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Al di là dei miti, i modi della crescita di Trieste, dai primi anni del Set-tecento, sono molto più complessi e più affascinanti rispetto a come sono stati tradizionalmente raccontati. Il cumularsi degli arrivi, a ca-vallo della metà del secolo, e il denso intrecciarsi di vite non furono un dato casuale e, se frutto di scelte e destini personali ed esito di strategie individuali, erano strettamente connessi all’evoluzione del contesto economico e sociale e in questo vanno collocati. Proprio al-lora, infatti, le spie e gli osservatori della Repubblica di Venezia, da sempre scettici sulle possibilità di sviluppo di Trieste e sulla efficacia delle politiche asburgiche, costatavano quasi sorpresi che la città sta-va cominciando a «prendere il nome di porto franco»1. La crescita avvenuta, la maggior solidità e lo sviluppo dei traffici erano il risul-tato di un processo complesso e contraddittorio, non descrivibile con le tranquillizzanti e teleologiche letture che raccontano di uno Stato illuminato e centralizzatore – Vienna – che con le sue politiche mer-cantilistiche costruiva una ‘artificiale’ e passiva Trieste2.

Innanzitutto, questo non era possibile nel quadro dei modi del go-verno di Antico Regime e delle tecniche e degli strumenti disponibi-li. Come abbiamo visto, se i deboli mercantilismi statali iniziavano a rivendicare poteri e obiettivi di gerarchizzazione e disciplinamento, non avevano ancora i mezzi e la capacità per rendere concrete le

1 ASV, SM, s. 1, 843, 20 aprile 1754.

2 Per il confronto con le tradizionali visioni di una Trieste città ‘artificiale’ vedi An-dreozzi 2011, 13-25.

loro pretese di territorializzazione. Nel ’700, secolo ‘globale’ in cui le interconnessioni e relazioni facevano aggio su confini e territo-ri, le ‘periferie’, riprendendo le parole di Bandino Giacomo Zenobi, erano il luogo nevralgico del governo legate al centro da reti di rela-zione diadiche ‘face to face’ su cui viaggiavano, in senso bidirezio-nale, pretese e interessi e di cui elementi centrali erano gli equilibri, le contrattazioni e le gerarchie acefale3. In tale quadro, le dinami-che globali incontravano le vite e i corpi nello spazio locale ed era tale incontro a determinare i modi di funzionamento del sistema. Inoltre, l’Impero asburgico era una realtà scarsamente centralizzata e caratterizzata dalla presenza di una pluralità di centri di potere e di sviluppo autonomi e in concorrenza tra loro e i suoi modi di funzionamento erano a loro volta caratterizzati dalla presenza di interessi contrapposti e intricati, all’interno della corte, del governo, dell’aristocrazia e dell’alta burocrazia, e dalla scarsità delle risorse a disposizione del Principe. Tale insieme di fattori aveva, quindi, reso particolarmente complesso il processo di sviluppo avvenuto nella prima metà del secolo, risultato sovente ‘incomprensibile’ alle stesse, pur attente, autorità veneziane4.

Almeno dalla metà del ’600, in Adriatico si registrò una decisa di-scontinuità. La capacità della Repubblica Serenissima di controllare quelle acque e imporre le sue logiche ‘mercantiliste’ diminuì a fron-te del protagonismo delle piccole e medie marinerie dell’Adriatico e delle forze mercantili e ‘terrestri’ che a esse si raccordavano. Queste disegnarono un fitto reticolo di rotte, nuovo almeno nei dati quantita-tivi e nelle gerarchie, caratterizzato da una estrema mobilità di donne e uomini. In esso le merci ‘pesanti’ e ‘povere’ – per utilizzare due aggettivi forse inadatti col solo intento di distinguerle dalle merci di maggior valore specifico – erano protagoniste5. Un esempio è dato da quella che le autorità veneziane chiamarono «la guerra del riso». Si trattò di un contenzioso che, all’inizio del secolo, coinvolse la

Repub-3 Zenobi 1994, 14.

