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Capitolo terzo

4. Lo chiamavano il salottino.

Mentre i rintocchi del vecchio orologio a pendolo appeso alla parete del salotto risuonano in tutta la casa, Tiziana, in piedi di fronte a una madonna in argento, nella stanza del figlio minore, ci parla di una consuetudine familiare legata alla figura di sua suocera, ormai deceduta da diversi anni:

Dunque, queste sono regali della mia suocera, mia suocera era religiosissima, e lei a tutti i nipoti, in occasione della comunione, ha regalato, per fare pa… pari e patta, a tutte, ovviamente diversa ma … o un angelo o una Madonna, quindi … si sì … diceva sempre: “un regalo che rimanga, non un qualcosa di … che poi, finita la festa … un regalo che rimanga”. E è rimasto, insomma, si sì. Ce l’hanno ancora. Ma anche i miei nipoti, eh? Lei a tutti a tutti ha fatto la stessa cosa. Come alle nuore ha regalato la pendola … non so se avete visto in sala … anche lì, a tutte e quattro le nuore ha regalato la pendola […] perché a lei gli piaceva la pendola … in effetti anche a me … è un qualcosa che … sì, che mi piace …

Nelle parole dell’interlocutrice c’è adesione al progetto di trasmissione di doni intrapreso dalla suocera. L’orologio a pendolo è un regalo tutt’ora apprezzato, e il ritratto di madonna è appeso nelle camere di entrambi i figli trentenni, sin dai tempi della loro prima comunione. Gli intenti della suocera incontrano ancora la disponibilità di nuora e nipoti, come ci sottolinea Tiziana: un regalo che doveva rimanere, e che in effetti è rimasto. In esso sembrano condensarsi i desideri e le aspirazioni della nonna, la sua visione e relazione col mondo esterno; la sua attuale presenza suggerisce una conferma di quell’universo morale, rispettato come se fosse una preziosa eredità. Pendole e ritratti di madonne, infatti, non sono classificabili alla stregua di semplici doni. Come i gioielli di Mirella, anche questi oggetti seguono rigide regole di trasmissione e di permanenza: nuore e nipoti sono i destinatari, il matrimonio e la prima comunione le occasioni rituali in cui sono stati donati, e la loro duratura affissione non pare essere mai stata messa in discussione. Ricevuti come regali quando ancora la signora era in vita, orologi e quadri

materia si fa garante, in qualche senso, di trasmettere l’anima del defunto: questa si incarna negli oggetti che vengono trasmessi. Tutto ciò viene ricoperto, nella nostra cultura, da concetti come “ricordo”, “in memoria”, termini che nascondono l’imbarazzo di fronte allo statuto che il nostro mondo attuale dà alla presenza, sia essa presenza di cose o di persone. Per esorcizzare quest’imbarazzo si pone in mezzo il “tempo”, come tempo dell’accaduto, e questo dovrebbe difenderci dall’estendersi della presenza di una persona nelle sue cose”.

… Quel cuscino – mi piace tanto – era della mia nonna, un po’ sfatto ...[…] E qui, in queste biografie, viene spesso indicato mio nonno, libri che parlano di mio nonno …

Paola è forse il soggetto in cui è meno evidente l’imbarazzo di cui parla La Cecla: con estrema disinvoltura, infatti, ci indica gli oggetti dei suoi avi di cui lei si è riappropriata e coi quali ama arredare la casa. Essi diventano dispositivi narrativi da cui fuoriescono le vicende dei suoi familiari, e l’entusiasmo che la contraddistingue nei suoi animati racconti tradisce, per l’appunto, un investimento importante su tali oggetti e sulla loro capacità di trattenere qualcosa di chi li ha posseduti in passato. Le descrizioni di Paola vanno oltre il ricordo, da esse trapela una struggente ricerca di contatto coi propri antenati e con la loro presenza materializzata in foto, libri, cuscini e altro ancora.

