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Cfr Arretu, arretu Cuma li funari, GM CALAMOS, Angri (SA), 2002, raccolta di finissime poesie in dialetto Sono riportate alcune formule originali d’affatturazione I tesor

AVVENTURE ETIMOLOGICHE IN FORMA DI PROSA NELLE TERRE DEL CILENTO

23 Cfr Arretu, arretu Cuma li funari, GM CALAMOS, Angri (SA), 2002, raccolta di finissime poesie in dialetto Sono riportate alcune formule originali d’affatturazione I tesor

di Taurino, GM-CALAMOS, Angri (SA), 2004, è un viaggio attraverso la storia, la cultura, la natura di una piccola città d'arte del Cilento, frutto di precisione d’indagine e di correttezza storiografica, corredato da bellissime fotografie a colori.

24 Cfr. G. ROHLFS, Dizionario storico dei cognomi in Lucania, Longo, Ravenna, 1985, s.v. 25 Cfr. G. ROHLFS, Dizionario dialettale delle tre Calabrie, Hoepli, Milano, 1932, p. 247. 26 Cfr. G. ROHLFS, Vocabolario supplementare dei dialetti delle tre Calabrie, voi.II, Munchen, 1967, p. 307. Alla stessa pagina è molto interessante il vocabolo sciò, m., pietra (peso) che tiene teso l ’ordito del telaio.

-nonna, anziana, antica, vegliarda, avola, con aferesi e ripetizione sillabica

vezzeggiativa: lo-scha, sho scha (pronunzia “scioscia”), e, poi, con reiterata aferesi abbreviata (scià)27;

-Attestato anche a Matrice (CB)28;

-In Calabria è attestato in molti paesi. Longobucco, Cetraro (Carmela Portadibasso è soprannominata Scioscia Carmela - v. Mario Velati, poeta dialettale cetrarese), Spezzano (scioscia, suoni, sciosciarella, soricella), Trebisacce, etc.;

- È presente in Puglia, a Tursi, a Santagata di Esaro,....

-S i ritiene anche che il nome medievale scioscia sia italianizzazione del personale ebraico shosha, variante di Shoshana, da cui l’italiano “Susanna”, col significato di “rosa” o, secondo altri, di “giglio”, dal personaggio biblico di Susanna o Shoshana, che, nel libro di Daniele, è rappresentata come simbolo di castità;

-S i registrano Scià Marieti, Sci’Angiuline, dall’ Arberèsht loshen (pronunzia “glioscia”);

-H a anche valore di “zia”, da socia o da soror, sorella del padre o della madre, perciò zia. Queste “zie” venivano “associate alla cura dei nipoti. Spesso erano zitelle o senza figli29;

-V . anche il nostro so sore ( quant’ si’ bell, ‘a sosòre);

-In definitiva sarebbe la sorella maggiore, associata ai genitori nella cura e nella tutela dei fratelli minori, bel titolo di preminenza e di continuità ideale, come “peso”, forse, che “tiene teso” l’ordito della famiglia;

-I l fatto che il vocabolo sia attestato solo nelle aree calabro/lucane e molisane, entrambe con forte presenza di albanesi “grecanici” a partire dal XV secolo, pone il problema della sua etimologia e della sua origine. L ’etimologia, penso, vada ricercata in SOCIO/SOCCIO, lat.volg. * socjus, classico socius, con raddoppiamento della consonante nel gruppo palatale - cj (pronunzia “se”) in posizione postonica. Socius rimanda alla radice sak (forse sanscrita), seguire, accompagnare, colui che segue, che accompagna, colui che si unisce ad un altro un un’impresa comune; è la stessa etimologia di “suora”, lat. “soror”, da un primitivo “suòsor”, con la conversione della s in r. In polacco è “siostra” (pronunzia “sciostra”, quella che più si avvicina nella prima sillaba, in antico slavo russo e boemo è “sestra”, in serbo “sostra”, con l’inserimento di una -t;

-M olto più difficile rispondere al secondo quesito (le origini). Si entra nei “misteri”, per la maggior parte non risolti, della lingua albanese. L ’arbèrischt

27 Cfr. Dizionario Giordano, 2000, pagg.236,685 ne “il Forum dei Casalnuovesi” nel web. 28 Cfr. L. MARCHESANA Storia di Vasto, città in Apruzzo Citeriore, Napoli, da’ Torchi dell’Osservatorio medico - Nel Chiostro di S. Pietro a Majella, 1838, p. 18.

