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Case e musei: ricette per fermare il tempo

Capitolo Quarto

1. Case e musei: ricette per fermare il tempo

Tutta intenta nella narrazione della storia del suo appartamento, Tiziana ci conduce per stanze e corridoi con una certa disinvoltura, senza accorgersi dello stupore che si disegna sui nostri volti all’altezza del ripostiglio, dove scorgiamo una vecchia lucidatrice degli anni Sessanta utilizzata per la manutenzione di pavimenti trattati a cera. Completa di dischi e con base in alluminio, sarebbe la gioia di tanti appassionati di vintage e modernariato, ma la padrona di quest’utensile da collezione sembra ignorare simili seduzioni, e si limita a spiegarci che il pavimento in marmo è lucido e ben tenuto grazie all’utilizzo settimanale del vecchio elettrodomestico. Attraversato un piccolo disimpegno, ci troviamo poi nella “stanza più vissuta”39 di tutta la casa, quella in cui si stira e si guarda la televisione. Una datata cyclette e un asse da stiro sempre aperto convivono perfettamente con i preziosi quadri di Possenti appesi alle pareti, e Tiziana appare decisamente a suo agio all’interno di questo spazio praticato così intensamente da tutti. La nostra attenzione, però, si sposta su un gruppo numeroso di videocassette esposte ordinatamente sotto il televisore: sono film registrati dai figli e puntate di trasmissioni andate in onda anni addietro. L’obsolescenza degli attrezzi tecnologici non ci lascia indifferenti, e ciascuna di noi non può far a meno di pensare alle rapide sostituzioni che si sono imposte nelle nostre abitazioni, dove lucidatrici e videocassette sono scomparse per far posto a supporti più aggiornati. Tiziana in effetti ci confessa di non avere la propensione a gettare via le vecchie cose, neppure quando smettono di funzionare. Nelle vetrine del suo salotto sono riposti i serviti di porcellana ricevuti in regalo in occasione del matrimonio; negli anni piatti e tazzine si sono decimati, frantumati o scheggiati nel corso

che occupano è ancora quello di una volta, collocati su scaffali a vista da cui non vengono più rimossi.

...“Poi quelle lì sono dell’ovino Kinder... [...] a volte mangiamo l’uovo Kinder ... e ci dispiace buttarli via” ...

Di natura radicalmente diversa sono i soprammobili che Chiara dispone sul forno a microonde in una formazione casuale ma ben ordinata: si tratta dei giochi per bambini che si trovano come sorprese dentro le uova di cioccolato della marca “Kinder”. Man mano che madre e figlia le consumano, l’allegra collezione prende forma e assume dimensioni sempre più ampie, perché a Chiara dispiace doversene disfare.

-“Riuscite a buttar via con facilità le cose?”

- “'o! E’ quello il problema! Io conservo! [...] Conservo un mucchio di cose che ... non le andrò a ricercar mai forse, però ...”

Quasi si sentisse punta sul vivo, Flavia risponde alle nostre sollecitazioni con prontezza e ferma decisione, ammettendo anche lei una

certa difficoltà a sbarazzarsi delle cose inutili o superflue. Mentre ci confida di essere ancora in possesso dei suoi quaderni delle elementari, sorride e ironizza su quanto disordine comporta nella sua casa la sua tendenza conservatrice. L’insoddisfazione per una disposizione caotica e cumulativa degli oggetti appartiene anche a Paola, che con tono rassegnato ci indica la pila di libri e scartoffie sul comò della sua camera:

“Qui vedi ... io dovrei mettere in ordine ... un tempo non avevo questo disordine, ma adesso io non riesco più, io ... deposito [...] è esagerato, adesso mi rendo conto ma non riesco più” ...

Depositare senza riuscire più a sistemare. Nelle parole di Paola c’è quasi un senso di sopraffazione dovuto a un progressivo e incontrollabile accumulo di cose che, nel tempo, sembrano aver avuto la meglio su di lei e sulla sua capacità di riordinare. Vero e proprio deposito d’arte e di ricordi, la sua abitazione appare come un magazzino colmo di oggetti che nel corso degli anni hanno gradualmente accresciuto il loro potere, spingendo la padrona a soccombere di fronte alla loro ingombrante presenza. E imbrigliata nelle sue carabattole si sente anche Rosanna, combattuta tra una forte componente affettiva per le cose materiali e un desiderio altalenante di rottura verso legami così indissolubili:

“Allora, è una casa bella piena ... se si deve dire ... io, in questo momento, la sento anche un pò troppo piena, nel senso che ... è una cosa da cui non mi posso liberare, perchè ... proprio la sento, no? L’attaccamento ...

