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Il 30 giugno del 1754, alle nove e un quarto, Giacomo Cavallotti en-trò nell’Arsenale di Venezia, passando attraverso «la porta grande», quella di terra. Mentre alcuni giovani remieri e falegnami erano in-tenti a lavorare nelle vicinanze, Cavallotti, a voce alta di modo che tutti potessero sentire, esclamò, riferendosi a un’immagine sacra po-sta sopra la porta, «bisogneria tirar giù quella Madonna», sostenendo che lì non stava bene poiché quello che stava avvenendo in Arsenale non era uno spettacolo adatto per gli occhi della Vergine Maria15. Cavallotti non era una persona qualsiasi. Nell’Arsenale ricopriva la carica di viceammiraglio e tali affermazioni sibilline per noi, ma chia-rissime per gli astanti, trovarono spiegazione nell’inchiesta avviata dagli Inquisitori, prontamente avvisati dell’accaduto. Gli interroga-tori fatti furono molti, mentre si cercava inutilmente di catturare Gia-como che si era reso irreperibile. La frase si inseriva in un momento di forte tensione creatasi tra le maestranze dell’Arsenale in seguito a una riduzione della loro mercede decisa dalle magistrature vene-ziane – da tre a due lire al giorno – e ad alcune nomine che, ritenute clientelari, avevano ulteriormente scaldato gli animi. Quando, tempo dopo, Cavallotti fece giungere una supplica agli Inquisitori di Stato in cui dava la sua versione dell’accaduto, non si discostò in maniera si-gnificativa da quanto rivelato dalle testimonianze. Quel giorno, dopo quarant’anni anni di servizio, non era riuscito a rimanere indifferente alla «commozione» provocata dalla delibera che abbassava il salario dei «vecchi». La commozione era dovuta al vedere le «maestranze, il padre, il zio, il parente» uscire piangenti dall’Arsenale. Non poteva neppure rimanere indifferente alla sostituzione dei capomaestri – i proti, responsabili della direzione degli altri lavoratori – di falegnami e calafati con nuove «persone odiose e malamente sofferte dal

popo-14 ASV, IS, 616, Antonio Modena, 6 agosto 1754.

lo» che avevano tolto il posto ad altri meritevoli e capaci. Questo ave-va provocato grandi malumori. Tuttavia a suo dire le accuse erano false. Non aveva pronunciato parole sediziose e veniva calunniato a causa delle critiche che, apertamente e nel rispetto delle leggi, aveva mosso contro quelle novità. Proprio per punirlo per questo, gli met-tevano in bocca parole mai pronunciate16.

In realtà l’incartamento degli Inquisitori lascia pochi dubbi sul fatto che quel giorno Cavallotti qualcosa doveva averla detta con l’inten-zione di ‘sobillare’. In ogni caso, se non conosciamo l’esito della sua supplica, di sicuro era stato licenziato. Nel dicembre del 1754 Gia-como apparve a Trieste assieme a un figlio, Gian Domenico, e poco dopo si presentò all’Intendenza Commerciale, svelando la propria identità, le competenze e gli incarichi ricoperti e sostenendo di aver abbandonato Venezia coll’intenzione di venire ad abitare sotto «l’Au-striaco cielo, bramando di vivere in quella figura che esige il suo ta-lento». Inoltre dichiarò di aver scritto un libro, ancora manoscritto, nel quale svelava il completo funzionamento dell’Arsenale venezia-no per darne «chiaro a lume di tutti» e di volerlo «dare alle stampe» nella nuova stamperia aperta in città. Inoltre, affermò di avere in-dividuato, vicino al lazzaretto, un sito perfetto per l’edificazione di un arsenale e di essere disposto a mettere tutte le sue competenze a servizio di tale progetto. Le sue proposte vennero accolte con entu-siasmo e subito inviate alla corte di Vienna. In città si pensava che Giacomo sarebbe stato presto eletto ammiraglio del porto assieme a Pirona e a Caparozzolo17.

16 ASV, IS, 1066/244, s.d.

17 ASV, IS, 619, Paolo Moro, 21 dicembre 1754 e 616, Antonio Modena, 12 gennaio 1755. Cavallotto proponeva di stampare il libro nella nuova stamperia che era stata avviata a Trieste da Francesco Giuseppe Zanz come emanazione della stamperia privilegiata di Vienna. Vi erano impiegati quattro stampatori da lì giunti e che ave-vano trovato alloggio nel convento dei Benedettini. Più usi a stampare in lingua tedesca, avevano cominciato a lavorare con quella italiana, forse con l’aiuto di un esperto veneziano. In città erano giunti in quel periodo anche due stampatori da Ginevra, muniti anche di caratteri italiani e greci e con due piccoli torchi (ASV, IS, 619, Paolo Moro, 12 e 21 marzo e 12 aprile 1755 e SM, 763, 11 aprile 1755).

