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Quando Vienna si riaffacciò su Trieste, e con maggiore continuità e nuove aspettative, si trovò ad affrontare le problematiche connesse al governo non solo dell’economia, ma delle dinamiche complessive concernenti la città e il porto. Questo in un contesto del tutto nuovo, sia per i mutamenti economici, sociali e demografici in atto, sia per-ché, come scrive Carlo Gatti in un fondamentale saggio sulla Trieste di metà Settecento, la corte di Vienna ora si relazionava con una città privata, per l’arretramento del patriziato, «della sua élite storica, cul-turalmente e politicamente conforme alla monarchia asburgica»47. A garantire tale conformità aveva contribuito anche il fatto che molti patrizi erano stati parte del mondo dell’aristocrazia e della burocra-zia che costituiva il nerbo delle strutture amministrative e militari dell’Impero e delle reti di relazione, connesse a tale mondo, che ne congiungevano le varie parti con Vienna. Inoltre, ancora nei primi decenni del ’700, il ruolo rivestito nel governo dai centri di potere localizzati nelle aree interne aveva concorso al medesimo risultato. Invece, alla metà del secolo, oramai i centri di potere scivolavano ver-so la costa, le istituzioni di governo della Comunità cittadina avevano perso la presa sul centro urbano e il patriziato era, come ceto, costret-to in posizioni marginali. Basti pensare al fatcostret-to che l’istitucostret-to stesso della cittadinanza aveva sempre minor rilevanza come status giuridi-co giuridi-concesso in base alle norme proprie dei poteri urbani, sostituito da pratiche sociali di residenza e uso degli spazi. Quindi, ancora come scrive Gatti, «la realtà politica rischiava di cadere in una sorta di ano-mia per la presenza schiacciante di un coacervo di personaggi giunti

46 ASV, IS, 619, Paolo Moro, 14 e 21 dicembre 1754 e 12 e 19 gennaio 1755.

da ogni dove, economicamente sempre più ricchi ma privi di consoli-dati legami fra loro oltre che con la città e col potere centrale»48. Nell’affrontare la sfida posta dai modi di governo di una non omoge-nea e fluida Trieste, la riorganizzazione delle articolazioni del potere centrale e dell’amministrazione incentrata sulla Intendenza Commer-ciale fu una prima risposta e accanto a questa come referente venne scelto il ceto mercantile cosmopolita che sostituì le istituzioni della Comunità cittadina e l’antico patriziato originario. Infine, la burocra-zia asburgica si relazionò con le comunità etnico-religiose – le nazioni – per gli aspetti più strettamente connessi alle dinamiche quotidiane, familiari e religiose49. Una spia della Serenissima Repubblica descri-veva così, con toni scandalizzati, il fermento sociale frutto delle spin-te provenienti dalle reti del mare e dal mondo dei commerci: «alle falde del castello verso la Città nuova, di legno e coppi […] [costrui-scono] un gran serraglio per formare un teatro et una gran plebe, per convenir dopo l’opera, [organizza] una sontuosa festa, essendo greci, ebrei, luterani, cristiani tutti impegnati a spender senza misura per veder illuminazione, orchestra, apparato e rinfresco da monarca»50. Dare ordine a tale realtà non era facile; basti pensare alle diversità cetuali e alle difficoltà di inserire quel Corpo e le nazioni nelle strut-ture gerarchiche tradizionali, ancora imbevute di idiomi e solidarietà nobiliari. Così tra il ceto mercantile cosmopolita e le magistratu-re imperiali che rispondevano alle logiche interne della corte, della burocrazia e delle catene, anche clientelari, ad esse proprie, si avviò un intreccio e un confronto i cui esiti non furono affatto scontati e non possono essere racchiusi in un banale e rassicurante processo di rafforzamento dello Stato avviato e guidato da un centro. In Trie-ste le politiche erano risultato di un intenso lavorio frutto dei modi stessi delle pratiche di governo proprie dell’Antico Regime e degli strumenti disponibili che, come abbiamo accennato, assegnavano

ri-48 Gatti 2003, 376 e 2005, 35-72. Su tali questioni Cerutti 2012; Cerutti, Descimon, Prak 1995, 281-286; Prak 1995, 330-357; Bellavitis 1995, 359-383.

49 Sulle «nazioni» a Trieste Dubin 1999; Gatti 2008; Katsiardi- Hering 2018 e i saggi sull’argomento editi in Finzi e Panjek 2001. Per i mercanti ortodossi in Mediterra-neo Grenet 2016; Pakucs-Willcocks 2017, 111-137; Falcetta 2016; Luca 2010b, 313-336; Katsiardi-Hering 2009, 409-439, 2012, 135-162 e 2008, 169-180.

levanza alle periferie. La trasmissione del potere avveniva sempre attraverso reti di mediazioni diadiche, anche clientelari51.