Quest’interlocutrice consapevole ci parla della sua attitudine alla conservazione come di un tratto caratteriale ereditato perfino dai suoi figli:

“In realtà, caratterialmente non riesco a buttare via le cose [...] siamo ... in questo tutti e tre, sia io che loro due, io e i miei figlioli siamo abbastanza feticisti ... sì sì! Anche loro conservano tutto [...] biglietti di teatro, ritagli di giornale [...] non se ne liberano assolutamente”.

Non si tratta soltanto di fare pulizia e gettar via cianfrusaglie. Sbarazzarsi di un oggetto sembra voler dire sciogliere la relazione che con esso è in atto, un rapporto intenso al punto da chiamare in causa termini come “liberare”, “liberarsi”. E quell’attaccamento alle cose a cui Rosanna si riferisce in modo spontaneo solleva addirittura un concetto denso di significato come quello del feticismo, pratica di cui l’intervistata si appropria per definire sè stessa e i suoi figli, con una punta d’ironia che rende ambigue le sue intenzioni espressive: sta parlando di una forma d’adorazione per i beni materiali o ammette il carattere morboso di un atteggiamento con cui la sua famiglia si rivolge agli oggetti?

“... Ci sono dei momenti che invece vorrei la casa minimalista, vuota, dove non ci sono problemi, dove non c’è nulla, ecco ...”

Il rapporto tra cose e persone, per Rosanna, implica problematicità e complicazioni, insomma; di contro, una casa vuota equivale all’assenza, tanto di problemi che di legami: “dove non c’è nulla”. In queste descrizioni gli oggetti conservati contengono un vissuto dal peso indiscutibile, e condizionano lo stato d’animo e lo spazio abitativo di chi li archivia, secondo

una struttura di sentimento difficile da spiegare. Sono case che assomigliano molto a musei, dove pareti, teche e credenze accolgono materiale la cui importanza non viene messa in discussione a prescindere dalla comodità o dall’utilità pratica. Dove gli oggetti vengono tenuti per ragioni che apparentemente sfuggono ai meticolosi proprietari, i quali, tuttavia, ne accettano la permanenza come una caratteristica strutturale della propria personalità e del proprio stile di vita.

[...] Qualcuno dice che la mia casa sembra la borsa di Mary Poppins ... per cui ... da qualche cassetto ogni tanto li tiro fuori ...

Vera allude ai commenti sulle decine di soprammobili che affollano ogni angolo del suo appartamento. Diversamente dagli altri soggetti, non si lamenta affatto delle cose che si ammassano nei cassetti, negli armadi e sulla mobilia di tutta la casa; mentre stringe tra le mani una scatolina d’argento, ricordo di un’amica compianta, si rivolge a noi e con tono didattico ci spiega:

... Vedi ... il fatto è che ... nonni, bisnonni eccetera ... continuano a vivere ... io sono foscoliana in questo ... continuano a vivere solo se noi li ricordiamo ...

E “foscoliano” è infatti il tavolo del soggiorno che ci invita a osservare, ricco di oggetti cari che poggiano su un piano ricoperto di vetro. Antichi orologi da polso, da taschino, bomboniere, gioielli, piccole cornici, fazzoletti in seta, scatoline e scatolette di ogni tipo: quella di Vera è una collezione di reperti ottocenteschi e di primo Novecento, cruciali per ricordare il passato a cui l’interlocutrice si sente legata, un passato che vive e rivive ogni volta che l’anta di vetro viene sollevata per mostrare il suo contenuto.

“Oggi si ha la tendenza a fare del tempo un oggetto, un oggetto dotato di vita propria” (Frykman, Löfgren 2003, p. 35): la materializzazione del tempo, in questo tavolo dalle insolite suppellettili, è interpretata da portasigarette da sera e collarini per dame. Evidentemente rivolta al passato, si tratta di un’oggettivizzazione che esercita al contempo l’arte della memoria e la cultura del ricordo (Assmann, 2007), confermando ancora una volta la duplice attitudine di Vera40: la gestione di una memoria biografica, sia individuale che familiare, e la trasmissione di una memoria culturale di cui si fa portatrice assieme ai suoi objets témoins (Bonnot, 2009).