Vienna e Livorno, 1750-1751. Ferrara, molti anni prima

Nel 1750 il conte Rudolf Chotek, presidente del Direttorio del Com-mercio che allora «era la più alta autorità in campo economico» e l’or-ganismo incaricato di stimolare la crescita economica di Trieste, asse-gnò la carica di governatore della città e presidente dell’Intendenza Commerciale – come vedremo la principale magistratura asburgica presente in Trieste – al conte Nicolò Hamilton che, appena giunto in città, inviò a corte un dispaccio molto promettente in cui assicurava che il porto sarebbe in breve diventato «uno dei più floridi della Ger-mania e dell’Italia ed il centro di comunicazione tra li stati della Im-peratrice ed ogni altro paese». Nell’avvisare i suoi superiori della no-mina di Hamilton, l’ambasciatore veneziano in Vienna, Andrea Tron, aveva scritto che in quel mentre si trovava a corte anche «un certo banchiere denominato Ricci» per illustrare, dopo aver ispezionato Trieste, «le proprie idee nelle massime universali del commercio»18. Pasquale Ricci, definito anche «celebre negotiante» di Livorno, era stato fatto venire appositamente per supplire alla principale carenza della piazza triestina e cioè la mancanza di case commerciali «di polso» e al momento si cercava di convincerlo, accordandogli speciali condizioni, perché si trasferisse a Trieste e avviasse da lì traffici con la ditta Giovanni Pietro Ricci e compagni, di proprietà di suo padre. In effetti, due imbarcazioni a nome della ditta dei Ricci, «che sono di nazione veri toscani», in quell’anno, salpate da Livorno, raggiunsero Trieste, forse cariche di «drapperie», ma da lì ripartirono «con poco o punto carico»19. Lo scarso esito del traffico provocò la fine dell’e-sperimento perché di tale ditta non si sentì più parlare, tuttavia, nel marzo dell’anno successivo, il console veneziano a Livorno avvisò il Consiglio dei Dieci, uno dei massimi organi di governo della Repub-blica Serenissima, che i due fratelli Pasquale e Giovanni Giuseppe Ricci, figli del mercante Giovanni Pietro, stavano per lasciare il porto toscano per recarsi a Trieste. Lì, per decisione della corte di Vienna,

18 ASV, IS, 1265, 14 marzo, 11 aprile e 4 luglio 1750. Sul Direttorio del Commercio, che si riuniva a Vienna e a Graz con competenza sullo sviluppo dei commerci ed era sottoposto direttamente all’Imperatrice, vedi Faber 2003, 7-28. Su Chotek e Hamil-ton infra pp. 29-30 e 39.

Pasquale, che allora aveva circa trent’anni, sarebbe diventato uno dei tre direttori incaricati dello sviluppo del commercio con uno stipen-dio di 2.000 fiorini all’anno e «molte promesse». Giovanni Giuseppe, invece, avrebbe avviato una ditta commerciale assieme ad alcuni soci provenienti da una imprecisata area dell’Impero, forse Vienna20. La carriera dei due fratelli fu, però, assai diversa da quanto annunciato dal Console. A Trieste Giovanni Giuseppe non lasciò traccia di sé, mentre Pasquale fece una veloce carriera all’interno delle magistra-ture imperiali, diventando uno dei massimi esponenti della burocra-zia asburgica in città. A metà degli anni Cinquanta era consigliere dell’Imperial Regia Intendenza Commerciale e giudice del Tribuna-le di Sanità e del TribunaTribuna-le di Commercio e in seguito fu nominato anche Presidente della Commissione di polizia e pubblica sicurezza, un organismo istituito nel 1753. Secondo una spia veneziana per le cariche che ricopriva riceveva un salario annuale di 10.000 fiorini, ma questa sembra una cifra esagerata. Inoltre Ricci strinse stretti legami con il ceto mercantile, diventandone alleato, appoggiandone le strate-gie, difendendone gli interessi e partecipando, anche se occultamen-te, a molte iniziative imprenditoriali. Questa alleanza fu cementata nel 1754, l’anno dell’arrivo di Mattio, quando sposò Marianna, figlia di Francesco Tommaso Grossel, un ricco mercante di Lubiana (Lju-bljana) che aveva trasferito parte della sua attività a Trieste. Tre anni prima dell’arrivo di Ricci, Grossel era deceduto lasciando tre figli e due figlie minori e un cospicuo patrimonio. Furono nominati tutori la madre, lo zio e il mercante Giacomo Balletti21.

