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Fin dal suo arrivo Pirona divenne il principale referente in materia di lavori pubblici sia di quanti a Vienna si occupavano dello sviluppo di Trieste, sia dell’Intendenza Commerciale e degli uffici che avevano specifica responsabilità su quei lavori. In particolare, entrò in stretta e continua relazione con la Imperial Regia Commissione delle Fabbri-che del Litorale. Nel 1749 era stata decisa l’istituzione di un «organo tecnico», subordinato all’Intendenza, «incaricato di sovraintendere alla progettazione e ai lavori di esecuzione e di manutenzione del-le “imperial regie fabbriche”», del-le opere pubbliche dirette dallo Stato centrale. Così venne creata l’Imperial Regia Commissione che iniziò a operare effettivamente proprio nel 1754. Ne era presidente il conte Philipp Zinzendorf, membro dell’Intendenza, ed era composta dal tenente Francesco Bonomo, direttore, dal capitano Giuseppe Conti, «ispettore alle fabbriche, e dal tenente Giovanni Corrado Gerhard, appena giunto da Vienna e destinato ad assumere ben preso la guida della Commissione»1.

Come già scritto, il 22 giugno, a Trieste Pirona aveva firmato il con-tratto per lo scavo del canale con l’Intendenza Commerciale, per la quale era intervenuto proprio Bonomo. I lavori erano stati avviati precedentemente all’arrivo del Veneziano, ma i risultati raggiunti erano deludenti. Ora Mattio s’impegnava a scavare un canale, lungo

1 Dorsi 1985, 75. Il nome del tenente di artiglieria e ingegnere Gerhard, di lingua francese, era Johann Conrad anche se sovente nelle fonti viene indicato come Giovanni Corrado.

380 metri e con profondità di circa tre metri e mezzo. Per questo sa-rebbe stato pagato con 13.300 ducati e le spese di costruzione sareb-bero state a suo carico. Nei pressi del canale Domenico Caparozzolo, Giuseppe Marco Vitali, capitano del porto, e il capitano Cristoforo Nuvolone scelsero lo spazio idoneo per l’erezione di un nuovo arse-nale2. Se il conte Chotek aveva immaginato gran parte della Trieste che conosciamo oggi e il suo waterfront, fu Mattio Pirona a realizzare materialmente quanto era stato ideato.

A rendere fondamentale l’opera di Pirona erano soprattutto tre fat-tori: la necessità di rendere, in tempi rapidi, il porto sicuro rispet-to ai venti per evitare che i capitani delle navi, in particolare quelli delle grandi potenze europee come Olanda, Svezia e Inghilterra, lo disertassero; quella di mostrare a Maria Teresa, in particolar modo nel corso della sua presunta prossima visita, progressi concreti per mantenere il suo sostegno ai progetti ideati per la città; il bisogno del conte Chotek, della Deputazione di Commercio e dell’Intenden-za Commerciale, con interessi non sempre coincidenti, di dimostra-re l’efficacia del loro operato. Per tali motivi, anche agli occhi della Serenissima Repubblica, la costruzione del canale diventò, in quel momento cruciale, il perno attorno al quale ruotavano le sorti dello sviluppo del commercio e del porto franco.

Sotto tali pressioni Pirona si mise subito al lavoro. Già a luglio gli in-formatori veneziani scrivevano, preoccupati, che aveva iniziato «con facilità a seccare il canale», «aveva eretto argini artificiosi» e tutto gli riusciva «ottimamente bene». A settembre, poi, iniziò i lavori di mu-ratura nel canale, cominciando a costruire le rive di mattoni3. Tutta-via, nonostante questo inizio incoraggiante, non tutto procedeva per il verso giusto; il muro costruito cedette perché a sostegno delle fon-damenta non era stata piantata una sufficiente palizzata come rinfor-zo e si ipotizzava che ci sarebbero voluti anni per la sua realizzazione, quando l’annunciata visita dell’Imperatrice richiedeva che fosse ulti-mato in tutta fretta4.