Vera: - E poi questa qui ... che ... qualcuna di voi capisce che cos’è?

Ric.: - ... Questa no ... io non ...

Vera: - Probabilmente non l’avete mai vista ... dunque, quando le signore nell’Ottocento andavano ai balli, si appuntavano questo al vestito ... questo è il famoso carnet di ballo ... dove le ... dove le signore scrivevano col lapisino ... chi erano i cavalieri che le avevano invitate [...]

Col carnet di ballo Vera intende stupirci. Esso è davvero l’oggetto che testimonia lo spessore della sua collezione, ne attesta la rarità e materializza un’epoca che in questo modo può essere raccontata. E se è vero che “in generale la storia comincia solo nel momento in cui la tradizione cessa e la memoria sociale si dissolve” (Halbwachs 1975, p. 92), l’epoca riesumata da Vera torna così a essere memoria viva grazie al prezioso carnet e all’intero tavolo del soggiorno. Ma all’interno di quelli che hanno sempre più le sembianze di veri e propri musei domestici, qual’è la funzione degli oggetti? Può realmente riassumersi nella testimonianza del passato e con essa esaurirsi?

LISA

Età: circa 70

Località dell’abitazione: Carrara

Composizione del nucleo familiare: nubile, convive con la sorella

Attività: preside in pensione Data della visita: 15/05/2008

L’intervista si svolge all’insegna dell’atteggiamento direttivo della signora Lisa, che con tono fermo e deciso ci guida nella visita delle stanze senza mai voler essere ripresa. L’esperienza familiare di migrazione in Belgio, dove Lisa e la sorella hanno vissuto per molti anni, emerge in ogni angolo dell’appartamento: da lì provengono infatti i vari oggetti d’antiquariato, a cui loro mostrano di essere molto legate. Cornici a giorno contengono puzzle fotografici che le ritraggono assieme a nipoti e parenti, stampe antiche e piatti lavorati a mano ricoprono le pareti del soggiorno e dei corridoi. I ricordi più intimi sono racchiusi, però, in un armadio nella stanza della televisione: la sua infanzia, la sua vita, e i suoi legami personali riaffiorano come un

fiume in piena con l’apertura di quelle ante.

Dal diario di campo:

“E’ proprio una preside” – esclamiamo uscendo dalla casa di Lisa, commentando i molteplici rimproveri e ammonimenti con cui veniamo apostrofate ogni qual volta rischiamo di avvicinarci troppo a lei. Ci imbarazzano un pò anche i ripetuti battibecchi con la sorella, che cerca invano di mediare il carattere un pò scorbutico di Lisa. L’apertura dell’armadio, oggetto di tanti nostri commenti, è stato l’unico momento di vera intimità con lei.

Lisa: - Ecco, allora se vuole un po’ di libri francesi non fa che aprire ...

Ric.: - Ah, lì ci sono libri, ecco ...

Lisa: - Sì, quella è una libreria, c’è di tutto, è un gran casino ...

... Apra pure, eh?

Il mobile in stile classico ci era stato indicato dalla signora Lisa come uno dei pezzi da lei più apprezzati, acquistato a rate con i primi risparmi del suo lavoro. L’aspetto è quello di una credenza con ante in legno, senza vetrine e scaffali o vista; non ricevendo notizie sul suo contenuto, in un primo momento decidiamo di sorvolare senza fare domande, in un clima di lieve imbarazzo per la fatica di dover incalzare continuamente il soggetto per ottenere soltanto poche e sintetiche informazioni. Entrare in intimità con Lisa resta un’impresa piuttosto difficile fino a che, casualmente, facciamo cenno al suo accento francese: è a quel punto che il mobile rientra in gioco, con la sollecitazione ad aprirlo da parte della padrona stessa che ci previene dicendoci che è pieno di libri.

In realtà, c’è molto di più:

Ric.: - Ecco, quindi tiene libri essenzialmente ...

Lisa: - Ci tengo di tutto, dai libri alla TAC. [...] C’è la sveglia di quando andavo a scuola [...] c’è una montagna di parole crociate francesi ... bello, suona bene, eh? Fa fino perché insomma, la settimana enigmistica la fanno tutti al mare ma io ... parole crociate francesi, con la mia matita e senza gomma, n’est-ce pas? ... Questi sono un paio di occhiali che mi si sono rotti perché mi ci sono seduta su ... cioccolata ...

