• Non ci sono risultati.

Il capannone del petrolchimico

Come ricorda David Forgacs nella prefazione al libro di Laura Cerasi Perdonare Marghera, via Fratelli Bandiera viene ricordata, nell'elaborazione della memoria relaiva agli anni del lavoro, come una barriera, ai due lai della quale si trovavano le fabbriche con il loro mondo operaio e gli abitani, come una linea di conine materiale che acquista «una valenza simbolica ino a connotare una separazione fra due mondi» (Forgacs in Cerasi 2007: 7). Questo è sicuramente vero, ma è giusto anche ricordare che esistono alcuni puni in cui sembra ricomporsi quella fratura, rappresentata dalla faglia urbanisica di via Fratelli Bandiera, in cui la la fabbrica si ricongiunge con la cità ed i lavoratori coi citadini, e uno di quesi è il capannone del petrolchimico, un ediicio di

lamiera grigia che si trova all'estremità sud della strada, in fondo al lato destro, con ingresso su via dei Botenighi, al numero 3.

Sono arrivata al capannone una maina che stavo percorrendo via Fratelli Bandiera a piedi, incrociando una manifestazione di alcuni lavoratori del setore chimico che pariva dalla zona industriale per terminare lì dentro, dove si sarebbe tenuta un'assemblea. All'ingresso del capannone, in atesa dell'arrivo del corteo di operai, c'era una guardia, che dandomi il buongiorno mi ha chiesto chi fossi e che cosa volessi. Quando ho chiesto se fosse possibile entrare si è rivolto a un signore sulla cinquanina, che con un sorriso pacato mi ha deto che certo, potevo entrare, che non ci voleva il permesso. Appena oltrepassato il cancello d'ingresso si trova uno spiazzo aperto, di fronte e a ianco della strutura stessa del capannone, dove per l’occasione erano radunai gruppei di operai in atesa dell'assemblea. Non avevano la tuta, ma parlavano generalmente di lavoro e della manifestazione in corso. La porta del capannone era aperta, perciò sono entrata. Ho trovato un ambiente che non avrei mai immaginato all'interno di un capannone di lavoratori petrolchimici: il grande vano unico dall'alto soito ha le parei leteralmente ricoperte di quadri, anch'essi molto ampi, e di cimeli provenieni dagli scorsi decenni di lota operaia, segni degli anni in cui manifestazioni da migliaia di persone facevano saltare, all'occorrenza, i conini fra la cità petrolchimica e la cità degli uomini (Zazzara 2009). C'è una platea piena di sedie, e di fronte un palco rialzato su cui è posizionato il tavolo della presidenza, da cui si parla e da cui nel 1969 ha tenuto un discorso anche Nilde Ioi, che nel 1979 diventerà la prima Presidentessa donna della Camera dei Deputai. La storica Gilda Zazzara racconta com'è nato quel capannone, e qual è stata la moivazione che ha portato i lavoratori a scegliere di collocare il luogo della loro rappresentanza non dentro la fabbrica né entro il perimetro della zona industriale, ma fuori di esse, anzi, proprio in prossimità di quella streta striscia d'asfalto che era luogo di transito quoidiano per moli di loro,

ma anche di contato con quella cità a cui quesi si rivolgevano quando dovevano rivendicare i loro dirii:

Questa grigia costruzione che si afaccia su via Fratelli Bandiera dal lato del quariere urbano, all'altezza della piccola chieseta della Rana, in quel campasso sul quale gli operai si erano sedui per terra nel 1963, è il teatro delle vicende di tui i lavoratori chimici veneziani, il cuore umano della fabbrica “disumana”, dove il tempo deposita ricordi, striscioni, assemblee, feste, visite di personalità importani, persino funerali.15