4 Per le dinamiche di potere nella corte, nel governo e nell’alta burocrazia asburgica vedi Dickson 1987, I e II.

5 Sui traffici adriatici in tale arco temporale Costantini 2002, 7-22; Ciriacono 1975 e 1998, 34-53; Salvemini 2007, 155-202 e Andreozzi 2005b, 153-201. Sui porti non ‘for-disti’ Carrino e Salvemini 2006, 209-254 e Buti e Bouëdec 2010.

blica di Venezia e il Regno di Napoli per la commercializzazione del riso lombardo e veronese, attraverso la foce del Po in direzione del sud della Penisola. Un commercio, ritenuto illegale da Venezia e in cui non mancavano aspetti di ‘frode alimentare’ per il mescolare risi di qualità diverse del Milanese, Mantovano e Veronese. Il tutto diede vita a un duro confronto tra i due Stati e i diversi operatori economici interessati e in cui Trieste venne coinvolta anche in seguito all’entrata del Regno di Napoli nell’orbita degli Asburgo6.

Fu proprio all’interno di tali circuiti e contese che l’idea di fare di Trieste un porto franco prese forma. Gli interessi che, in posizione antiveneziana, partecipavano a queste concorrenze cominciarono a dare una prima formalizzazione a quella idea e, avviando anche una azione di lobby presso la corte di Vienna e contrastando l’azione di chi era contrario allo sviluppo di Trieste, come la imperiale Bolzano che agiva in difesa della via dell’Adige o i poteri che miravano ad altri progetti di sviluppo, iniziarono a premere sull’imperatore Carlo VI d’Asburgo per la sua realizzazione. Tali interessi erano legati ai traffici di olio, cereali, sale, vino e in genere ai prodotti dell’agricol-tura e pure all’approvvigionamento degli eserciti, collegando così il mondo dei proprietari delle terre a quello dei commerci. Da parte sua il patriziato originario triestino, dalle scarse risorse, si limitava a rendere disponibili gli spazi per i commerci, incamerando i guadagni che questo assicurava, mentre i suoi membri più dinamici costruiva-no strategie di carriera all’intercostruiva-no dell’aristocrazia e della burocrazia imperiali. Motore della crescita, quindi, furono i network auto-orga-nizzati e trans-statali, incentrati nel mondo adriatico e ionico e nei circuiti commerciali che innervavano tali mari, forti di ramificazioni territoriali negli Stati che si affacciavano sulle acque (Impero asburgi-co, Venezia, Impero ottomano, Stato Pontificio, Regno delle due Sici-lie) e nell’Europa continentale7.

Così, mentre si avviava un lento spostamento delle competenze am-ministrative e giurisdizionali, compreso il controllo sulle vie di

co-6 Per la «guerra del riso» ASV, SM, II s, 7, Austriaci e Andreozzi 2009, 130-133. Sulla nuova geografia dei domini degli Asburgo Verga 1994, 13-53; Di Vittorio 1969 e Frigo 2005, 9-34.

7 Su questi si veda Antunes e Polonia 2016. Sul patriziato e la Comunità cittadina Gatti 2001, 359-371 e Kandler 1858. Su Bolzano Bonoldi 2014, 99-127 e 2012, 29-58.

municazione, dalle città e dai poteri – in particolare quelli propri ai ceti aristocratici – dei territori interni alle coste, l’idea del porto franco fu portata avanti da alcune personalità che si posero quali mediatori tra la corte di Vienna, da un lato, e i network auto-organizzati e gli interessi territoriali e commerciali a essi collegati e localizzati nel Re-gno di Napoli, nell’Impero asburgico, a Graz, nello Stato Pontificio, nella Repubblica di Venezia e nelle aree legate al Po, dall’altro. Come esempio si possono fare i nomi di alcuni tra i personaggi coinvolti: il conte bolognese Filippo Ercolani, i conti Giovanni Battista Colloredo, Giovanni Antonio Rabatta e Maurizio Strassoldo, che inserivano le loro carriere tra l’alta burocrazia asburgica e le contee di Gorizia e Gradisca e il Friuli, e il principe Giovanni Ferdinando Porcia, il mar-chese di Vasto e Pescara, Cesare Michelangelo d’Avalos, e il conte Rocco Stella, protagonisti della vita di corte, ma pure, gli ultimi due, collegati ai traffici d’olio con la Puglia8.