Libri e documenti sanitari. Una sveglia. Parole crociate, occhiali da vista e piccoli snack. A una prima occhiata queste mensole non rivelano niente di strano o di eccezionale, solo oggetti comuni sistemati alla rinfusa e con scarsa attenzione. Nemmeno sembravano degni di nota, all’inizio, e forse è solo per puro caso che adesso ci troviamo di fronte a osservarli. A pensarci meglio, però, guardando ogni elemento da vicino e ascoltando le parole della legittima proprietaria, le cose qui contenute hanno tutte un sapore particolare: sanno di nostalgia, e di una nostalgia forte.

Lisa non ha conservato una vecchia sveglia qualsiasi, ma quella di quando andava a scuola, da ragazza. I cruciverba nella sua lingua madre sono un palese e comprensibile motivo d’orgoglio, ma colpisce il fatto che si trovino ancora lì, poiché sono tutti completi. Gli occhiali sono rotti, come apprendiamo, e non hanno l’aria di essere in attesa di riparazione. La cioccolata è scaduta, ma ancora intatta nel suo involucro originale, e non pare essere rimasta lì per sbadataggine; occupa semplicemente il posto che le

dispositivi che ne confermano l’esistenza e ne assicurano il ricordo. Il movente foscoliano è ancora valido, forse, ma a differenza della signora Vera qui non si rileva alcuna aspirazione alla trasmissione, o alla testimonianza pubblica, perché il passato materializzato da Lisa ha un carattere del tutto privato, così come privata e all’insegna dell’intimità è la loro discreta collocazione. Se alcuni oggetti servono per materializzare l’atmosfera di un periodo storico - quello dei balli di società e delle dame vestite con pizzi e merletti – certi altri rievocano immagini della propria infanzia, della gioventù, particolari istanti di vita. Il denominatore comune di questi due approcci alla conservazione delle cose, allora, sta nella volontà di mantenere intatto il ricordo di un passato che altrimenti sembra poter sfuggire, e agli oggetti viene affidato il compito di congelare porzioni del proprio vissuto che si teme di dimenticare.

La custodia di reperti come il carnet di ballo o la sveglia dei tempi di scuola, insomma, serve per fermare un tempo di cui non ci sentiamo più padroni41, e per crearne uno parallelo che ci sottragga alle inesorabili leggi della labilità e della caducità: in altre parole, uno eterno. “L’ambiente di oggetti privati e del loro possesso – di cui le collezioni sono una manifestazione estrema – costituisce una dimensione della nostra vita al contempo essenziale e immaginaria. Essenziale come lo sono i sogni” (Baudrillard 1972, p. 135). Dunque le nostre attrici sociali, a loro modo collezioniste perché creatrici di ambienti strutturati – il tavolo di Vera, la credenza di Lisa – sostituiscono una propria temporalità al tempo reale dei processi storici e produttivi (Clifford 2000, p. 255), la fossilizzano in oggetti materiali d’elezione e compensano così il sentimento di nostalgia che contraddistingue gran parte di queste pratiche.

41

Frykman e Löfgren insistono molto su questo concetto a proposito della percezione, tutta moderna, di un tempo tiranno, a cui l’uomo reagisce con escamotage come la materializzazione, ossia la sua rappresentazione in oggetti

Tornandocene via dalla visita a casa di Paola, il “Natale in rosa” è quello che più ci è rimasto impresso e ci risuona nella mente.

... Ogni anno cambiavo il colore delle decorazioni ... allora, c’era il 'atale in rosa ... quindi tutti ... dai fiocchi, legatova ... tovaglioli, eran rosa ...qui vedi le tovaglie e i pizzi? [...] Ecco, questa invece è stata un’altra – vedi – realizzazione, questa era sul giallo [...] poi i piatti di carta, anche quelli, se eran di carta, intonati ...

Fatiche notevoli, quelle di Paola. E una pazienza certosina. Preparare pranzi e cene per decine di invitati e provvedere all’allestimento della tavola – oltre che alla preparazione delle pietanze, ovviamente – con ricercati decori e attenzioni minuziose. Setacciare i negozi della città a partire da settimane prima, in cerca dei materiali adeguati; abbinare lo stile della tavola a quello dei cibi, e annotarli con dovizia di particolari su promemoria tutt’oggi conservati. Poi, ancora, scrivere il menù per ogni singolo ospite. Il Natale in rosa era appunto una di queste elaborate “realizzazioni”, come spiega lei

Sformati ricotta e spinaci: un piattino piccolo vetro, un piatto bianco cucina [...]