Avventure etimologiche in forma di prosa nelle terre del Cilento

(greco-albanese) è una variante dell’albanese meridionale e, in taluni centri, misto anche con il greco antico. E’ parlata dai discendenti della popolazione greco-albanese sparsa in tutti i Balcani sud­ occidentali (Arvanitici). Fra l’XI e il XIV corposi nuclei sono presenti in Italia come mercenari, tra gli altri, dei Franchi e dei Bizantini. Dal 1461 si mettono al servizio di Ferdinando

d’Aragona, che concede loro terre e villaggi, soprattutto in Calabria e in Molise, ma anche in provincia di Pescara, Avellino (Greci), Foggia, Taranto, Potenza, Palermo. In ogni caso è possibile un trasferimento di nuclei dall’alta Calabria al basso Cilento.

La lingua albanese, secondo gli studi più recenti, è una lingua preellenica, pelasgica, con marcati tratti in comune con quella etrusca e messapica, cioè sarebbe la lingua che precedette quella greca (antica). Fatto sta che in arbèrischt sorella si dice ufficialmente “motér”.

Il nome di Demetra (“madre della terra”) deriverebbe non dal greco, ma dal pelasgico-albanese. Il significato che gli antichi pelasgi (anch’essi misteriosi)

davano alla parola” madre” non è quello di madre, ma di “sorella”, come in albanese!arbèrischt. Si tratterebbe di un appellativo utilizzato per rivolgersi con grande rispetto ad una donna che non è necessariamente giovane, ma neanche particolarmente anziana. Questo stesso significato del termine è ancora in uso nel Sud dell'Albania, soprattutto nella zona di Permei (v. l’enigma della lingua albanese Alcuni dei dell’ Olimpo30).

CONCLUSIONI: il molto cauto orientamento è quello di pensare al vocabolo come doppio appellativo vezzeggiativo rafforzato (scio-scia), del tipo so- sore, legato, in ogni caso, a “socia” ed al suo antichissimo radicale semantico, come indicherebbero gli appellativi “Scià Mariett, Scià Angiulinè”.

* (A velozza

Mi hanno cacciato dalla cucina, le donne, superbamente accaldate da effluvi trionfanti di baccalà, di zeppole, di struffoli. Ifunghi...dopo!

Manco a farlo apposta, evocata da un oscuro fraterno sentire, una telefonata solidale: Pasquale Gigantiello, l’indiscutibile primus inter pares, tra gli amici, un mito micologico tra i boriosi letterari magistri chiachielli.

Dal reale all’ideale, in ogni caso. Mannaggia! Solo poesia, nient’altro che poesia. Merita il portauovo d’argento il magnifico esemplare di ovulo à la coque, colto ancora in formazione. Un ovulocidio, per i veri intenditori...strage di spore che dal cappello non hanno potuto elegantemente e voluttuosamente spandersi sul terreno.

Amanita caesarea, l’ovulo “buono”, il cibo dei re, il re dei funghi,

contrapposto al “cattivo”, VAmanita falloides, pericolosa sotto ogni aspetto.

Nel nostro dialetto, diciamo, ritentano‘a velozza o lu veluozzo (trascrizione fonetica: lu velwottsu), in alcune zone al femminile, in altre al maschile. Mah!

Sì, vabbe’, lu fungu lardaru è chiaramente il porcino, dall’aspetto lardato, ovvero lu siddu, dal latino suillus, maialetto, dall’aspetto tozzo.

Ma ‘a velozzal Veluozzo, “ovulo dell’uovo”, per Pietro Ebner, lo storico per eccellenza del Cilento. Certamente!

Proviamo ad accompagnarlo nella sua maturazione.

È chiamata veloccia, tra i castelli romani, nel Reatino, a Latina, Lariano, nella Terra di Lavoro, il casertano. Il vocabolo non sembra “scendere” al di sotto della linea che separa il basso Cilento dalle prime terre calabre. Trecchina, nel potentino, paese nel quale si parla un particolare dialetto, il gallo-italico, sembra la punta estrema di diffusione ( veluozzo o vezzuolo). Già nel cosentino troviamo un sorprendente vrigliuocciudu, “briglia (?)-occhiuta (?)”.

Se è così la briglia è intesa come “cavezza/capezza”, da caput, “capo”, che genera il basso latino capitium, cioè qualcosa che sta attorno o presso il capo, in genere l’accollatura della tunica. In dialetto calabrese la cavezza è detta capizza o

capu. Quindi il termine potrebbe sciogliersi in “fungo dalla capezza occhiuta, dal capo occhiuto”. Il termine merita, comunque, di essere approfondito nella prima

parte. Ma già più giù, nel Lametino, la denominazione è volta, da studiare.