2 AST, IC, 12, 22 giugno 1754.

3 ASV, IS, 618, Nicolò Moro, 20 luglio e 6 settembre 1754.

4 ASV, IS, 903, 19 ottobre 1754, 619, Paolo Moro, 30 novembre 1754 e 618, Nicolò Moro, 6 settembre 1754.

Per molti mesi i lavori procedettero in modo altalenante, rallentati o accelerati in base soprattutto alla disponibilità di mano d’opera. In quel momento, infatti, il problema principale era il reperimento di lavoratori, specializzati e non specializzati come gli scavatori e i carriolanti. Se i primi arrivavano soprattutto dalla laguna veneziana, Pirona cercava di far arrivare i secondi da Monfalcone e dal Friuli ve-neto e imperiale. In questo aveva risultati altalenanti, probabilmente a causa delle disponibilità finanziarie e perché costoro in gran parte erano lavoratori occasionali che si dedicavano anche ad altre attività soprattutto nelle campagne, e i lavori procedevano con velocità di-scontinua. Un altro elemento che influiva sui lavori e sull’affluenza di forza lavoro erano le condizioni climatiche. Con l’inverno il freddo eccessivo e i ghiacci bloccavano gli scavi e facevano sì che gli uomini impegnati da Pirona, forse anche per la mancanza di alloggi idonei, lasciassero Trieste. In ogni caso, talvolta erano al lavoro in cento, tal-volta solo qualche decina, taltal-volta addirittura 450 e 700 ai quali anda-vano aggiunti gli operai specializzati5.

Tutti erano agli ordini del Veneziano che pagava bene offrendo una mercede che, probabilmente non per caso, rimandava al sentire del mondo del lavoro nella città lagunare e alle richieste di un salario giornaliero di tre lire. L’esperienza di un lavoratore assoldato da Mat-tio ci offre un esempio di questo. Avendo avuto notizia delle possi-bilità di impiego, Giovanni Battista Batistuta lasciò Cormons, allora dominio asburgico, e col fratello si recò a Trieste, presentandosi a Pi-rona che stava reclutando scavatori. Venne fatta loro una offerta allet-tante. Si iniziava con una paga di cinquanta soldi veneziani al giorno, ma, se ci si dava da fare, il salario giornaliero sarebbe salito a tre lire. Dopo una settimana, dato che i due avevano soddisfatto le aspetta-tive di Mattio, la promessa venne mantenuta e l’aumento concesso. A tali condizioni i due fratelli lavorarono tutta l’estate e nell’inverno successivo, diventando poi uomini di fiducia di Mattio6.

L’annuncio che l’Imperatrice non sarebbe venuta in città come previ-sto provocò un momento di rallentamento nei lavori, ma non

dimi-5 ASV, IS, 618, Nicolò Moro, 20 e 27 luglio e 10 agosto 1754, 619, Paolo Moro, 19 ot-tobre e 4 dicembre 1754 e 5 febbraio 1755 e 616, Antonio Modena, 19 marzo 1755.

6 BCH, AD, 21 C 56, 14 gennaio 1762, deposizione di Giovanni Batistuta. Su Batistuta

nuì l’interesse di Vienna per la realizzazione del canale7. Nel febbraio del 1755, una spia veneziana, nel constatare il progresso dei lavori, scriveva che «li bastimenti del Levante e Ponente che sapranno della sicurezza del porto, tutti […] [a Trieste] veleggeranno»8. L’aspettativa era tale che a marzo, quando in modo provvisorio venne aperta la bocca del canale, erano entrate talmente tante barche che l’avevano «intieramente occupato» e accostandosi ai muri costruiti sui due lati e non ancora terminati, li deterioravano. Inoltre, gli abitanti della Cit-tà nuova vi gettavano «entro, senza ritegno alcuno, gli escrementi umani ed altre immondizie», rischiando di ridurre, in breve tempo, il canale «in miserabile stato». Tutte le barche vennero fatte uscire e si ordinò che nessuna vi entrasse fino a che l’opera non fosse stata terminata a eccezione di quelle impiegate nei trasporti dei materia-li occorrenti per le costruzioni, con l’obbmateria-ligo di avvicinarsi ai bordi con «attenzione», utilizzando «tavole» e senza far cadere cose e pietre in acqua. L’Intendenza stabilì, inoltre, «sensibili castighi» per chi vi avesse buttato immondizie9. In quel mese Pirona era impegnato con 450 uomini a completare l’opera scavando, con una nuova macchina da lui realizzata, la bocca verso il mare e, a fine estate, il canale era co-struito e utilizzato dalle imbarcazioni, che potevano entrarvi e attrac-care lungo le sue rive, trovando finalmente riparo rispetto ai venti di bora, anche se continuavano i lavori per garantirne la manutenzione e completare alcune rifiniture10. Se fino ad allora il porto di Trieste era sostanzialmente una spiaggia dove le imbarcazioni si appoggiavano in modo assai casuale, si scavarono i fondali e si iniziò a dotare le rive di muraglie, ancora sul modello di Venezia, cominciando dal tratto che andava dal Canal Grande al molo San Carlo.