Bisognava, in ogni caso, far affluire e stabilizzare competenze e sa-peri, di cui l’Impero era sprovvisto, nel campo delle costruzioni, dell’artigianato e delle manifatture, dei commerci, dell’amministra-zione, della navigazione e del mare. Tuttavia era anche necessario inserire Trieste nel contesto dei sistemi di potere e delle gerarchie imperiali cetuali e amministrative e inoltre era forse ancora più ri-levante inserirla all’interno delle relazioni di interessi, familiari, ce-tuali e clientelari, che innervavano l’Impero. In tale contesto il ceto mercantile strinse forti legami con la burocrazia asburgica periferica che aveva a sua volta una composizione multietnica essendo espres-sione delle varie aree appartenenti e collegate all’Impero52. Tale bu-rocrazia era, sovente in modo occulto, interessata personalmente ai traffici commerciali e agli andamenti economici della città e colle-gata a Vienna da catene clientelari che raggiungevano la corte, l’alta aristocrazia e la burocrazia. In tal modo, fu mediatrice ed elemento cardine delle reti di relazioni che iniziarono ad avvolgere Trieste. Questo, per di più, avvenne in un momento in cui, dalla metà de-gli anni Cinquanta a quella dede-gli anni Sessanta, da Vienna si tentò di avviare una profonda revisione normativa concernente aspetti nevralgici del sistema economico e commerciale di Trieste quali la circolazione monetaria, le misure, le dogane, i dazi, i modi della raccolta e trasmissione delle informazioni concernenti porto, traffi-ci, artigianato e manifatture, sanità, navigazione, diritto societario e fallimenti, approvvigionamento urbano. Tale revisione, che coin-volse anche i poteri insediati nelle aree e nelle città interne, provocò conflitti, resistenze e mediazioni nel corso dei quali la burocrazia periferica fu protagonista, stringendo, anche per questo, forti rela-zioni con il ceto locale per comunanza di interessi anche personali e contribuendo alla costruzione di una identità della piazza53.

La Borsa fu uno dei luoghi di tale confronto e mediazione e nel contempo la sua creazione rappresentò l’inserimento ufficiale del

51 Andreozzi 2003b, 191-199.

52 Sulla formazione culturale del ceto burocratico di stanza a Trieste Trampus 2008, 112-134.

Corpo mercantile nelle strutture del governo. I mercanti, infatti, si erano costituiti come corpo già a partire dagli anni Trenta e ancora negli anni Cinquanta questo continuava a rappresentare gli interes-si di quanti operavano sulla piazza, ma in modo del tutto informa-le, fluido e auto-organizzato54. Il 21 maggio del 1754, l’Intendenza Commerciale aveva comunicato l’intenzione dell’Imperatrice di aprire in città una Borsa e a Pasquale Ricci era stato affidato l’in-carico di studiare il progetto assieme ai commercianti che riteneva più esperti. Il 23 di quel mese Ricci aveva invitato sei «negozianti» a discutere «seriamente la materia» e poi a fare una relazione scritta contenente il «loro parere rispetto a’ mezzi, constituzioni, operazio-ni, privilegi e prerogative annesse all’accennata istituzione di una Borsa in Trieste». L’argomento non doveva entusiasmare e l’unico a presentare la relazione fu il già citato Pietro Cornioli. Gli altri ma-nifestarono «repugnanza» a esprimersi sulla materia, sostenendo di non disporre delle «cognizioni» e dei «lumi» necessari, nonostante i ripetuti inviti di Pasquale che più volte affrontò la questione du-rante gli incontri col Corpo mercantile. Forse in questo modo venne lasciata carta bianca al Livornese55.

Comunque fosse, il suo lavoro fu lungo e il regolamento completato solo nell’agosto dell’anno successivo. L’istituzione della Borsa preve-deva la formazione di una Commissione o Deputazione che di fatto coincideva, ufficializzandolo, con il Corpo mercantile o, per lo meno, con la parte di esso più solida e stabile. A essa, infatti, potevano par-tecipare «i soli negozianti», intendendo con tale termine «tutti i diret-tori, compagni e complimentari di una ditta o casa mercantile aperta e stabilita con e senza loro nome in Trieste che non tenga fondaco o bottega e non venda a taglio o misura e la quale abbia prodotto la sua ditta nel Tribunale mercantile»: quindi tutti i mercanti all’ingrosso iscritti a tale tribunale e, naturalmente, alle riunioni poteva parteci-pare solo un rappresentante per ogni entità ammessa. Qui i mercanti avrebbero potuto riunirsi, discutere delle questioni che li

riguarda-54 AST, IC, 281, 4 giugno 1732 e 284, 59v-66, 1740.