Lu piru ugghiutu, in Calabria, è la peracotta. L ’ovu ugghiutu, in siciliano, è l’uovo bollito, chioassai ugghi e chiù’ diventa duru. L ’uovo “occhiuto”, dunque, è

l’uovo bollito simile ad un occhio. La forma conferisce il nome al tipo di cottura. Ebbene, nei dialetti del basso Lazio e nel casertano uocciu/uocci non sono altro che “gli occhi”, con forte palatalizzazione della pronunzia, nel senso che la lingua è quasi totalmente appoggiata al palato, se non leggermente arcuata nella parte terminate inferiore.

Ecco, dunque, spiegato veloccia, almeno nella parte terminate, “occhio/ occhi”, preceduti da un “velo”, vel, appunto, “il velo dell’occhio, intorno all’occhio, agli occhi”, cioè quel fungo che rappresenta un occhio(o degli occhi, da ocula, neutro plurale latino) velato, con un velo: vel-oculum> vel-occhium, singolare; vel-ocula>vel-occhia>vel-uocci, plurale. A maggior conforto il bianco dell’uovo, l’albume, è detto velunia.

Veluozzo, velozza, da noi, per la caratteristica trasformazione del gruppo

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dovrebbe far riferimento ad uocchiu/uocciu/uocchi/uoccr, il femminile tende al più raffinato plurale latino ocula, vel-ocula, che riveste della forma anche il singolare, velozza, sommessamente, la “e” che si avverte appena appena; 1* bbelozza, decisamente, al plurale, nella copiosa esaltazione del rarissimo miracolo.

* L’ bbelozza

Mi chiamano a preparare i funghi, le “zaffinate” impastatrici. Accetto, ad una sola, molto semplice, condizione: per cortesia, mo’... jatevenne. Poesia, nient’altro che poesia. E lu veru, Pasca’?

* La zòria

Scuntai (na zoria a li capiddi mele e iuta l’uocchi cupu ri lu mare

Era sgradevole all’udito e violentava la bellezza e i modi gentili d’espressione, anche nel linguaggio, delle magnifiche fiorenti ragazze quella “z” aspra e dura: zoria, zoriedda, ragazza, ragazzina. Il maschile, poi, mi suscitava ilarità: zuoriu, zuorieddu.

M’indignava addirittura la “lettura” registrata nel barocco napoletano di Giovanbattista Basile da qualche studioso: un epiteto desueto, solo femminile, furba, maliziosa, adescatrice, ammaliatrice, ma anche donna da marciapiede, dallo spagnolo zorra, cioè volpe e/o zoccola.

In uno studio di diversi anni fa ipotizzavo una derivazione dal greco “zoàrion”, diminutivo di “zóon”, “animaletto”, in senso vezzeggiativo. Molto probabilmente mi sbagliavo.

Mi venne in soccorso, fortunatamente, il mito. Persefone o Kore, Kora, Core, “fanciulla”, rapita da Ade, terribile dio degl’inferi, per sposarla, contro la sua volontà. Mangiò di malavoglia solo sei semi di melagrana, un trucco per costringerla per l’eternità. La madre Demetra, dea dell’agricoltura, ne provò tremendo dolore. Le messi non crebbero più, l’inverno sembrava non trascorrere mai. Furiosa, si recò da Zeus, che, per l’occasione si fece piccolo piccolo. Contro una donna, per giunta dea, adirata, non c’è gara. Sei semi? Ebbene, solo sei mesi negli Inferi.

Rifiorì la natura. La primavera e l’estate ostentarono di nuovo fiere i loro semi e i loro seni, nei prati rigogliosi e variopinti di Vibo Valentia. Una fanciulla

in fiore era ritornata a sbocciare, Persefone

Gaia dal dolce sorriso, inondando di bellezza

la dura terra.

Foie (nu maggiu/russu ri papagnej tu Pieri mesa/sciacquagli ri cirasa./ Mi zinnavi/rirennu/ e ccù scattìgliatsfriculiavi, a Vuocchi! (nu ‘ntruvugliu:/ sulu chi nun mi vote/ nun mi piglia, avrebbe detto, dopo tanti e tanti secoli, Bruno Durante.

Kore sarà Korinne, in Grecia, piccola

Kore, nel ricordo della “tebana”Corinna, la

grande poetessa, che batteva addirittura Pindaro in ogni gara; poi, definitivamente latinizzata, Corinna, dall” 800, in Europa e specialmente in Italia per via di un’altra grande donna, Madame de Staèl con il suo Corinne ou VItalie. Prese a mano a mano le distanze dal suo kouros, la perfezione della gioventù maschile: koritsi, lei;

agóri, lui. Giusto così. Rivendica autonomia il suo ruolo profondamente

femminile, la fanciulla per eccellenza, che sta per divenire donna.