Non conosciamo il ruolo di Balletti nelle nozze. Sappiamo, però, che giunto attorno al 1730 da Ferrara, dove era nato nel 1704, e figlio di Pietro, era uno dei principali mercanti della piazza e titolare di una ditta che correva sotto il nome Rocci e Balletti. Sia nel suo stabilirsi

20 ASV, IS, 513, 12 marzo 1751. Sul porto franco di Livorno Filippini 1998 e Addobbati e Aglietti 2016.

21 AST, N, Antonio Guadagnini, 29 febbraio 1748. Su Ricci vedi Biagi (1986), che, ri-costruendone la biografia, ne sottolinea la figura di funzionario e intellettuale set-tecentesco, sbagliando nell’assegnargli anche il nome di Giovanni, parzialmente confondendolo in parte con Giovanni Pasquale Ricci, di Grottammare nello Stato Pontifico, che nel 1754 era a Trieste come vicario e giudice dei malefici (ASV, SM, 843, 2 aprile 1754) e Andreozzi 2014c, 85-87. Pasquale, livornese, fu uno dei princi-pali protagonisti degli intrecci di vite. Su Tommaso Grossel Panariti 1998, 123-124.

a Trieste che nei suoi affari i legami che aveva con Fortunato Cer-velli furono assai rilevanti. Quest’ultimo, pure ferrarese, fu un poli-valente uomo d’affari, faccendiere, finanziere, proprietario terriero e membro della burocrazia imperiale; fu, tra l’altro, plenipotenziario per il commercio a nome degli Asburgo e ottenne il titolo nobiliare. Coinvolto in iniziative imprenditoriali di rilevanza ‘internazionale’ e sovente dai contorni poco chiari e oltre i limiti della legalità al punto che venne sospettato di complicità nell’omicidio di un concorrente, fu uno dei principali protagonisti dello sviluppo commerciale della città negli anni Trenta e Quaranta e, con tal fine, ideatore di molti progetti tra cui l’avvio di un sistema fieristico incentrato su Trieste22. Balletti portò avanti alcuni dei suoi progetti e in particolare quelli inerenti ai traffici tra il porto giuliano e la Lombardia per la via del Po e nel 1747 Cervelli si era recato alla corte di Vienna per cercare di ottenere che a Giacomo fosse concesso il monopolio di tali traffici. Nel 1754, all’età di cinquanta anni, Balletti disponeva di un capitale di dodicimila fio-rini, commerciava soprattutto in frumento, riso, vino e formaggi ed era titolare di una fabbrica dove si producevano rosolio e sapone. Aveva anche contatti particolari con le autorità veneziane cui forniva informazioni riservate in cambio di un po’ di tolleranza per qualche attività commerciale che sfumava nel contrabbando, come il traffico di fucili. Era sposato e aveva figli23.

Muggia, 1741

Francesco Giuseppe Gabbiati, nato a Capodistria (Koper), era pub-blico scrivano dell’Officio dei Sali per la Repubblica Serenissima a Muggia, allora dominio di Venezia e confinante, a est, col territorio di Trieste e, quindi, con l’Impero. Nel 1741, accusato di aver sottratto denari alle casse dell’Officio, si rifugiò a Trieste e qui iniziò a fare l’avvocato e il notaio. All’arrivo di Pirona, aveva circa quarantadue

22 Su Cervelli Caracciolo 1962, Andreozzi 2005b, 166-168 e 2009, 133-139.

23 ASV, IS, 618, Nicolò Moro, 10 ottobre 1747 e SM, 843, 2 aprile 1754 e BCH, AD, 21 C 55, 15 gennaio 1761, deposizione di Giacomo Balletti. Su Balletti, che nel 1754 era console di Malta a Trieste, anche Andreozzi 2014c, 87-88 e infra, passim. Sulla produzione di rosolio e sapone a Trieste vedi Andreozzi 2003a, 566-600 e Do Paço 2019, 27-38.

anni ed era ancora avvocato presso il foro della città in concorrenza con cinque colleghi: due di Trieste, il dottor Ustia e il dottor Argento, addottorato a Padova e definito «venale ed esperto in raggiri»; un ve-neziano che prima era locandiere alla taverna Leon d’Oro, nella città lagunare; un friulano, ex fattore in campagna; un istriano, in prece-denza cancelliere per i reggimenti militari della Serenissima. Gabbiati svolgeva la sua attività con il titolo ufficiale di «procuratore» e «nota-io» e non aveva nessun titolo di studio, avendo appreso i rudimenti del mestiere a Capodistria, dove aveva fatto «pratica»24.

24 ASV, SM, 843, 2 aprile 1754 e 186, 19 agosto 1752 e AST, IC, 788, 1755. Oltre ai già citati gli avvocati erano Raini, il marchese Gravisi e Tunes. Gabbiati era stato ammesso all’esercizio di procuratore dal conte Herbstein e di notaio dal barone Antonio Marenzi. Esercitava a Trieste proprio dal 1741.