7 All’annuncio che Maria Teresa non sarebbe venuta in città, quasi tutti i lavori erano stati sospesi, con la sola eccezione di quelli del secondo molo e del canale (ASV, IS, 619, Paolo Moro, 14 dicembre 1754, 616, Antonio Modena, 19 gennaio 1755 e SM, 763, 3 gennaio 1754).

8 ASV, IS, 616, 19 febbraio 1755.

9 AST, IC, 14, 8 marzo 1755.

10 ASV, IS, 619, Paolo Moro 14 dicembre 1754 e 19 marzo, 12 aprile e 16 settembre 1755, 255, 2 settembre 1755 e 619, 6 settembre 1755. In realtà si trattava di una mac-china cavafango che era stata costruita anni prima da Domenico Caparozzolo, ri-sultando però difettosa e inutilizzabile. Era stata quindi affidata alle cure di Pirona che l’aveva messa in grado di funzionare.

Il canale non era privo di imperfezioni; ad esempio, un tratto della riva minacciava ancora di crollare, c’era chi sosteneva che era stato edificato «malamente», che il fondo non era stato fatto a regola d’arte – essendo più profondo nella parte centrale, alcuni ipotizzavano che le «sporcizie del mare» si sarebbero accumulate lì – e la sua posizione era poco difesa rispetto ai venti che soffiavano dal Levante. Questi, in settembre, con il loro impeto avevano provocato l’affondamento di un trabaccolo carico di pietre e a novembre, sempre per la stessa causa, era andata a picco una peota e una nave francese era stata dan-neggiata. Tuttavia, nonostante i mormorii dei marinai che temevano «la solita potentissima bora», nel complesso risultò essere funzionale e abbastanza sicuro11. In più era la prima opera portuale edificata con successo e, a differenza dei due moli, in tempi rapidi – all’incirca un anno – e con spese contenute. Pirona aveva mantenuto il suo impe-gno, risolvendo il più grave ostacolo allo sviluppo del porto e del commercio e assicurandosi grande prestigio e influenza in città e an-che presso la corte di Vienna.

Le costruzioni

La rilevanza assunta dalla figura di Pirona in Trieste si comprende nella sua completezza solo se collocata nel contesto del ruolo svolto dal settore edilizio nel quadro dell’economia cittadina e dell’impor-tanza dell’afflusso dei lavoratori sudditi di Venezia per la formazione di una forza lavoro numericamente adeguata e dotata dei saperi ne-cessari per supportare lo sviluppo della città. Infatti, se la costruzione delle infrastrutture utili alla navigazione e al commercio era prere-quisito essenziale per la crescita di Trieste, la funzione del comparto edilizio non si limitava a questo.

Mattio, come abbiamo visto, diresse il lavoro di centinaia di uomini e, nei momenti di massima attività, i braccianti ai suoi ordini era-no cinquecento, seicento e anche ottocento12. Ad affollare la città, a questi si aggiungevano i lavoratori impegnati nelle opere finanziate dallo Stato e non affidate direttamente al Veneziano – come quando

11 ASV, IS, 619, Paolo Moro, 19 luglio, 6 settembre e 19 novembre 1755.

erano contemporaneamente in costruzione il Canal Grande e il molo San Carlo – e quanti erano impiegati a edificare case e magazzini per conto di privati e, in quegli anni, anche la chiesa ortodossa13.

Gli informatori della Serenissima descrivevano, in modo un po’ con-fuso, il processo in atto e forse, nella loro narrazione, rispecchiavano i modi della rapida e disordinata espansione della città. Secondo quan-to scrivevano agli Inquisiquan-tori di Staquan-to, alle case che erano in costru-zione, o erano già state costruite al momento dell’arrivo di Pirona, se ne aggiungevano costantemente altre e, nell’agosto 1755, affermava-no che da gennaio ne eraaffermava-no state approntate sessanta, «tra le grandi, piccoli e mediocri», e molte erano ancora in costruzione. Di queste, dieci venivano edificate per conto della Comunità cittadina, ed erano piccole, formate da un solo appartamento con tre camere, una cu-cina, una sala e magazzini al piano terra; tre erano realizzate dallo Stato per destinarle ai bisogni degli officiali delle varie magistratu-re ed erano composte, ognuna, da due appartamenti; una decina di abitazioni erano costruita da mercanti per il proprio domicilio o per l’affitto, come forma di investimento, e un’altra decina, di dimensio-ni ridotte, erano costruita, per farvi risiedere le proprie famiglie, da falegnami, tagliapietre e fabbri; sedici, infine, avrebbero formato una nuova contrada, con tutte le case uguali, ed erano costruite per conto di piccoli mercanti artigiani. A queste, tutte situate nel borgo nuo-vo, se ne aggiungevano altre sessanta edificate in Città vecchia. Tale sforzo non soddisfaceva la domanda che era superiore all’offerta e di conseguenza molti vivevano in sistemazioni di fortuna, definite nelle fonti «casotti», e sulle barche e gli affitti erano carissimi14.