Se ai network il porto franco garantiva soprattutto la difesa imperiale rispetto ai divieti e ai controlli della Serenissima sui traffici e sull’ac-cesso al Po, per Carlo VI era un mezzo per creare l’agognata marina militare e soccorrere le affaticate finanze con i proventi del commer-cio. Oltre all’istituzione del porto franco e all’avvio della costruzio-ne di una prima rudimentale dotaziocostruzio-ne infrastrutturale, i principa-li provvedimenti adottati dalla burocrazia asburgica consistettero nella creazione di una compagnia privilegiata per il commercio con l’Impero ottomano e nell’istituzione di una fiera franca a Trieste. Dal punto di vista di Vienna, questi provvedimenti erano modellati sul ruolo rivestito per secoli da Venezia e anche sul mito dell’Aquile-ia romana, ma i loro esiti e durata furono effimeri e si rivelarono in parte errati e condotti con risorse insufficienti agli scopi. Tuttavia, la capacità delle forze del mare di piegarli alle loro logiche e stra-tegie fece sì che comunque riuscissero a essere stimolo alla crescita. Mentre i prodotti agricoli continuarono ad avere un ruolo rilevante

8 Sul processo di sistemazione giurisdizionale e amministrativa vedi Faber 2003, 21-53. Su tale opera di mediazione e la nascita del porto franco Andreozzi 2015, 1-18. Su tali progetti e i personaggi coinvolti ASV, IS, 1262, 2 maggio 1711, 1263, 12 feb-braio, 2 aprile, 8 agosto e 20 dicembre 1712, 28 gennaio 1713, 17 marzo 1714, 16 febbraio 1715 e 9 gennaio e 6 marzo 1717 e 317, 18 agosto, 22 novembre e 3 dicembre 1717; Mandelli 2004; Sanz 2004, 51-78; Alcoberro 2002a, 30-37; Verga 1994, 19-22; Crescimbeni 1721, 67.

all’interno di traffici, i cui circuiti comprendevano l’Adriatico, le isole del Levante veneziane e ottomane, la Sicilia, il Po e la Val Padana e l’Europa continentale e orientale, furono tali forze e tali commerci a sostenere effettivamente la crescita del porto e della città. Poi, negli anni Trenta l’Impero venne coinvolto nelle guerre europee – nella Guerra di successione polacca (1733-38) e in quella di successione au-striaca (1740-48) –, perdendo interesse per lo sviluppo di Trieste che divenne retroterra del fronte in cui l’esercito asburgico era impegna-to. Dal porto passavano le truppe dirette al e provenienti dal Po e i rifornimenti. Questo, tuttavia, non significò la fine dello sviluppo che continuò guidato dalle donne e dagli uomini appartenenti alle rotte dei traffici e alle terre a esse collegate, capaci di rispondere ai bisogni di servizi espressi dall’Impero e di continuare a utilizzare la piazza di Trieste per i loro obiettivi. Fu un momento caratterizzato da iniziative imprenditoriali spontanee e di dimensioni limitate, dal continuo af-facciarsi in città di persone che venivano per saggiarne le potenzialità e da traffici che abbisognavano di dotazioni infrastrutturali minime. Tutto ciò sostenne anche la crescita demografica, resa possibile dal contesto di apertura della città, priva di barriere all’entrata per chi ap-portava risorse mancanti o scarse, che consentì alle forze del mare di installarsi a Trieste e utilizzarla per le proprie strategie, dando vita a un cosmopolitismo essenzialmente materiale e costruito dal basso. La multietnicità di Trieste fu esito soprattutto dei circuiti del mare che le trasmisero la propria composizione e che, intrecciandosi con i bisogni dell’economia e della società e in rapporto con il dato quantitativo dei residenti, crearono l’atmosfera cosmopolita della città. I limiti di capi-talizzazione e la scarsità di competenze spinsero, infatti, ad accoglie-re tutti gli apporti necessari. Questo ebbe ovvie ricadute nel accoglie-rendeaccoglie-re flessibile il mercato matrimoniale e nemmeno negli affari mercantili e manifatturieri vennero messe in atto preclusioni religiose o etni-che. Le società formate da membri di religioni e culti diversi, come vedremo nel corso di questi intrecci, erano la norma. Così, alla metà del secolo, si era formato un ceto mercantile composto da persone di diversa provenienza (Penisola italiana, Levante e Impero ottomano, Balcani, aree interne dell’Impero e Europa continentale) e di diverse religioni e culti (Cattolici, Protestanti, Ebrei e Ortodossi). Tale ceto

rispecchiava la composizione della città e, cementato dall’interesse, aveva elaborato un primo sentire comune9.