Il capannone è stato teatro di eveni di vario genere: dal funerale dei tre tecnici mori per un incidente in un laboratorio a causa di una fuoriuscita di acido luoridrico nel 1979, al compleanno del socialista Gianni de Michelis nel 1992, alla relazione dell'oncologo Cesare Maltoni sulla nocività del CVM nel 1974, che avverì tui gli operai a contato col cloruro di vinile monomero dei risultai esposi nella ricerca commissionatagli nel 1971 dalla stessa Montedison, proprietaria all'epoca degli impiani CV in cui operai come Gabriele Bortolozzo maneggiavano senza troppe precauzioni tale sostanza. Il 4 luglio 1963 è invece la data in cui si svolse la prima assemblea unitaria degli operai SICEdison (Società Italiana Chimica Edison), la principale proprietaria dei nuovi impiani chimici costruii negli anni precedeni nella seconda zona industriale di Porto Marghera. Luogo della riunione fu il suddeto campasso, nient'altro che lo spiazzo sterrato che faceva da parcheggio alla SICE (Zazzara 2009). Le foto dell’epoca ritraggono una folla nutrita di operai e impiegai sedui per terra come in un aniteatro, con le sigle sindacali unite a chiedere aumeni, riconoscimento delle condizioni di nocività di alcuni repari e dirii per tui. La storia del movimento operaio dei lavoratori petrolchimici di Porto Marghera è poi proseguita in un crescendo di vertenze e di scontri, ma è importante sotolineare come in dall’inizio furono deinite alcune delle linee guida che saranno anche nei decenni successivi i temi di maggior interesse e confronto sia fra i lavori stessi, all'interno delle fabbriche, che con la

citadinanza intera. Fra queste problemaiche di interesse generale, oltre alle quesioni predominani del salario e dell'orario di lavoro, cominciavano a farsi strada anche le prime segnalazioni di atenzione ai temi della sicurezza dell'ambiente, che sono ad oggi l'eredità più pesante lasciata dal petrolchimico alla comunità di Marghera e alla cità di Venezia tuta: già nel 1966 venne isituita in seno al Consiglio di Fabbrica una Commissione Ambiente, con lo scopo di aumentare il controllo e promuovere delle modiiche delle condizioni complessive dell'ambiente di lavoro. Come ulteriore progresso, il 12 dicembre 1969, data della irma del contrato nazionale dei chimici approvato dalle assemblee di fabbrica, oltre agli aumeni salariali e alle 40 ore di lavoro seimanali venne sancita anche la possibilità di confrontarsi sulle condizioni dell'ambiente di lavoro, nonché il dirito a uno spazio per le assemblee: si scelse così di costruire un luogo isico in quello stesso spiazzo che sei anni prima aveva visto la prima vera assemblea unitaria dei lavoratori di un'azienda chimica a Marghera, da cui sarebbe scaturito negli anni successivi un percorso associaivo con conseguenze notevoli sullo sviluppo delle condizioni contratuali del lavoratori e sulla gesione dell'intero polo industriale.

Fuori dal capannone ho incontrato Davide, un sindacalista della FILCTEM (Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifature), ex lavoratore alla Monteibre, un’azienda proveniente dall’ex blocco Montedison chiusa nel 2014, che conosce bene il capannone e le sue atuali funzioni. Davide mi ha spiegato che ancora oggi, nonostante i numeri siano sicuramente molto ridoi, le manifestazioni dei lavoratori del petrolchimico di solito consistono in blocchi della Porineria 9, l’ingresso principale, e terminano con un'assemblea nel capannone, in cui nel fratempo oltre ai quadri appesi alle parei si sono accumulai vari oggei fra i più rappresentaivi di quasi cinquant'anni di vertenze. Davide sembrava soddisfato dal risultato otenuto quella maina: oltre alla presenza dei giornalisi di TgR Veneto che facevano interviste, mi ha deto che i

blocchi della porineria sono iniziai al maino prima dell'alba e sono andai avani per qualche ora, quasi come ai tempi della Vinyls, una vertenza di cui approfondirò detagliatamente la storia nel secondo capitolo. Dopo essersi concesso alla TV, Davide si è orgogliosamente oferto di farmi da Cicerone, e mi ha illustrato una breve storia di alcuni dei cimeli e dei dipini che si trovano all'interno. Come esplicato in uno spetacolo a lui dedicato durante gli eveni del Centenario di Porto Marghera16

, è stata del lavoratore e poeta Milo Polles l'idea di coinvolgere arisi e pitori nell'opera del capannone: quesi hanno così donato ai lavoratori e alla citadinanza delle opere, alcune delle quali di un certo valore arisico, che raccontassero le fasi salieni dell'esperienza umana e produiva dell'industria petrolchimica di Porto Marghera.

