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Il 13 otobre 2017 al Parco scieniico-tecnologico VEGA è stata inaugurata una mostra, dal itolo Industriae, in cui si racconta la storia delle varie produzioni che si sono avvicendate a Porto Marghera. Il VEGA Park si trova in viale delle Libertà, e la mostra è stata allesita all’interno del padiglione Antares: questo ediicio è stato costruito intorno al 1927 insieme a tuto il complesso retrostante che era una fabbrica di ferilizzani, in cui il padiglione della mostra, nello speciico, era un deposito di ceneri di pirite di proprietà della Agrimont, che è poi diventata Enichem Agricoltura ino alla chiusura, avvenuta fra il 1994 e il 1995. Ho avuto occasione di visitare la mostra prima dei due iinerari, il primo in barca fra i canali industriali e il secondo alla bioraineria ENI e a Syndial: entrambe le gite sono state infai anicipate da una breve visita autonoma alla mostra e da un’introduzione sulla storia della nascita e sullo sviluppo del porto industriale.

L’ingresso della mostra è uno spazio retangolare circoscrito, che è stato pensato come uno “spogliatoio” da cui passare prima di immergersi nella strutura, pensata per riprodurre l’interno di una fabbrica grazie a suggesioni di vario ipo, che andrò a descrivere fra poche righe. In questa prima, piccola area sulla sinistra si trovano appese una serie di diverse tute da operaio, apparteneni alle aziende ancora aive a Porto Marghera: Grandi Molini Italiani, Cereal Docks, ENI Syndial, ENI Versalis, ENI bioraineria, Veritas, Fincanieri ecc…, mentre di fronte alla porta d’ingresso c’è una grossa teca contenente alcuni oggei di uso più o meno comune nella realtà di

fabbrica: un’enorme tuta ignifuga color carta stagnola, una storica tuta della IROM53

accuratamente piegata e sirata, una bicicleta gialla, delle scarpe e un casco da palombaro, una maschera a gas, vari caschi da lavoro ed un canarino in gabbia, quest’ulimo per ricordare il fato che, essendo i gas della lavorazione del vetro-coke inodori, gli uomini non erano in grado di accorgersi di eventuali fuoriuscite, mentre gli uccellini sì, e quindi prima che esistessero gli apposii rilevatori i canarini venivano uilizzai come metodo di monitoraggio della presenza di gas nocivi nell’aria. Una volta entrai, le guide spiegano che quello che hanno cercato di ricostruire è il contesto generale della fabbrica: con lo scopo di far immergere gli spetatori nell’atmosfera del posto di lavoro sono stai inserii alcuni elemeni sonori che richiamano la quoidianità di quei luoghi, come lo stridore delle macchine, la campanella d’entrata e il vociare degli operai. Lo spazio esposiivo è stato organizzato in questo modo: alle parei ci sono dei pannelli esplicaivi delle principali aività industriali di Porto Marghera: sulla destra le aività ancora preseni, cioè il grano, la portualità e le varie realtà afereni al setore terziario, a sinistra quelle dismesse o in via di dismissione, cioè la petrolchimica, i ferilizzani e la produzione del vetro-coke, raccontata in un pannello che reca l’eloquente itolo Dal nero litantrace alla trasparenza del vetro. Al centro della sala si trovano due gabbie, formate da maglie metalliche, in cui sono esposi i vari ipi di prodoi realizzai nelle fabbriche di Porto Marghera: nella parte più interna di queste gabbie si trovano i prodoi intermedi, mentre dentro la cornice composta dalle gabbie di maglia, su tre livelli, ci sono i prodoi inii, dai bicchieri in polieilene ai vari ipi di farine, ino alle applicazioni ingegnerisiche progetate negli ulimi anni negli studi del VEGA Park, oltre ad alcuni schermi in cui vengono proietate immagini riguardani il porto industriale, fra cui lo spezzone del ilm di Joris Ivens

53 IROM (Industria Raffinazione Olii Minerali) è il nome della società, partecipata da AGIP e AIOC (Anglo Iranian Oil Company), insediatasi nell’area del porticciolo petroli di Porto Marghera. Questa si è occupata della

ricostruzione post bellica degli impianti preesistenti, di proprietà della DICSA (Distillazione Italiana Combustibili Società Anonima) e presenti fin dal 1926, potenziando il settore e realizzando degli impianti in grado di coprire le varie fasi del processo di raffinazione del greggio. Queste informazioni si trovano su una brochure a marchio Eni che parla della storia della bioraffineria di Venezia, che ho raccolto insieme ai vari materiali di campo.

