un contributo personale con cui il

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[…] Questa è Giulia bambina, seppiata … seppiate le foto, perché non mi piacciono i colori…[…]e questa è mia nonna da giovane, naturalmente seppiata perché allora …

Paola ha scelto una pellicola color seppia per ritrarre la figlia, rendendo così omogenea la cifra di rappresentazione dei propri cari: non è soltanto un bianco e nero, è una monocromia invecchiata, dal sapore di “antico”, come la foto originale della nonna che è naturalmente ingiallita dal tempo. Il gusto classico di Paola, risultato dell’ambiente socioculturale in cui è vissuta e di un tipo di disposizione estetica che tutt’ora le appartiene, l’ha indotta a intervenire di persona sull’oggetto di memoria, alterando - seppur in modo lieve - l’autenticità del materiale del ricordo.

Durante le nostre riflessioni sulle interviste, ci siamo chiesti più volte cosa sarebbe successo se questa raffinata padrona di casa avesse mutato i propri gusti estetici nel corso degli anni, o se, ad esempio, non vi fosse stata continuità tra i quadri sociali provenienti dalla cultura di riferimento del suo passato e quelli responsabili del suo gusto e della sua modalità di percezione

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attuali. La foto di Giulia, insomma, mostrerebbe in quel caso una bambina a colori? Oppure in bianco e nero, ma senza alcun effetto seppia?

Come Halbwachs non manca di precisare, i quadri non sono categorie che vengono a formarsi a posteriori rispetto al ricordo, e in cui quest’ultimo finisce per collocarsi; al contrario, essi lo precedono da un punto di vista logico, e ne permettono l’esistenza.

“ Bisogna mostrare, d’altra parte, che i quadri collettivi della memoria non sono costituiti a posteriori attraverso la combinazione di ricordi individuali, e che non sono semplici forme vuote entro le quali i ricordi, venuti da fuori,verrebbero a inserirsi, ma che questi sono al contrario proprio gli strumenti dei quali la memoria collettiva si serve per ricomporre un’immagine del passato che in ogni epoca si accorda con i pensieri dominanti della società” (Halbwachs 1975, p. 18). Dunque è chiaramente presente, in Halbwachs, l’idea di un cambiamento dei contenuti via via selezionati e conservati, o meglio di un loro perenne aggiustamento in base alla cultura dominante. La nostra opinione su un evento o su una persona, i gusti, l’espressione di giudizi, sono tutte dinamiche mutevoli nel tempo, come lo sono le categorie collettive; ne deriva che i ricordi stessi sono continue riorganizzazioni del passato, talvolta basate su una sovrapposizione di quadri. Col concetto di mutamento nelle forme di memoria, Halbwachs non soltanto allarga gli orizzonti della prospettiva sociale di Durkheim, dotandola di riferimenti logici impegnati in un eterno riassetto, ma introduce altresì il tema spinoso dell’autorappresentazione e della performance narrativa.

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3. Gli album fai da te.

Tra le tappe del processo di popolarizzazione della fotografia ricopre un ruolo speciale quella vasta gamma di prodotti di massa che, nella seconda metà del XX secolo, ha contribuito in modo sostanziale alla diffusione di una tecnologia alla portata di tutti. Nomi come quelli di Ferrania, Agfa e Kodak sono comunemente noti per aver introdotto nel mercato fotografico macchine man mano più economiche e più semplici da usare. A partire dagli anni Sessanta istantanee, usa e getta e superleggere, hanno dato un impulso straordinario allo sviluppo della fotografia amatoriale; lo slogan “voi premete il bottone, noi facciamo il resto” 10 è rimasto a lungo nella mente di molte persone, a conferma di quanto fosse centrale anche l’opera di propaganda di questo mezzo di autorappresentazione in rapida ascesa. L’istituzione familiare, significativamente in via di ridefinizione in quegli anni, trova nella fotografia una via d’espressione più spontanea e più libera da mediazioni; affettività e intimità familiare sono i nuovi codici di una famiglia che si autoritrae sempre più in privato, e lo scatto analogico è il medium capace di ridurre in modo vertiginoso la distanza tra autore e soggetto della rappresentazione, a maggior ragione in assenza dell’ausilio di un professionista del mestiere. E’ così che nelle case moderne sono nati gli album fotografici homemade11, nuove biografie di persone, vicende e relazioni in cui l’occhio di chi racconta si confonde spesso con quello di chi è raccontato. Fffo

ofoto

10

Lo slogan fu coniato dalla Eastman Kodak Company in occasione della promozione della prima fotocamera per non professionisti.