L'opera più anica di tute dovrebbe risalire al 1971 ed è un'imponente tela rossa, che reca la scrita a tempera Petrolchimico C.d.F. Marghera, in cui domina al centro un grande pugno in segno di lota, contornato dalla silhouete di alcune delle struture e degli atrezzi più frequentemente usai nel processo produivo, opera di Augusto Cucciniello (ig. 4).

Vitorio Basaglia è invece l'autore di una gigantesco murale del 1974 initolato La guerra del

Vietnam, in cui scene di guerra, annegamento e morte rappresentano uno dei temi più incalzani

dell'atualità generale dell'epoca in un chiaro sile cubista, che ricorda molto da vicino il quadro di Pablo Picasso, Guernica. È questo un ulteriore esempio di commisione fra l'arte, l'atualità e il lavoro: non necessariamente temi legai alle fabbriche o al petrolchimico, quindi, ma uno sguardo d'insieme più ampio, che si rivolge alla comunità e alle vicende che maggiormente la coinvolgono e la interessano (ig. 5).

Figura 4 – Lo striscione più anico presente nel capannone del petrolchimico, ad opera di A. Cuccinello. Foto di Giada Bastanzi, otobre 2017.

Figura 5 – Il quadro di V. Basaglia, posizionato di ianco al palco del capannone del petrolchimico. Foto di Giada Bastanzi, otobre 2017.

Al di sopra del tavolo delle conferenze troneggiano due striscioni che rimandano al celebre manifesto americano per la leva nella Prima Guerra Mondiale in cui lo Zio Sam indica lo spetatore, dicendogli I want you: qui c'è solo la mano che indica, e dietro di essa elemeni simbolici dei processi chimici nel primo striscione, e lo skyline del petrolchimico visto dalla laguna nel secondo, con la torre più alta costruita nel cosiddeto secondo petrolchimico, e con i grandi serbatoi criogenici rotondi, aggiuni all'orizzonte che si vede da Venezia (ig. 6).

Un altro quadro paricolarmente rappresentaivo è quello di Bruno Garlandi del 2003, initolato La tuta blu (ig. 7), in cui si rappresenta invece la fase odierna della produzione: gli operai marciano in ila, precedui da una delle loro tute, piegata, con le teste basse e gli sguardi anonimi, incolonnai e rassegnai a sparire nella nebbia che li avvolge.

Figura 6 – Una panoramica del capannone con i due grandi striscioni sopra al tavolo. Foto di Giada Bastanzi, otobre 2017.

Figura 7 – Il grande dipinto di B. Garlandi La tuta blu nel capannone del petrolchimico. Foto di Giada Bastanzi, otobre 2017.

Lungo una delle parei si trova una serie di barili blu con sopra delle letere gialle che compongono la scrita Salviamo la chimica, che venivano portai al collo dagli operai durante le vertenze più receni insieme a quelli che componevano i nomi delle loro fabbriche di appartenenza, in una fase in cui la produzione era sul punto di cessare per sempre, durante la quale i lavoratori hanno cercato di mantenere il loro posto di lavoro, appellandosi ad un accordo sipulato nel 1998, l'Accordo di Programma per la Chimica, in cui la sostenibilità ambientale si incontrava con il proseguimento delle produzioni della chimica di base di Porto Marghera. Il 21 otobre 1998 tale accordo fu infai siglato a Roma dai Ministeri dell'Industria, dell'Ambiente e dei Lavori Pubblici, dalla Regione Veneto, dalla Provincia e dal Comune di Venezia, dall'Autorità Portuale, dall'Ente Zona Industriale, da Unindustria, CGIL, CISL e UIL e dalle aziende interessate, fra cui sopratuto Enichem, che all'epoca possedeva buona parte degli impiani ancora aivi di Porto Marghera, e prevedeva che le aziende efetuassero una serie di interveni per prevenire il rischio di incideni e per disinquinare i sii compromessi, atuando boniiche e risanameni, metendo in