55 AST, IC, 233, 3 settembre 1754. Ricordo ancora che in quel tempo con il termine negoziante si indicavano i mercanti che avevano il giro d’affari maggiore e di più ampi orizzonti e che in questo libro i termini negoziante o mercante sono usati come sinonimi.

vano, fare affari, dare e ricevere informazioni. La Commissione do-veva nominare, a dicembre, un direttore e un vicedirettore di Borsa che sarebbero rimasti in carica per dodici mesi. Poi, alla scadenza, il vicedirettore sarebbe diventato direttore e la Commissione ne avreb-be eletto uno nuovo. Ogni partecipante alla riunione era sottoposto al voto dei presenti che esprimevano il loro eventuale gradimento oppure la loro contrarietà. Quindi tutti erano sottoposti al giudizio dell’assemblea e il risultato della votazione era frutto della differenza tra i voti favorevoli e quelli contrari ricevuti da ognuno. Luogo pre-scelto per le riunioni era la loggia sotto il palazzo della comunità, ab-bastanza spazioso e «comodo tanto alla gente di città, quanto a quella di marina»56. Situato al ‘confine’ tra le due parti in cui era suddiviso il centro urbano, la Città nuova e quella vecchia, «fu per l’innanzi pa-lazzo pubblico, o staffa del comune, ove tenevasi i consigli dei patrizi, e si trattavano le cause politiche, giurisdizionali e criminali». Sulla contigua torre dell’orologio, o del porto come anche era chiamata, vi erano tre campane; con la «maggiore» si «convocavano i patrizi al consiglio» e si dava il tempo alla vita della città; con la «terza cam-pana […] si convocavano i negozianti di Borsa». Nello stesso palazzo aveva sede il Teatro vecchio, detto anche di S. Pietro57. La coincidenza e gli usi degli spazi testimoniano ‘materialmente’ le sostituzioni e gli accavallamenti tra ambiti normativi e di potere che caratterizzavano il centro urbano.

Così, il 7 dicembre 1755, la Commissione si riunì per le elezioni, ma in casa di Ricci, che era presidente della riunione con diritto di voto, mentre notaio e attuario di Borsa era l’avvocato Giuseppe Francesco Gabbiati che, avendo assunto tale incarico, aveva rinunciato ad ac-cettare cause in cui fossero coinvolti mercanti di Borsa. Oltre a questi due, tra i presenti vi erano molti tra i protagonisti dei nostri intrecci e principali mercanti della piazza. Ne citiamo alcuni: Giacomo Bal-letti, Giuseppe Belusco, Marco Blanchenai, Ignazio Craiter, Giovanni Brentano, Pietro Cornioli, Bernardo, nipote di Michel Angelo Zois, David Lochmann, i fratelli Luzzati, Ventura Morpurgo e Marchetto Vita Levi. Di loro torneremo a parlare. Nella votazione, tra gli altri, Giacomo Balletti ricevette tredici voti favorevoli e nove contrari e

56 AST, IC, 233, 28 agosto 1755.

Marco Blanchenai nove favorevoli e quattordici contrari e così Bal-letti risultò eletto58. L’8 dicembre dell’anno successivo, al momento del rinnovo delle cariche, Ricci, sempre presidente dell’adunanza che stavolta si svolse nei locali della Borsa, interpellò i presenti sull’o-perato di Balletti. Siccome tutti se ne dichiararono soddisfatti la sua carica venne confermata, facendo eccezione al regolamento. La prima grana che dovette affrontare fu, nel gennaio 1757, il risolvere il pro-blema del riscaldamento dei locali della Borsa. Per resistere al fred-do, aveva fatto istallare una stufa in ferro che, però, fumava troppo, rendendo l’aria irrespirabile. Venne sostituita con una di porcellana posta in un magazzino adiacente assieme alla legna59.

Alle elezioni del dicembre 1757 risultarono eletti, rispettivamente come direttore e vice, Craiter e Bernardino Zois. Craiter aveva rice-vuto diciotto voti favorevoli e solo tre contrari, Blanchenai era sem-pre attestato su nove e tredici. Anche questa volta la prima questione affrontata dal neodirettore non fu di particolare gravità. Emanò un provvedimento in cui chiedeva al Bargello di scacciare la «barona-glia» e i «facchini» che a tutte le ore del giorno giocavano d’azzardo e schiamazzavano sotto i portici della Borsa, rendendone impossibili i lavori. Alle elezioni del 1758, Bernardino non si presentò e comunicò le sue dimissioni: lo zio non voleva che perdesse tempo, desiderando che si dedicasse solo agli affari. Risultato fu che Giuseppe Belusco divenne direttore e Balletti suo vice. I due avevano ottenuto lo stesso numero di voti e fu Ricci a scegliere chi fosse direttore. In tal modo, per l’anno seguente, assicurò la carica a Giacomo. Per il Corpo mer-cantile i tempi stavano diventando particolarmente agitati60.

58 AST, IC, 233, 7 dicembre 1755.

59 AST, IC, 233, 8 gennaio 1756.