11

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[…] Vedi anche i quadri, sono assolutamente coperti da foto o da cose che per lui hanno un significato […] Questa qui è Lodovica che era nella squadra di calcio della scuola, e che per lui è un motivo di grossa fierezza [...] poi ora da qualche tempo la sua grande passione invece è il rugby … infatti questa è la foto con un noto rugbista […] E poi questa di un suo grande amico che è morto a diciott’anni, […], che è stato lui credo il grosso, il più grande autentico dolore della vita […] comunque anche lui lascia traccia, come vedete, anche lui molto legato alla sua infanzia … questo è lui piccino, questo è lui appena nato, qui è lui piccino … vabè, le foto delle ragazze discrete […]

Rosanna sta descrivendo una bacheca: ci illustra le foto con cui suo figlio l’ha riempita, organizzandola con le “cose che per lui hanno un significato”, ci dice la madre. Ed è vero: non possiamo sapere se esporre la foto della sorella calciatrice sia indice di un buon rapporto fraterno, infatti, ma senz’altro è plausibile dedurre la volontà di definirsi anche attraverso tale legame, che per il fratello significa evidentemente qualcosa di importante,

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anche l’intenzione di esprimere la sofferenza più apertamente, comunicando l’evento a chiunque varchi la soglia della stanza. Infine, il figlio di MariaRosaria decide di rappresentare se stesso anche attraverso i ritratti di alcune belle ragazze, di un campione di rugby - lo sport che tanto lo appassiona - e tramite foto varie di quando era bambino. E’ questa l’immagine di sé che intende restituire.

Nel corso dei nostri seminari di approfondimento si è discusso a lungo su questa particolare modalità espositiva: mostrare fotografie che ritraggono un ragazzo di venticinque anni nell’età della sua primissima infanzia, sembra in effetti il segno di una scelta di continuità rispetto all’età infantile e adolescenziale; apparentemente scevro da desideri di distinzione nei confronti dell’immagine che la madre stessa propone del figlio, il giovane laureato costruisce la sua attuale identità senza ribellioni né resistenze, secondo un’idea di sé che pacifica il tradizionale conflitto generazionale.

Analogie piuttosto evidenti sono riscontrabili nella figlia di Chiara, di quasi ventotto anni, la cui stanza è colma di peluche e trousse porta-trucchi firmate Betty Boop e altre note icone, la maggior parte dal target tipicamente adolescenziale. Da un lato, ecco foto che mostrano le tappe più importanti

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della sua vita, come il diciottesimo compleanno, il primo viaggio da sola con le amiche, la laurea; dall’altro, compaiono immagini di lei da bambina, disposte su bacheche di cui lei stessa è artefice della selezione del materiale. C’è da chiedersi, a questo punto, quali riferimenti sociali leghino le comuni pratiche di autorappresentazione di questi due giovani: le bacheche, le foto da piccoli, gli avvenimenti significativi. Un ragazzo e una ragazza, alle soglie dei trent’anni, con tipologie di camere e di dispositivi di memoria curiosamente affini: i due casi suggeriscono alcune considerazioni riguardo alla selezione dei ricordi e alla loro modalità di espressione. E’ difficile, al giorno d’oggi, conservare un’equa capacità di discernimento riguardo al nostro rapporto con l’autorappresentazione: qual’ è il nostro peso nella costruzione dell’immagine di sé e quanto siamo influenzati, invece, dalla moltitudine di stimoli iconografici che premono intorno a noi? Quanto conta, insomma, la nostra volontà di interpretare il mondo di cui facciamo esperienza rispetto alla sovrapproduzione di sollecitazioni visive a cui l’epoca contemporanea ci sottopone?

Interrogativi come questi sono fonte di profonde riflessioni per Susan Sontag che, nel suo saggio sulla fotografia (2004), solleva forti dubbi sulla nostra capacità di creare una lettura autonoma delle cose che ci circondano; immersi in una società invasa dalle immagini, educati e forgiati dalla cultura dell’estetica12, risulta arduo discernere ciò che è reale da ciò che non lo è, o astrarsi dai fotogrammi che popolano la nostra vita e mediano quindi il nostro rapporto con essa. E in effetti, la linea di demarcazione tra rappresentazione e autorappresentazione sembra distinguersi con fatica in queste due camerette: il tentativo di rendere unico il contenitore di foto di questi giovani, attraverso l’esplicitazione degli eventi importanti della propria vita, si scontra con il comune uso delle bacheche - pratica prevalentemente giovanile, assai di rado

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Nella costruzione di questi archivi di memoria si scorge una contraddizione, insomma, quella tra l’intenzione di individualizzare i propri ricordi e la coincidenza delle strategie messe in atto nello sforzo di autoaffermazione.