Proprio gli alti canoni di locazione erano segnalati di continuo dalle spie veneziane che li ritenevano causa, unitamente all’alto prezzo dei generi alimentari, dell’eccessivo costo della vita che caratterizzava Trieste. Per sfruttare i continui aumenti, i proprietari degli immobili cercavano di stipulare contratti della durata massima di un anno e nelle missive non mancavano esempi della situazione: la vedova di una mercante che pagava un canone di seicento fiorini annui per una abitazione per cui in precedenza se ne versavano solamente

venti-13 Sulla costruzione della chiesa Katsiardi 2018, 65-94.

quattro o una casa del valore di mille ducati che si affittava per tre-cento ducati all’anno15.

A causare questa pressione sugli immobili era l’aumento della po-polazione, sostenuto dalla massiccia immigrazione. Accanto ai lavo-ratori impegnati nel settore artigianale e manifatturiero, agli addetti ai servizi, al commercio e alla navigazione, agli impiegati presso gli uffici statali e ai militari, la maggior parte dei nuovi arrivati era com-posta proprio dagli occupati nel settore edile. Sempre gli osservato-ri veneziani, per spiegare i meccanismi che sostenevano lo sviluppo delle città, insistevano su questo. Fino agli anni ’40, nel periodo in cui la città, per la possibilità di sfruttare i collegamenti marittimi col Po e le coste della Penisola italiana, era stata retrovia per le truppe im-pegnate sui fronti europei e italiani, la crescita demografica di Trieste era dovuta soprattutto ai militari che lì si erano insediati, provocan-do il conseguente aumento di addetti alla navigazione e facchini, di caffetterie e negozi di viveri. Con la metà del secolo i militari erano stati sostituti da falegnami, muratori, scalpellini e tagliapietre perso-ne «meccaniche» e «operai» che attratti dalle speranze «del profitto» erano venuti in città16.

Tali dinamiche avevano un forte impatto non solo sul numero degli abitanti, ma anche sui modi del loro stabilirsi in città che erano fluidi e discontinui. Il dato che abbiamo già ricordato, di una popolazione urbana composta da circa cinquemila triestini naturali, cinquemila forestieri permanenti e duemila lavoratori fluttuanti, cercava, infat-ti, di fotografare una situazione in costante mutamento17. «Da qua-lunque parte si giri non si vede altro che semplicemente plebaglia come facchini, manovali, muratori e simile gente di folla»; «allettati, per dire vero, dalla speranza del proprio guadagno, tutto dì vi con-corrono in folla dal Friuli, dall’Istria et altri circostanti luoghi taglia pietra, falegnami, mureri, oltre un non sicuro numero di maestranze e di manovali in modo che […] si contano in adesso in Trieste poco meno di 3000 di questo genere»18. Tali descrizioni, che attestano un tumultuoso affollarsi, si alternavano ad altre che, a distanza di un

15 ASV, IS, 618, Nicolò Moro, 1 giugno 1754.

16 ASV, SM, 843, 2 aprile 1754; 713, 25 maggio 1752 e 5 febbraio 1755.

17 ASV, SM, 843, 28 marzo 1754.

breve intervallo di tempo, avvisano di un altrettanto rapido svuotarsi della città a seconda dell’andamento dei lavori. Nel gennaio del 1755, gli osservatori della Serenissima informavano che erano partiti sette-cento muratori e tagliapietre per lo più «carniolini» ed era «scemata questa piazza» per quanto poco «popolo» vi si ritrovava. A causa del freddo erano stati interrotti sia i lavori pubblici che quelli privati e in febbraio erano «sbandati più di mille e cinquecento operai». Nel marzo del 1757 era stata la mancanza di finanziamenti a ridurre l’occupazione e le partenze di «intere famiglie» erano «giornaliere»; il porto appariva spopolato e addirittura vi erano delle case sfitte. Il bisogno di mano d’opera innescato dalle opere necessarie a edifica-re una batteria di cannoni a difesa dello scalo aveva consentito una breve ripresa19. Inoltre, la forza lavoro non si affidava completamente a Trieste e manteneva aperti canali con le zone di provenienza e con occupazioni alternative, come accadde nell’autunno del 1754 quando si registrò carenza di uomini perché impiegati nella vendemmia nelle campagne friulane20.