[…] Questa casa dei miei nonni, che avevano vicino a Lecco, a Maggianico, paese nominato una volta dal Manzoni, nei Promessi Sposi […] e in questa casa io ho passato … diciamo … l’infanzia, le vacanze anche estive, prima di venire in Toscana […] e qui32 viene definita questa casa, immaginata come casa di Donna Prassede […]

Il Manzoni, Renzo e Lucia e Donna Prassede, dunque, sembrano tutti legati a doppio filo con Paola e con i suoi luoghi d’infanzia; riviste e cataloghi parlano della casa che li accomuna e che li ha visti muoversi, crescere, vivere. E dinanzi all’immagine di questa prestigiosa dimora si fatica a distinguere quanti e quali siano gli avi di Paola, tra il nonno, la nonna, e i celebri personaggi dei Promessi Sposi. Se i “famuli”33 erano l’estensione della famiglia d’epoca romana, dunque, antenati e abitanti remoti della stessa casa paiono ampliare le radici familiari delle nostre moderne interlocutrici. Come Flavia, che non perde occasione per ribadire l’impronta della nobile famiglia

Pescatori, che un paio di secoli fa risiedeva nell’antico palazzo di Peccioli, restaurato anni orsono da lei e dalla figlia:

Addirittura qui all’interno c’è scritto cosa contenevano … qui c’era scritto cosa c’era, tovaglie dei padroni, […]coperte … si legge quest’italiano antico … cenci da lume … Diletta l’altro giorno fa: te li levo - 'o!

Nell’interno dell’anta di un mobile del salotto, la famiglia Pescatori aveva appuntato una lista della biancheria ivi contenuta; con ironia Flavia racconta di quando la nipotina ha cercato di togliere l’iscrizione, tentativo fallito grazie a un suo pronto diniego. La passione per la ristrutturazione, e la sfida di riportare alla luce le tracce dei precedenti dimoranti, sono i tratti che più caratterizzano la presentazione che ci viene fatta di questa casa; dalle strutture architettoniche e il pavimento, sino ai mobili, ai quadri e gli accessori, svariati sono gli elementi originali trovati in loco che ancora decorano quelle stanze. Tutt’altro che cancellato, o dimenticato, l’alone dei Pescatori persiste e continua ad aggirarsi nei meandri del vecchio palazzo, e tutti amano circondarsi di questa presenza come penati ereditati con l’acquisto della casa:

Questo … lo chiamavano il salottino … sì!

Lo chiamavano … chi? I Pescatori, appunto. Così risponde Flavia alle nostre domande sulle destinazioni delle stanze. Senza alcun preambolo né avvertimento gli esponenti della nobile famiglia rientrano in media res nei nostri discorsi, e noi siamo costrette a intuire che si parla di loro. Se immagini e foto dei propri cari – viventi ed estinti – davvero latitano in questa casa34, i Pescatori sono invece gli ingombranti antenati acquisiti da Flavia col possesso e il recupero di queste mura.

A proposito di avi, giunge dalla Svezia un’interessante riflessione sul significato culturale del tempo e sui suoi mutamenti nel corso degli ultimi due secoli. Frykman e Löfgren (2003) propongono un’analisi del passaggio dalla società rurale svedese a quella industriale e post-indutriale attraverso la percezione dello scorrere temporale35, articolata tra la cultura tradizionale contadina e quella emergente borghese. Quest’ultima, responsabile della formazione di molti tratti distintivi del senso contemporaneo del tempo, sembra caratterizzarsi sin dall’inizio per una marcata polarizzazione culturale tra svago e lavoro, tra sfera pubblica e privata, ma soprattutto tra fiducia nell’avvenire e atteggiamento nostalgico per il passato. Il culto per gli antenati, ad esempio, non si ritrova affatto nelle abitudini preindustriali: “ I contadini non coltivavano nessuno dei culti degli antenati diffusi tra la borghesia del diciannovesimo secolo” (ibid. p. 33). Di contro, la costruzione culturale della memoria all’interno della società borghese, introduce una concezione nostalgica del passato36 che ben si individua nell’interesse

crescente per la genealogia: “ La nostalgia assume svariate forme nelle espressioni borghesi della memoria [...] esse possono tradursi, ad esempio, nella fascinazione per il lignaggio familiare e la genealogia [...] ” (ibid. p. 34). Tra le nostre intervistate, per l’appunto, c’è chi ha fatto un lungo percorso a ritroso per cercare i propri antenati, costruendo estesi alberi genealogici che arrivano fino al tredicesimo secolo:

