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4. Il petrolchimico era una cità

4.3. Il lavoro incorporato

Quanto è emerso ino ad ora dall’analisi della narraiva sul lavoro ci porta a pensare che le praiche afereni alla sfera lavoraiva abbiano contribuito alla produzione di un habitus, tramite l’assimilazione della dinamica del lavoro ad un livello molto profondo. Questa si è innestata in vari aspei della vita della società e viene riprodota anche nel racconto che fanno di quella realtà sia i lavoratori che coloro che avevano un contato più o meno direto con la realtà di fabbrica, quindi, ad esempio, Giuliana che si occupava della chiesa di Gesù Lavoratore, piutosto che Elio, volontario di un gruppo comunale di Protezione Civile che si occupa della sicurezza della comunità di Marghera rispeto agli impiani industriali che stanno a pochi metri di distanza, al di là di quella via Fratelli Bandiera da cui è parita l’analisi e che si conigura sempre più come un luogo di incrocio e di atraversamento piutosto che come un conine invalicabile tra la fabbrica e la vita quoidiana.

Da questa rilessione consegue che sia nella comunità che a livello individuale è molto diicile tracciare dei limii che tengano le due realtà netamente separate: sia isicamente che nella dinamica sociale, la fabbrica per decenni si è compenetrata con la comunità, così come anche chi non aveva esperienza direta di lavoro ai turni o sugli impiani si vedeva inserito in una maglia sociale tessuta in larga misura sulla base dei ritmi lavoraivi. Marghera e Porto Marghera, quoidianità domesica e lavoro in fabbrica non sono state tenute divise da via Fratelli Bandiera in un modo così inequivocabile come la cartograia sembra suggerire: e proprio allo stesso modo, questa separazione fra mansione e persona, fra individuo e ruolo si è rivelata altretanto astrata.

Negli stessi decenni del picco occupazionale di Porto Marghera, anche molta della teoria sociale ed antropologica era orientata verso una divisione dell’individuo nelle sue pari: nell’aricolo Tre in uno: come eliminare la disinzione tra corpo, mente e cultura (Ingold 2001) l’antropologo Tim Ingold traccia un quadro molto preciso di quella che è stata deinita come teoria

della complementarità. Secondo questo approccio, accuratamente descrito e confutato punto per

punto nel saggio, l’individuo sarebbe composto di tre pari complementari: il corpo, la mente e la cultura. Per ognuna di queste porzioni esiste una teoria che sta alla base della deinizione: per il corpo, l’intero apparato della biologia evoluzionista; per la mente l’approccio delle scienze cogniive; per la cultura, inine, la teoria culturalista elaborata in prima istanza da Cliford Geertz. Stando a questo paradigma, la cultura sarebbe «un corpus di conoscenze che può essere trasmesso di generazione in generazione, indipendentemente dalle situazioni della loro applicazione praica» (Ingold 2001: 56). Ciò signiica che esisterebbe una separazione fra il processo atraverso cui la conoscenza culturale viene acquisita e la modalità in cui questa, in altri momeni e con una dinamica diversa, viene poi espressa dagli individui con i loro comportameni. Secondo questa deinizione il bagaglio culturale ha una connotazione apriorisica, quasi “kaniana”, rispeto all’esperienza dei soggei: la cultura sta alla storia di vita dell’individuo come, nella

biologia darwinista, il genoipo sta al fenoipo, che ne è la semplice realizzazione quasi casuale, poco più di un accidente. Le capacità intelletuali e i comportameni umani sarebbero quindi preesisteni e predeterminai rispeto al coinvolgimento di quesi nei contesi praici e nelle aività quoidiane, ma in realtà, prosegue Ingold, non è così. Nella praica quoidiana, infai, i movimeni e gli ai delle persone non sono deinii da un apriorisico bagaglio culturale di cui si è stai dotai e dal quale si ainge in base alla circostanza corrente, bensì risultano interrelai con i movimeni e con gli ai delle altre persone che usufruiscono dello stesso spazio, in una dinamica orizzontale e reciproca. La formazione delle caraterisiche psico-isiche che sotendono le varie abilità degli individui avviene in determinai ambieni, ed è imprescindibile da essi: con questo presupposto, alla tesi della complementarità si oppone la teoria antropologica della praica, secondo cui la conoscenza non solo si esprime nella praica, anzi, è proprio da questa che viene generata. È Pierre Bourdieu ad illustrare, atraverso le teorie della praica, il modo in cui la conoscenza si genera nei contesi esperienziali, atraverso le faccende e le mansioni più ordinarie e quoidiane: tali abilità ed orientameni diventano, in questo modo, incorporai. Il conceto di incorporazione, o embodiment, può essere declinato anche come en-mind-ment, “inmentamento”, dal momento che, una volta risolto il dualismo corpo/mente nell’individuo come essere-nel-mondo, ne consegue che sviluppare un certo ipo di rouine nell’azione signiica anche sviluppare determinate modalità d’atenzione e di rielaborazione nei confroni del mondo, trasformando il sapere incorporato in narrazione della praica, esatamente come nel caso appena descrito dei lavoratori di Porto Marghera e della rete sociale ad essi aferente. Ingold conclude la sua analisi riprendendo la frase di Geertz secondo cui gli uomini vengono al mondo «naturalmente equipaggiai» per vivere qualsiasi ipo di vita, ma iniscono per viverne una sola, per respingerla deiniivamente, in quanto la cultura non è un qualcosa che “si aggiunge” agli individui per riempirli, come se fossero vasi in cui versare un contenuto culturale piutosto che un altro. Le abilità speciiche messe in ato dagli

uomini non sono dunque da atribuire alla paternità di una cultura iperuranica, bensì sono state incorporate nel processo di sviluppo come proprietà del soggeto, atraverso determinate praiche quoidiane, come appunto una determinata mansione lavoraiva, o l’abitudine di andare a messa in una chiesa piutosto che in un’altra.