... Allora foto di scrittori che mi piacciono, che più che come scrittori mi affascinano come uomini … come … questa di Moravia, per esempio, che è uno scrittore che io non so … un grande scrittore ma non so quanto ami però a me piaceva la manona, questa mano … Pasolini è un personaggio che mi ha affascinato indiscutibilmente da ragazza … per cui è qua oggi … Sandro Penna beh, questa foto è stupenda, proprio, lui sporco, lercio, lì nel letto … e poi bellissimo Mapplethorpe, che mi mandò Giulia da Londra […] Questa è Giulia il giorno della sua laurea, questo è Ignazio, mio figlio quando coi capelli lunghi, ma lui li alterna lunghi a corti, in cucina l’avete visto in versione corta […] Questo è il battesimo di Giulia […]

Ci troviamo di fronte alla libreria del soggiorno di Paola. Accanto alle foto dei figli, Giulia e Ignazio, ella ci mostra delle cartoline in bianco e nero che ritraggono scrittori e personaggi a cui è affezionata, illustrandoceli in un'unica sequenza narrativa, come se i legami che incarnano fossero tutti sullo

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stesso piano. Ovviamente non è così, ma è evidente che in quest’occasione ella sente di volersi presentare a noi come se tutti loro – tanto i figli quanto gli scrittori - facessero ugualmente parte di lei e della sua storia biografica. Sugli scaffali di quell’antica libreria trovano quindi posto foto e cartoline, eventi vissuti in prima persona e aneddoti immaginati soltanto. Come già accennato, quest’interlocutrice è dotta e raffinata, dai gusti classici e con uno spiccato senso estetico; la sua formazione artistico- letteraria riecheggia in tutta la casa, e così pure nelle varie conversazioni.

“ In ogni coscienza individuale le immagini e i pensieri, che risultano dai diversi ambienti che noi attraversiamo, si succedono seguendo un ordine originale, e ognuno di noi, in questo senso, ha una storia” (Halbwachs 2001, p. 109). La risultante biografica di Paola è scandita a chiare lettere su questi ripiani, e la performance con cui ce la racconta è distintamente legata a inclinazioni che sono tutt’ora vive nel suo presente, seguendo quella che Halbwachs definisce “l’intuizione sensibile” (Ibidem, p. 111). Lungi dall’essere una pratica puramente rappresentativa, allora, l’atto del ricordare si configura piuttosto come l’interpretazione corrente di contenuti connessi col passato, secondo una narrazione plasmabile dalla convergenza di influenze sociali.

… Qui naturalmente c’ho la foto di Truffaut, perché è un regista che amo molto, qui i miei genitori, qui una mostra che mi era piaciuta … e questa è mia figlia … ehm … ancora molto ragazzina …

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La commistione di arte e parenti prosegue ancora nelle foto che Paola tiene racchiuse in un prezioso fermacarte napoleonico. Le sue raccolte di immagini presentano tutte un tocco molto personale, ravvisabile anche nei dispositivi scelti per contenerle. Nelle ampie stanze e lungo i corridoi, il concetto di album familiare si estende enormemente, per la varietà di forme e di contenuti. L’immediata prontezza con cui descrive il contesto di ogni ritratto, inoltre, lascia trapelare un forte grado di agency da parte sua, nell’organizzazione dei ricordi come pure nella loro collocazione all’interno della casa. Paola è senz’altro un soggetto attivo, in questo senso, che non lascia al caso la scelta e la disposizione delle foto: lei seleziona e costruisce, con un’impronta che è difficile non notare. Il suo alto grado di partecipazione e di personalizzazione degli archivi familiari induce a prendere in considerazione il fattore della sfera emotiva, su cui Luisa Passerini ci invita a riflettere: “ Il rapporto tra emotività e memoria è un dato acquisito nella ricerca e nella pratica sulla realtà psichica. Ed è anche l’anello che permette di chiudere il cerchio della memoria: senza la base comune del gruppo, o della stessa specie, non si dà memoria individuale; senza memoria individuale non si dà comprensione intersoggettiva, empatia e quindi trasmissione” (Passerini 2001, p. 260). Se in Halbwachs dunque si intravedono a malapena i contributi individuali nella materia del ricordo, per Luisa Passerini essi risiedono invece

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nei modi in cui l’individuo stesso accede alla propria sfera emozionale, reinventando, così, la forma e il senso delle nostre reminescenze.