Torta prugne: piatto Burberry [...] Torta di carote: piatti gialli [...]

Cioccolato e ricotta: piatto vetro e piatti fiorellini limoges ...

L’interlocutrice si rende conto di essersi affannata per anni in un’attività che richiedeva una singolare dedizione:

... Questo per esempio è stato un menù che avevo fatto quando [...] febbraio millenovecento ... riesci a leggere? 'ovantaquattro [...] e io avevo fatto tutti i menù a mano, per trenta persone [...] cioè, ritaglia i cartoncini, fai ... ma io mi chiedo: ero deficiente?! 'on lo so com’ero ...

Febbraio 1994. Natale 1996. Sui cartoncini dei menù si leggono le date che catalogano cronologicamente pranzi, cerimonie e anniversari, e la macchina fotografica immortalava ogni evento nei minimi dettagli:

Ric.: - E le facevi te queste foto, poi?

Paola: - Si si si sì sì, credo con l’usa e getta, credo. [...]

Ric.: - Perché tu poi conservi le decorazioni?

Paola: - Eh beh, sì, come fai a buttarle? Con tutta la fatica che ...

Dunque Paola costruiva già allora quelli che sarebbero diventati i suoi futuri archivi delle riunioni familiari. Li datava, li fotografava, e li

conservava, quasi sapesse che un giorno avrebbe smesso di darsi tanto da fare per un invito a cena. E adesso che non si organizza più in quel modo, con tanto anticipo e tanto zelo, ci mostra volentieri come era solita festeggiare compleanni e anniversari, occasioni di grandi raduni che – ci confessa – non si verificano più: i figli sono grandi e uno vive persino all’estero, la socialità familiare negli anni si è ristretta e molte delle sue energie sono venute meno. I cassetti dei suoi mobili, però, straripano ancora di perline, nastri di raso, spaghi, candele, fiocchi e centri tavola; e mentre ce li descrive, tirandoli fuori uno ad uno, li ripassa con esclamazioni da cui trapela un misto di stupore e malinconia:

Oh, qui vedete, avevo ambientato anche nel sotto scala [...] Oh, e questi sono i menù! ... Guarda quanta roba ....

I cimeli di quelle festività richiamano immediatamente le circostanze del loro utilizzo, e il tono malinconico con cui Paola li commenta sembra dovuto a una percezione di quegli eventi come vicende estremamente lontane rispetto al presente:

... Io ... davvero non so come potessi ...

Collezionare la moltitudine di elementi impiegati per quelle creazioni ha permesso di cristallizzarne svariati ricordi, e questi racconti ne sono la prova. Tuttavia, ciò che pare evidente è la marcata distanza che l’intervistata avverte tra quei momenti e lo stato attuale delle cose, una distanza che ha in

ritrovo non sono qualcosa di estraneo42, per Paola, quantomeno non lo sono ancora; ma forse, c’è una perdita di consuetudine – Lowenthal direbbe di più, una perdita di intimità – con quella modalità di vivere i pranzi familiari e le cene in compagnia. Ecco, allora, il senso delle collezioni alla luce di questo scarto: l’ampio spazio occupato dalle vecchie tovaglie e dai menù, così come i cassetti che a malapena si aprono dalle tante fotografie che contengono, sarebbero forse lo sforzo di ridurre quella distanza che inevitabilmente il tempo interpone col nostro passato, e il tentativo di rendercelo più intimo attraverso quella che pare una vera e propria “frenesia della conservazione” (Lowenthal 1985). E come Paola, anche Vera e Lisa soffrirebbero della stessa perdita di intimità coi rispettivi trascorsi di vita; in questa prospettiva, tanto il tavolo che la credenza, rappresentano gli strumenti per combattere quell’amnesia modernista (ibid.) generatrice di tante ansie e sentimenti di nostalgia.

Noi deleghiamo gli oggetti, dunque, per sciogliere l’eterno nesso nostalgia-passato-memoria, nella speranza che la loro preservazione possa ridestare familiarità e vicinanza, e nell’illusione che una crescente sedimentazione preservi noi dal senso di perdita.

Forse è così, insomma, che si può spiegare la complessa compulsione a conservare di Rosanna: “E’ una cosa da cui non mi posso liberare”; o di Flavia: “E’ quello il problema! Io conservo!”. Strette nella morsa di un tempo che scorre impietoso, alimentando timori sordi e inconsci, le interlocutrici