Zoria, dunque, da Kore/Kora/Core. L’aspra “z” (“ts”) dell’osco, mediato dal

greco bizantino, si sostituisce alla k ( “kappa”) , come, per esempio, in zémmaru,

“kimaros”, il caprone, o in chirì-chirì (o ziri-ziri), voce usata per chiamare il maiale, dal greco kóiros; la metatesi ou, “u” > uo, trasforma kouros in zuoriu, più incline all’evoluzione della pronunzia piena delle vocali. Forse mi sbaglio anche questa volta, ma vivere un sogno vale molto di più di una etimologia certa.

Zorie e zuriedde, come uno sciame, nel Cilento storico, nell’Alta valle del

Calore, nel Vallo di Diano. Bella la raccolta dei canti popolari di Monte S.Giacomo di Sabato Ubaldo ( Vogli’ sparcia lu mare ccu ‘na lenza/’sta zoria

l’agg’havè’ ri putenza); eccezionale il gruppo di musica popolare di Teggiano Pynazoriia, per lo più ragazzi dai 17 ai 22 anni, che hanno imparato a suonare la

ciaramella, il tamburo a cornice, l’organetto, la fisarmonica, la cupa cupa, la falce, la chitarra battente).

A Laurino, chissà, forse le zorie sono più gentili, ma non c’è più nessuno che dedica loro una serenata:

Scuntai ‘na zoria a li capiddi mele E inta Vuocchi cupu ri lu mare

* Lu vicciddu

La cuddhura, in dialetto siciliano, dal greco koulloura=corona, cuddura in dialetto salentino, era una ciambella che gli antichi pastori e viandanti portavano con sé infilata in un bastone o in un braccio. Era il loro pane quotidiano; per molti il solo alimento della giornata. Col tempo con lo stesso nome fu chiamata la forma

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di pane, cotta nel forno, arricchita con uova sode, preparata in occasione della Pasqua e consumata a Pasquetta (cuddura culi’ova).

Non era altro che il nostro vicciu o vicciddu, cu Vuovo. Col termine vicciolvicchiu/vicciu/viccè fu chiamato poi il tacchino in varie zone d’Italia,

importato nel nostro continente dal Messico solo dopo il 1522.

A Bari e, soprattutto, a Palo del Colle, in provincia, si svolge una magnifica sagra, il Palio del Viccio, nella quale si assiste, in occasione del Carnevale, ad una rappresentazione nella quale, a cavallo di asini (Bari) o di cavalli (Palo del Colle) ci si contende un trofeo: un tacchino sospeso su una corda tesa tra due balconi, al cui fianco è una vescica colma d ’acqua che i cavalieri debbono bucare. Auricarro è una frazione di Palo del Colle, che richiama Vauricarro, il “carro d’oro”, carico di covoni di grano appena raccolti. La sagra, quindi, doveva svolgersi, nel passato, in altro periodo dell’anno. Era una festa agraria popolare, legata ai riti della fecondità e dell’abbondanza. L ’animale conteso, quale premio finale della mietitura, pare fosse il gallo, incarnazione dello spirito del grano.

Sempre a Pasquetta in Puglia il giovedì santo le brave massaie preparano i taralli nasprati, che erano portati in chiesa

per essere benedetti. Dopo la lavanda dei piedi un grosso tarallo nasprato (vicciu) era offerto a quanti raffiguravano i dodici apostoli, ai ragazzini e, in generale, a chi avesse partecipato alla funzione.

Ma perché si è passati dal termine

cuddhura! cultura a vicciu! vicciddu*!

Cosa c’entra il rumoroso e litigioso gallinaccio?

In effetti quell’antico pane dei poveri

era il pane di vecce (vicciu/vizza/vézzè)31,

quell’erba infestante che cresce tra il frumento, detta anche cicerchione, la cicerchia selvatica, o anche erba galletta rossa. Presenta semi non più piccoli di un

acino di pepe (cuculiddi di frumento, li chiamano in Sicilia, cioè coccoline), che erano dati in pasto alle galline e, poi, ai tacchini, con qualche seme di hranuriniu (il “granone”, il “granturco”32) ... che ricordasse loro la presunta alimentazione del paese di provenienza.33

31 “veccia”, dal latino vicia; greco bikia.

32 cosiddetto, per un errore di traduzione, “grano per tacchini”, in quanto il loro collo

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