4. Iconografia vs iconoclastia

E’ di pochi giorni fa13 la notizia dell’addio alla Kodachrome da parte dell’azienda produttrice americana di Rochester: l’esclusione dal mercato della mitica pellicola a colori, protagonista anche di una celebre canzone degli anni Settanta14, sarà effettiva a partire da questo autunno, e la Kodak si appresta così ad archiviare il simbolo di un’era giunta ormai al tramonto. L’ultima rivoluzione nel campo dell’immagine fotografica si è consumata a cavallo degli anni Novanta, con l’ingresso della tecnologia digitale nel mondo delle fotocamere. Ecosistema complesso e in costante definizione, per ottenere questo nuovo modo di produrre immagini è bastato il passaggio dalla luce ai bit, dalla pellicola a un chip di minuscole dimensioni, con una rapidità che ha permesso di saltare dal prototipo al prodotto di qualità nell’arco di pochi anni. Dunque è a colpi di megapixel che si è disputata la battaglia per l’affermazione della rappresentazione sintetica. Le fotografie, adesso composte di particelle discrete e computabili, sono immediatamente fruibili, pronte per essere manipolate, trasformate, condivise o pubblicate in rete. Il processo di digitalizzazione delle immagini, infatti, è un caso emblematico di come un nuovo sistema di rappresentazione visiva possa modificare abitudini consolidate nel tempo, fino anche a stimolare nuove forme di interazione tra le persone. Grazie a scatti rivedibili quasi in tempo reale, i più recenti archivi di fotografia domestica offrono la possibilità di confinare in un passato

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quotidiano, velocizzandone lo scorrere impietoso e cristallizzandone i frammenti in una storia fatta di istantanee e fotoritocchi. Ed è per l’appunto una tecnologia recente, quella che risale più o meno all’ultimo paio di decenni, a convogliare queste immagini della modernità in nuovi dispositivi di memoria: i computer e gli hard disk di varia natura costituiscono le grandi dighe su cui oggi si deposita la nostra produzione di ricordi.

[…] Come per esempio, io odio le fotografie che fate oggi su digitale … io voglio le fotografie. Io le devo vedere, guardare, sfogliare un album, eccetera eccetera, è un’altra cosa ...

Marchingegno infernale per chi intende restare fedele al fascino della carta stampata, l’archivio digitale è ormai un media frequentemente presente nelle case del ventunesimo secolo. Vera esprime in effetti un’opinione molto diffusa: quella di chi preferisce toccare con mano le fotografie, sapere che in qualche anfratto della casa esiste un corpo materiale che le racchiude e le rende fruibili “alla vecchia maniera”, per così dire. Eppure, questi nuovi album della contemporaneità imperversano un po’ ovunque, ormai, tanto che si trovano anche esplorando le risorse del web. Il Blog, per esempio: non è un’onomatopeica, è la contrazione di “web log”, plausibilmente traducibile in “diario in rete”15. Il termine è nato sul finire degli anni Novanta negli Stati Uniti, e indicava originariamente l’insieme dei software utili per tenere traccia degli accessi ad un sito; pochi anni dopo16 è divenuto noto anche nel nostro paese, con l’introduzione dei primi servizi gratuiti dedicati alla gestione di questi innovativi siti telematici. In realtà, il blog ha rappresentato un passo importante nel percorso di democratizzazione dell’utilizzo di Internet: la possibilità di pubblicare documenti in rete si è estesa fino a diventare un