sicurezza gli impiani obsolei e issando dei limii più restriivi per gli scarichi e per le emissioni in aria e in acqua di sostanze inquinani, in modo che si potesse rilanciare il polo industriale secondo una logica produiva nuova, quella di un'industria chimica moderna, sicura e pulita, e che non fosse in sostanza necessario arrivare alla chiusura degli impiani, ma che si potesse inalmente trovare un compromesso fra ambiente, comunità e lavoro tale da poter salvaguardare e integrare quesi tre aspei (Forgacs in Cerasi 2007: 18-19). Non è così che sono andate le cose: le chiusure a pioggia degli impiani e i consegueni licenziameni, unii agli incideni siorai, come quello al TDI del 2002, che hanno spiazzato la comunità, hanno creato uno scenario di incomprensioni e frature la cui ricomposizione sembra ancora oggi molto complicata. A questo si ricollega anche l'ulimo simbolo presente nel capannone su cui vorrei porre l'atenzione, la croce a cui nel 1973 è stato simbolicamente crociisso un operaio con indosso una maschera a gas, con le spalle al capannone e il volto verso via Fratelli Bandiera, in modo che fosse visibile da tui (ig. 8).

L’argomento in quesione è la nocività del cloruro di vinile monomero, una sostanza con cui moli lavoratori erano quoidianamente a contato. Quando in quello stesso 1973 fu resa pubblica la noizia che oltre un certo numero di ppm (pari per milione) il CVM non si può respirare, prima che le fabbriche si dotassero degli apposii aspiratori e adeguassero agli impiani in modo da garanire ai lavoratori un livello adeguato di sicurezza, i datori di lavoro corsero ai ripari fornendo agli operai delle semplici maschere a gas, che in alcuni casi avrebbero dovuto indossare per l'intera giornata lavoraiva. Il provvedimento risultò evidentemente ineicace, da un lato perché date anche le alte temperature all'interno degli impiani è isicamente quasi impossibile indossare per 8 ore di seguito una maschera a gas, dall'altro perché in assenza di una regolamentazione normaiva ferrea spesso la richiesta di una maggior sicurezza, anche a livello individuale, non era vista di buon occhio da parte dei superiori. Lucio, ad esempio, un ex operaio della Vinyls, mi ha raccontato di

aver iniziato a lavorare alla Agrimont, una fabbrica di ferilizzani, negli anni '70, e mi ha descrito dal suo punto di vista la situazione di quegli anni:

Disemo che mi go vissuo una parte dove chi, chi mi rendeva consapevole erano i colleghi di lavoro, i delegai sindacali. Di cercare di stare atento, di uilizzare le mascherine se andavo su ceri ambieni, e questo xe sta' un progredire, disemo... sempre coninuo, sempre miglioraivo […] Faceva male, però vùo dire, a chei, chei anni là, era importante lavorare! Non perché eri un incosciente, era proprio.. era l'ambiente, l'ambiente, non c'era un'atenzione […] Io ho avuto l'impato di colleghi che dicevano «Guarda che sei giovane, stai atento, meii la mascherina!», anche se chiedere una mascherina in quegli anni era come dire «Non hai voglia di lavorare oggi?», 'pito?17

.

Figura 8 – Una celebre foto della manifestazione contro la nocività dei lavoratori del petrolchimico. Sullo sfondo, il capannone. Foto dalla pagina Cento anni di storie, in La Nuova di Venezia e Mestre.

Il il rouge della sicurezza sul lavoro e della tutela dell'ambiente, interno ed esterno al perimetro della fabbrica, ha caraterizzato le richieste e le rivendicazioni degli operai in dalle

origini della loro aività associaiva, nei primi anni '60, quando appena esisteva un piano regolatore che sancisse che cosa si trovava e dove nella neonata penisola petrolchimica. Questo tema ha fato da ponte con la comunità di Marghera e con il territorio del Comune di Venezia, dato che andava ad interessare non solo il perimetro della zona industriale, ma anche un'area più ampia: la zona di Marghera, lambita da fumi di cui si conosceva la provenienza, ma non la composizione, e la laguna di Venezia, luogo da cui si gode un orizzonte privilegiato dello skyline industriale, in cui svetano i piccoli camini e le alte torce, si contano i serbatoi e si immagina la vita all'interno di quegli impiani enigmaici, che sembrano provenire da un altro universo.