ambientato fra Venezia, Porto Marghera e Ravenna54

. In alto, appesi all’altezza del soito, ci sono dei maxischermi, in cui persone che hanno lavorato o lavorano a Porto Marghera raccontano la loro personale esperienza fra gli impiani, e quello rappresenta, secondo gli organizzatori, «il lato umano della mostra». Introducendoci alla visita individuale le guide ci spiegano che quelli esposi sono gli oggei che sono entrai nella leggenda della storia operaia, come ad esempio la bicicleta gialla esposta in ingresso, simbolo delle migliaia di biciclete con cui gli operai nei decenni passai hanno percorso decine di chilometri da Mestre, da Marghera e dalla campagna per raggiungere il posto di lavoro, oppure altri oggei, come la maschera a gas, entrai ormai nel mito55

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Le parole “mito” e “leggenda” sono state ripetute spesso, e a mio avviso assumono un signiicato paricolare nell’ambito di una mostra che illustra eveni ed oggei afereni ad un passato molto recente, ma, per ceri versi, rinnegato e rimosso da una parte della comunità di Marghera, che tende a relegare la storia del lavoro al di là di via Fratelli Bandiera, entro una parentesi storica ormai deiniivamente chiusa: in un contesto del genere, esporre i cimeli del lavoro in una mostra signiica asportarli dalla dimensione della quoidianità, della praica, delle abilità dei soggei, per collocarli in un contesto altro, quello dell’osservazione, dell’ammirazione e della spiegazione. Gli oggei di fabbrica escono dalla dimensione quoidiana dell’uso per cui sono stai creai e dalle vite dei lavoratori che li hanno prodoi, vengono posizionai in una teca ed entrano nella grande leggenda operaia di Porto Marghera, diventando, loro malgrado, materiale per un racconto mitologico. Le tute esposte all’ingresso sono indumeni archeipici, intonsi e pulii, che non recano alcuna traccia dei segni del mesiere; allo stesso modo, nonostante molte volte sia emerso il tema dell’orgoglio per il proprio ruolo o per le competenze acquisite da parte di chi ha lavorato fra gli impiani di Porto Marghera, non ho senito alcun lavoratore deinire esplicitamente le proprie imprese come eroiche o leggendarie, oppure riletere sul fato che avrebbe voluto

54 Si veda cap. I, par. 5.1.

incorniciare quella stessa bici che per anni ha uilizzato con ogni condizione atmosferica e ad ogni temperatura per andare a lavoro. Gli oggei praicai nella vita di tui i giorni hanno assunto, con l’occasione del centenario, un valore non intrinseco, cioè quello di reperto storico, nonostante per moli di quesi si trai di prodoi ancora in circolazione. È un conceto che si concilia a faica con l’idea che i lavoratori generalmente hanno di tali produzioni: Nicoleta ad esempio mi ha sempre deto che la chimica non è né buona né caiva, né bella né bruta, ma che la chimica, semplicemente, serve. L’operazione di decontestualizzazione degli strumeni e dei prodoi degli impiani di Porto Marghera ha come conseguenza l’allontanamento di quesi, nella percezione, dalla sfera dell’uso e della praica quoidiana, nonché dallo scopo per cui essi sono stai creai, non più di qualche decennio fa. Il passaggio seguente, in questa dinamica, è un allontanamento dall’esperienza dei lavoratori, nonché da quella degli uteni di quegli stessi prodoi, che porta in ulima analisi ad avviare un processo di de-storicizzazione dell’esperienza del lavoro a Porto Marghera, tramite la creazione di una sorta di museo etnograico della zona industriale, in cui è possibile ricostruire la storia delle produzioni e allo stesso tempo ammirare colorai bicchieri in polieilene e sacche di monomeri della lavorazione della plasica, illuminai da una luce quasi scenica, divenui ormai materia di mero apprezzamento esteico.

Quest’ulimo passaggio introduce l’argomento del prossimo capitolo: è interessante accennare alla visione del lavoro nella realtà contemporanea di Marghera, per tornare nella via Fratelli Bandiera di oggi, dove corrono semivuoi gli autobus numero 53, tre volte al giorno all’orario d’ingresso dei turni, e dove si afollano nuove dimensioni che trovano spazio in altri luoghi, divenui ormai simbolo di una realtà completamente estranea da quella lavoraiva, ma che si aricola su vari piani in modo consequenziale alla scomparsa dell’opportunità di quella rete di signiicai, oggi a Marghera drasicamente ridota dal crollo occupazionale. Anche in questo caso, via Fratelli Bandiera è un luogo che si presta ad essere considerato come un eloquente simbolo di

periferia e marginalità, deinito in primis dallo statuto di divisorio fra due realtà che ormai sono più vicine geograicamente che socialmente, nonché da varie ondate di episodi e di fenomeni deinii dalle cronache locali degli ulimi anni come una spirale di degrado e malavita, che hanno contribuito a scolpire nell’immaginario degli abitani del Comune l’idea di una strada scenario di povertà e delle peggiori aività illecite, a distanza di una sola decina d’anni dalle ulime, ingeni chiusure di impiani a Porto Marghera.

CAPITOLO IV

VIA FRATELLI BANDIERA OGGI