15

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diritto comune, grazie ad uno strumento che non richiede competenze tecniche particolari e che non ha costi economici. La vera novità sta però nel fatto che questi siti offrono l’opportunità di condividere il materiale e interagire direttamente con altre persone, per lo meno quelle che conoscono le vie d’accesso al blog. La questione non è secondaria, poiché implica la presenza di una doppia veste nella sua conformazione: il blog è personale, in quanto diario di vita costruito in modo autonomo e in cui si tiene “traccia” dei propri pensieri; ma è anche pubblico, poiché i documenti possono essere letti da tutti, e persino recuperati indietro nel tempo, visto che un archivio storico del materiale pubblicato viene automaticamente mantenuto attivo. Famiglie che vivono in paesi e continenti diversi si incontrano su questi bizzarri confini, e condividono memorie altrimenti sgretolate, magari sepolte. Le generazioni più giovani sono detentrici di una maggiore dimestichezza con questo particolare sito web, la cui struttura lascia tra l’altro notevoli margini di intervento e personalizzazione. Luogo di memoria e di registrazione quotidiana, dunque, ma anche di relazione e socializzazione. Un luogo virtuale, soprattutto, in cui è lo scambio di opinioni e commenti a collocarlo in un limbo sospeso tra spazio pubblico e spazio privato. E una comunità virtuale, infine, sono i blogger stessi, avventori il più delle volte difficilmente quantificabili.

“Uno dei nuovi aspetti della modernità è la possibilità di combinare la presenza con l’assenza, avvicinando ciò che è lontano e immettendo il passato e il futuro nel presente” (Gillis 1997, p. 229).

Lo stravolgimento dei confini spaziali e temporali della memoria che caratterizza l’era contemporanea è ben descritto da John Gillis, che si riferisce a luoghi virtuali e famiglie immaginate come escamotage compensatori di reti

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comunità di riferimento assai lontane tra loro, ha dato vita alla costruzione mentale di una nuova fisionomia familiare, dalle frontiere notevolmente ampliate: “ Le nostre famiglie non sono più circoscritte alle persone con le quali viviamo […] In realtà, la cerchia di coloro con i quali siamo in rapporti di familiarità è molto più ristretta, ma i confini della famiglia non sono più limitati dallo spazio fisico” (Ibid., p. 230). La popolazione europea, e in maggior misura quella statunitense, reagirebbe alla frammentazione domestica con forme creative di costruzione della memoria, attraverso l’individuazione di nuovi spazi, tempi e circostanze di ritrovo. In un’esistenza dalla natura meno comunitaria, dove l’assenza delle persone fisiche è un tratto ricorrente, sono proprio le comunità immaginate dunque a ricucire lo strappo della modernità: “La nostra potenziale cerchia parentale si è straordinariamente allargata, fino al punto che possiamo cominciare a immaginarci come parte di una grande famiglia umana” (Shoumatoff 1985, cit. in ibid. p. 230). E proprio questo è ciò che consentono di fare anche i social network, ad esempio, tra cui il recentissimo “Facebook” : reti sociali che estendono potenzialmente al mondo intero la possibilità di connessione tra gruppi di persone, dando spesso la paradossale illusione di un’intimità familiare universale. In tutti questi sistemi d’interazione sociale, e negli archivi dalle varie sembianze legati alla rete telematica, la digitalizzazione delle immagini svolge senza dubbio un ruolo chiave per la rappresentazione di persone, memorie, legami: la funzione iconografica è significativamente cresciuta con l’arrivo degli album digitali, e l’esposizione di questi ultimi su canali che connettono le persone da un polo all’altro della terra ha mutato in profondità anche il regime percettivo dell’autorappresentazione. Le foto sono ormai un tratto così distintivo della nostra cultura materiale che davvero rare sono le case che non ne fanno un uso ostensivo massiccio, segno di una modalità espressiva che oggi è parte integrante del nostro costume.

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[...] Cioè proprio c’ho … le le … le persone care per me devono essere per forza rappresentate …

Rosanna si sente di commentare il tavolino pieno di foto dei suoi familiari, quasi tutti ritratti in momenti che segnano passaggi importanti della vita.

Tiziana: - Le foto del mio matrimonio, ecco […] qui la mia famiglia

[…], ecco e questi sono i miei suoceri, due persone adorabili, anche loro, purtroppo scomparsi, e sono i genitori di mio marito.

Ric.: - Ecco … qui la foto è ricostruita, tra l’altro …

Tiziana: - Eh, esatto! Mio marito al computer è … è un mago, e è

riuscito dalle fotografie a ritagliare e ricostruire un … una specie di puzzle … ecco l’insieme … qui è quando fecero i quarant’anni di matrimonio, qui non so se è al mio matrimonio o di qualche altro fratello di mio marito, e qui invece è la mia suocera nella nostra casa al mare …

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