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Nell’aprile del 1754, il veneziano provveditore generale di Palmano-va, Alvise Foscarini, impegnato in prima linea nel sorvegliare Trieste, inviò al Senato della Repubblica una relazione che raccoglieva i frutti del lavoro delle spie e degli osservatori che agivano a suo servizio. In essa valutava che nella piazza ci fosse «un giro di capitali» di 677.000 fiorini, con un aumento di 188.000 fiorini – circa il 27% – rispetto al 1740, anno della morte di Carlo VI. Se Foscarini con questo indica-va la capacità di capitalizzazione della piazza, un altro informatore di Venezia, sempre quell’anno, forniva alcuni dati inerenti al valore dei traffici: nel 1753 erano giunte per via di terra merci per 4.114.579 fiorini e dal mare per 1.323.163 fiorini. Si trattava, però, di numeri forniti dalla pesa pubblica e, quindi, utili solo come indicazione di grandezza e non per fini statistici. Non bisogna, comunque, imma-ginare la crescita di Trieste come una direttrice progressiva e lineare, ma semmai come il risultato del combinarsi di balzi in avanti e re-pentine e profonde crisi. Per questo chi osservava la città in momenti diversi poteva esprimere giudizi contrastanti in base alla congiuntu-ra. Anche riguardo ai commerci i flussi erano variabili e mutevoli. La capacità del porto, infatti, fu quella di sommare ogni tipo di traffico e merci, rimediando così alla variabilità dei traffici e allo scarso peso specifico di molti flussi e quindi riducendo i periodi di inattività e le difficoltà congiunturali. Questo, però, non significava che non ci fossero merci protagoniste e continuità10.

Se ‘da terra’ Trieste era «in corrispondenza» soprattutto con le aree interne dell’Impero, con la provincia di Vienna, con Stiria, Carinzia e Croazia e con il Friuli veneto, le rotte del mare la connettevano in par-ticolare con il Regno di Napoli e i porti della Puglia, con le foci del Po

9 Andreozzi 2020b.

10 ASV, SM, 843, 2 aprile 1754 e IS, 618, Nicolò Moro, 1 giugno 1754. Sull’imprecisione dei dati raccolti in Trieste dalle autorità asburgiche vedi Andreozzi 2013a, 467-496. Salvo diversa indicazione quanto contenuto nel presente paragrafo si basa sulla relazione di Foscarini.

e con le isole greche veneziane e ottomane di Ionio e Mediterraneo. Le merci principali erano sempre quelle che avevano caratterizzato i traffici nei decenni precedenti: olio, soprattutto, e prodotti dell’agri-coltura e generi alimentari. Si era fatto consistente il commercio di ce-nere di potassa che dall’Ungheria arrivava in città per essere inviata verso Ponente su navi che inalberavano bandiera inglese e olandese. Inoltre, accanto ai traffici più cospicui e più costanti, il porto iniziava a essere animato da una pluralità di presenze e merci che, pure se singolarmente saltuarie e limitate, nel loro comporsi e sommarsi ini-ziavano a definire la sua atmosfera. Vi arrivavano mercanti levantini, ortodossi, sudditi ottomani, maltesi, ragusei, dalmati, francesi, porto-ghesi, inglesi, olandesi, fiamminghi, svizzeri, danesi, veneti, siciliani, livornesi e sudditi dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli. La rete delle corrispondenze si infittiva: Lisbona, Cadice, Londra, Amsterdam, Amburgo, Marsiglia, Morea, Missolungi (Mesolongi), Smirne (Izmir), Candia (Heraklion), Dulcigno (Ulcinj), Scutari (Shko-dra), Durazzo (Durrës), Antivari (Bar), Fiume (Rijeka), Buccari (Ba-kar), Barletta, Trapani, Ancona, Goro e le foci del Po, Friuli, Napoli, Messina, Livorno, Genova, Sanremo, Senigallia. La lista delle merci che transitavano per le banchine si allungava: cereali, mandorle, fichi, carrube, uva passa, limoni, arance, vino, formaggio, ortaggi, legumi, pesce salato e secco, liquori, sapone, zucchero, cacao, pepe, cannella, vaniglia, sete, lane, cotoni, lino, zolfo, stagno, cremor tartaro, mercu-rio, vetro, prodotti di ferro e rame, armi.