Se tale fluidità poteva causare dei ritardi, faceva sì che la forza lavoro non gravasse sul sistema Trieste nei momenti di difficoltà già reso debole dai limiti di capitalizzazione, ma fosse comunque mobilita-bile velocemente. Così, gli impiegati nel settore edilizio diventavano un tassello importante nel sistema economico della città sia perché impiegati nelle costruzioni necessarie, sia perché, con la loro presen-za e la richiesta di servizi che esprimevano, erano anche un fattore di stimolo alla crescita stessa. Inoltre, il settore delle costruzioni co-stituiva una delle principali fonti di finanziamento della città grazie agli investimenti di Vienna. Mantenere alto l’interesse della sovrana, far apparire lo sviluppo di Trieste possibile, far credere conveniente la realizzazione delle infrastrutture, mostrare risultati tangibili era-no tutte strategie vitali per la tenuta del sistema e rendere costante l’afflusso di risorse. Su questo punto si registrò una saldatura tra gli interessi dei membri burocrazia periferica, quelli dei loro superiori e patroni in Vienna, del ceto mercantile e dei soggetti impegnati nei

19 ASV, IS, 619, Paolo Moro, 3, 14 e 30 gennaio e 5 febbraio 1755, 6 marzo, 28 maggio e 20 agosto 1757.

20 ASV, IS, 619, Paolo Moro, 19 ottobre 1754. Per un inquadramento teorico di tali meccanismi vedi Cafagna 1983, 971-984.

lavori pubblici. Ad esempio, proprio nel 1754, l’Imperatrice inviò una missiva molto informale e colloquiale ai conti Hamilton e Zinzendorf in cui la minaccia di essere richiamati a corte era accompagnata da questa ammonizione: «attendete a governar meglio e che li operarii faccino il debito loro acciò possi essere contenta alla mia venuta»21. In particolare gli ufficiali asburgici stanziati a Trieste erano interessati in prima persona, anche se talvolta occultamente, ai traffici commer-ciali e alle costruzioni e la loro carriera era strettamente connessa allo sviluppo della città. Così, pur se nel contesto dei legami che li col-legavano alla corte e ai ministri, svilupparono strategie proprie che prevedevano anche l’invio di informazioni parziali o false al centro, il sostegno a pratiche elusorie e illegali messe in atto dai mercanti e il conseguimento di obiettivi diversi da quelli dichiarati ufficialmente dalle magistrature statali. A volte questo avveniva in accordo con i poteri a cui si riferivano in Vienna e all’interno delle contese che ani-mavano la corte ma, a partire dagli anni Cinquanta, cominciarono a elaborare, in accordo col ceto mercantile, meccanismi di chiusura della piazza da concorrenze esterne. In tal modo inoltre, contribui-vano a far sì che parte dei finanziamenti provenienti dal centro fosse utilizzata, pure grazie a illegalità ed elusioni, in base alle logiche del ceto mercantile locale, correggendo le titubanze e gli errori delle po-litiche della corte e degli interessi esterni alla città. Se tali pratiche ebbero aspetti clientelari e corruttivi, come abbiamo visto nel caso della costruzione del primo molo, nel quadro dei modi di funziona-mento propri dello Stato di Antico Regime fecero sì che importanti risorse venissero messe al servizio della crescita come, nel descrivere tale meccanismo, alcuni anni dopo rilevò Marco Monti, console della Serenissima in Trieste, scrivendo che, pur di far sviluppare la città, «non si risparmiano spese che aggravano il pubblico e ridondano a profitto di vari privati» e si era «accostumati» a dar mano a progetti destinati a fallire e provocare «inganni»22.

Così, a metà degli anni Cinquanta, Pirona era al centro di tali mecca-nismi e delle contese che ne scaturivano e questo faceva sì che la sua

21 ASV, IS, 616, Antonio Modena, 3 ottobre 1754. La missiva era stata tradotta in ita-liano e nella versione inviata agli Inquisitori appariva firmata semplicemente come Maria Teresa.

rilevanza fosse pure maggiore di quella che gli derivava dalle sue competenze tecniche. Il suo ruolo fu fondamentale per mitigare la principale, secondo gli osservatori veneziani, debolezza della piazza che consisteva nella scarsità di capitali a disposizione degli