... E praticamente lui ha fa ... ha cominciato ‘sta ricerca che era un ragazzino ... questa è la mia e questa è la sua [...] questo è Lorenzo, il mi’ figliolo ... Sergio ... poi se si segue la linea rossa si va a finire [...] fino a Giovanni [...] che è l’unica attestazione che si trova, ma siamo al Mille ... al Milleduecento [...] Praticamente si parte con la parrocchia, arrivi al Mille e Cinquecento ... Dal Cinquecento indietro, te devi andare ... praticamente a volte ci sono stati ... pagamenti di livelli, cause che fanno queste persone ...

Il marito di Marta ha cercato per anni documenti familiari negli archivi delle città di Lucca, Firenze e Pisa. Il risultato sono due gigantesche ramificazioni di nomi e di date che campeggiano sulla parete del soggiorno, e che illustrano le radici della famiglia di lui e della moglie. Non si tratta di ricerche comuni, ma professionali: il dettaglio, la precisione e ancor più

l’estensione, le ha condotte anche all’estero in mostre allestite da esperti e cultori di genealogia. Risalire sino al Milleduecento e percepirsi discendenti di avi così lontani significa ritrovare, nella storia delle proprie origini, il conforto di una sfera altrimenti perduta e malinconicamente desiderata. Per certi versi il contributo degli autori svedesi presenta affinità di contenuto con la tesi espressa da J.R. Gillis37: la continuità generazionale, tipica delle famiglie dei secoli scorsi, era di per sè garanzia della trasmissione familiare di ricordi, mentre il timore dell’oblio che tanto caratterizza i giorni nostri, sarebbe invece responsabile dell’incremento della produzione di memoria nell’epoca contemporanea. “Saper chi siamo come persone, come nazioni, e come gruppi etnici, dipende dal sapere chi eravamo: qualcosa che, nel XIX secolo, non aveva carattere prioritario, ma che oggi è considerato di importanza vitale” (Gillis 1997, p. 214). Tuttavia gli alberi genealogici, come è noto, sono potenzialmente infiniti, e a un certo punto sfumano ad entrambe le estremità: si ricostruisce la parte verso l’alto, e con essa alcune delle generazioni passate, e si lascia in sospeso quella inferiore, con la speranza di un ideale compimento per mano dei posteri. In quelle articolate ramificazioni non si annida soltanto l’interesse per i propri predecessori, ma anche la necessità di lasciare in eredità una traccia di ciò che siamo e di ciò a cui siamo appartenuti, la condivisione di un sistema di esistenze che non cesseranno col venir meno della nostra. Le sfumature inferiori, allora, sarebbero come un testamento implicito, un “patto dei vivi con i morti e dei morti con i vivi” (Wieviorka 1999, p. 44): consapevoli di essere parte di un tutto – di una famiglia, di una cultura, della storia – e dotati di un acuto sentore per il passare del tempo, i costruttori di alberi genealogici sono al contempo archeologi meticolosi del passato e sensitivi testimoni per le generazioni avvenire. Con l’ausilio delle parole di Annette Wieviorka: “Ogni società

funziona malgrado e contro la morte. Ma essa esiste solo attraverso, con, e nella morte. La sua cultura, un patrimonio collettivo di saperi, norme, forme di organizzazione, ha senso solo perché le vecchie generazioni muoiono, e perché essa deve essere trasmessa alle nuove generazioni” (Ibid. p. 43). 38

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La riflessione dell’autrice si riferisce al bisogno di trasmissione intergenerazionale intrinseco a ogni società; in seguito, la sua argomentazione si focalizza sui sopravvissuti ai lager nazisti, e sulla problematicità della trasmissione