Lo sviluppo dei traffici era accompagnato dall’aumento della comples-sità del tessuto economico e sociale della città e, come già accennato, dal rafforzamento del ceto mercantile. Oltre a marinai, capitani e la-voratori, il mondo del commercio era composto da una ottantina di persone. Tra di loro vi erano cattolici, protestanti, ebrei e ortodossi sia originari di Trieste, sia provenienti da fuori città e da zone comprese nell’Impero asburgico o appartenenti ad altre entità politiche come lo Stato della Chiesa e le Legazioni pontificie, il Ducato di Milano, la Re-pubblica di Venezia e quella di Genova, l’Impero ottomano e la Svizze-ra. L’elenco delle comunità di origine, non sempre indicate, compren-de Milano, Ferrara, Bologna, Mocompren-dena, Genova, Bergamo, Murano, Treviso, Capodistria, Cattaro (Kotor), Vienna, Lubiana, Gorizia, e poi Carniola, Carinzia, Istria, i Balcani, le aree interne dell’Impero e Corfù e le isole greche del Levante. Foscarini frazionava questo insieme in

diversi sottogruppi in base a volume di affari, vocazioni, saperi e spe-cializzazioni, classificandoli come mercanti e negozianti, spedizionieri, bottegai, merciai, speziali e sensali. Tale classificazione non era precisa, soprattutto per quanto concerneva i capitali disponibili, e il veneziano cercava di dar conto di una realtà ancora molto fluida, caratterizzata da una continua evoluzione, gerarchie incerte, rapide fortune, improvvise entrate e repentine uscite. Se alla metà del secolo la scena economica e sociale appariva maggiormente stabile rispetto ai decenni precedenti, la descrizione del Provveditore generale va comunque intesa sempre come una istantanea di un contesto in movimento.

In ogni caso, Foscarini poneva al vertice una ventina di negozianti e qualche ditta mercantile tra i quali spiccavano in modo netto Mi-chel Angelo Zois – di origine bergamasca, attivo a Trieste e Lubiana e specializzato nel traffico di prodotti di ferro – con un capitale di circa un milione di fiorini, e la ditta finanziaria commerciale interna-zionale Brentano Cimaroli e Venino, con sedi a Genova, dove era la direzione principale, Vienna e Trieste e ramificazioni a Milano, Li-vorno e in altre piazze europee, che, impegnata nel prestito agli Stati, era stata tra i principali finanziatori delle guerre di Maria Teresa11. Il distacco tra costoro e il resto dei «commercianti e negozianti» era reso evidente dalle stime del capitale a disposizione degli altri, valutato al più in 30.000 fiorini. Gli «spedizionieri» elencati erano diciotto e, dotati di capitali stimati tra i 2.000 e i 40.000 fiorini, sembrano distin-ti dai primi soltanto in base alla relazione che avevano con le mer-ci che trafficavano: di proprietà i primi, per conto di altri i secondi.

11 Sulla ditta Brentano Cimaroli e Venino si veda Felloni 1971, 380-426. Alla metà degli anni ’50 era coinvolta, come vedremo, nel traffico dei talleri d’argento di Ma-ria Teresa e nel commercio dei grani dell’UngheMa-ria (Panariti 2012, 41-45). Foscarini scriveva che Zois, di origine bergamasca, si era trasferito in «tenera età» a Lubiana nel negozio di Pietro Codelli, rinomato mercante di «ferrarezze». Siccome Codelli era senza figli quando morì lasciò l’attività, con capitale di 120.000 fiorini, a Zois e a un altro agente, un certo Gasparini, con la condizione che per dieci anni portasse-ro avanti l’attività assieme sotto il nome di Codelli. Passati i dieci anni, avrebbeportasse-ro dovuto versare al suo erede, il dottor Codelli di Gorizia, 120.000 fiorini e dividersi a metà gli eventuali utili. Cosi avevano fatto, ma con esito diverso. Mentre Gasperini era fallito, Zois aveva rilevato la fucina dove si producevano acciai, chiodi e ferra-menta e in cinque anni aveva fatto grandi fortune. Quindi aveva affidato il traffico a due agenti e si era messo a investire in «signorie e castelli per lasciare li suoi figliuoli comodi di entrate» (ASV, SM, 843, 2 aprile 1754).

Lo stesso si può affermare per gli otto «bottegheri» che vendevano alla minuta filati, cotoni, sete, cereali, formaggi, generi alimentari, agrumi, molluschi e pesci, droghe, corde, ferramenta e porcellane con capitali che andavano da 5.000 a 40.000 fiorini e che si sommavano ad altre «piccole botteghe di poco valore» che vendevano commestibili «all’uso di campagna». A parte erano elencati tre merciai, che si occupavano di panni di seta e pellicce, forniti di buoni capitali, tre con minore «fondo» e quattro speziali. A completare il mondo del commercio nove «sensali patentati», di cui quattro ebrei e due greci, a cui se ne aggiungevano altri non indicati perché di «cattiva» fama. Come abbiamo accennato, Foscarini scattava, però, un’istantanea a un mondo fluido la cui forma seguiva, con estrema velocità, gli an-damenti congiunturali esito delle dinamiche economiche, naturali e politiche. Se mettessimo in fila i documenti che riportano le descri-zioni di quel mondo e i continui mutamenti e li facessimo scorrere, come una volta si faceva con gli angoli dei quaderni, avremmo una sorta di cartone animato in costante movimento. Questo vale anche per le gerarchie tra i mercanti e la composizione del ceto mercantile, ancora in quegli anni caratterizzato da improvvisi e repentini falli-menti e da un costante afflusso di forze nuove. Negli anni Cinquanta tale afflusso si era fatto particolarmente corposo con l’affacciarsi sulla piazza di nuovi protagonisti come, ad esempio, Panajotti Glegoracci, mercante greco suddito turco, nato a Candia e domiciliato in Smirne, che si era trasferito a Trieste, affittando casa e magazzini e iniziando a commerciare in olio e altre merci del Levante a capo di una impresa con filiali, affidate ad altri componenti della sua famiglia, a Smirne e Canea (Chania). Nel 1752, poi, si era fatto raggiungere da tutta la famiglia, facendo il mercante «con tutta quella puntualità e buona fede» necessarie a svolgere tale attività12.

Inoltre il mondo del commercio era strettamente legato a manifat-tura e artigianato. Se il secondo forniva servizi e prodotti indispen-sabili ai traffici, come le botti, il ceto mercantile controllava diret-tamente la prima, ricoprendo i ruoli di imprenditore e finanziatore e affidandosi soprattutto a dirigenza e mano d’opera provenienti dai domini veneziani. La logica che guidava gli investimenti dei

mercanti imprenditori era quella di sfruttare i privilegi del porto franco per produrre merci da offrire in cambio di quanto giungeva in porto, diminuendo l’esborso di denaro e assicurando mercanzie per la ricarica dei bastimenti, fattore fondamentale per attrarre im-barcazioni. Negli anni Quaranta a comporre il settore secondario era stato essenzialmente un edificio in cui i mercanti ferraresi Rocci e Balletti avevano avviato la produzione di rosolio, sapone e ac-quavite e altre due piccole botteghe dove si distillavano gli stessi liquori. Inoltre in città erano allora attivi un calderaio, una tintoria, un pastificio e sei bottai e si fabbricavano ancore e gomene. Anche manifattura e artigianato erano settori estremamente fluidi e sot-toposti a forti oscillazioni congiunturali e con gli anni ’50 avevano iniziato a svilupparsi con maggior slancio. La cantieristica era in ripresa ed erano state avviate due nuove saponerie, una stamperia e la produzione di canditi, confetture, calze e tessuti di seta e lana, cremor tartaro, cera e candele e un ulteriore centro dove si produce-va rosolio. Il settore artigianale contaproduce-va fabbri, falegnami, muratori e scalpellini, due vetrai, otto sarti, cinque tra barbieri e parrucchieri, un cappellaio, dieci calzolai, due maniscalchi, due sellai, tre orefici, un fabbricante di cioccolato e uno di bilance e quindici bottai13. Conosceremo meglio alcuni dei protagonisti del mondo del com-mercio e della produzione cercando di dipanare gli intrecci della storia di Trieste.