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Il capitale sociale

l’universo degli indicatori considerat

3.5 lo studio delle relazioni in agricoltura

3.5.1. Il capitale sociale

Il capitale sociale è considerato uno degli elementi centrali nello sviluppo delle imprese e dei territori, soprattutto se caratterizzato da dinamicità e suppor-

tato da processi di formazione orientati a fornire agli individui un sistema utile a trovare, analizzare ed elaborare autonomamente informazioni e conoscenze e a costruire reti di relazione significative. La riflessione di esperti di diverse discipli- ne si è soffermata in questi ultimi anni molto sugli aspetti che lo caratterizzano e sulle modalità per incrementarlo.

Sulle origini del concetto ci sono diverse ipotesi: per White (2002), i primi utilizzi del termine social capital risalgono agli studi di comunità degli anni Venti del secolo scorso e poi alle analisi di Jacobs (1969) in riferimento alle reti di vicina- to urbano; per Burt (1980), esso deriva dalle teorie sociologiche di Simmel (1955) e Merton (1968) a cui fanno seguito gli studi di Granovetter (1973) sulla forza dei legami deboli e successivamente i numerosi studi di economia dei vantaggi, tra cui quelli dello stesso Burt (1980) sull’autonomia strutturale creata dalla complessità delle reti.

Tra gli autori che hanno tentato una sistematizzazione del concetto di capita- le sociale, Pierre Bourdieu (1980) definisce il capitale sociale come “la somma delle risorse reali o virtuali che possono provenire a un individuo o a un gruppo attraver- so il possesso di network durevoli di relazioni più o meno istituzionalizzate di reci- proca conoscenza”. Bourdieu individua tre dimensioni del capitale sociale - econo- mica, culturale e sociale - e due componenti principali: le relazioni sociali in sé e la qualità, definita dall’ammontare delle relazioni tra gli attori. Per l’autore, tuttavia, si tratta di un concetto olista e dunque non può essere verificato empiricamente.

Successivamente, Coleman (1988, 1990) definisce il capitale sociale come la capacità degli individui di realizzare i propri obiettivi all’interno di un contesto sociale; esso è costituito dalle aspettative, dai canali informativi e dalle norme sociali; fanno parte del capitale sociale anche le reti di relazioni nell’ambito delle quali una risorsa prodotta all’interno di una determinata relazione può essere tra- sferita e usata in un’altra relazione. Per Coleman il capitale sociale, che non è un concetto olista e, pur facendo riferimento a un fatto collettivo, può essere oggetto di indagine empirica, è un bene pubblico e non una proprietà di una persona che lo utilizza a suo piacimento. Secondo l’Autore, il capitale sociale è inerente alla strut- tura delle relazioni che esistono tra determinate persone e quindi è fungibile solo in relazione ad attività specifiche; può essere creato o consumato, può produrre o no risultati economici.

Putnam (1993), invece, definisce il capitale sociale come “l’insieme delle caratteristiche dell’organizzazione sociale, quali reti, norme e fiducia sociale che facilitano il coordinamento e la cooperazione per reciproci vantaggi”. Per l’Auto- re, il capitale sociale è costituito da bonding (legame), riferibile sostanzialmente

alla cultura familiare, necessario al consolidamento delle identità individuali, e bridging (connessione), riferibile alla cultura sociale, che favorisce l’incontro con l’estraneo, il diverso, e quindi un’apertura verso le idee nuove e le innovazioni.

L’ultimo gruppo di studi che delinea un filone interpretativo del capitale so- ciale è riconducibile a Granovetter (1973) e Burt (1992), che hanno concentrato l’attenzione sulla capacità del capitale sociale di produrre vantaggio competitivo per chi opera nel mercato del lavoro e per chi opera per una comunità, un territorio o un’impresa. La loro definizione risulta essere complementare alle precedenti e orientata soprattutto all’individuazione di linee di indagine empirica. Granovetter riprende gli studi realizzati negli anni Sessanta nell’università di Harvard, che ri- dimensionarono il ruolo dei legami forti, considerati fondamentali dalla sociolo- gia tradizionale nei ruoli domestici, comunitari e lavorativi, per rivalutare i legami deboli, cioè quelli propri del tempo libero, delle parentele distanti, degli scambi saltuari.

Il concetto di legame debole (loose coupling) viene successivamente ripreso da Weick nell’analisi delle relazioni in contesto scolastico (1976) e nelle organizza- zioni di genere (1977), che chiarisce come la debolezza dei legami sia riferita agli aspetti di interazione che caratterizzano la relazione e non alla sua fragilità. Anzi, i legami deboli possono produrre effetti importanti ed essere più efficaci di quelli fortemente istituzionalizzati. La debolezza va più propriamente riferita alla natura dei rapporti (non formalizzata) e non alla sua produttività, cioè alla sua capacità di trasferire conoscenze e risorse.

Burt (1992) ha poi spostato parzialmente l’attenzione dal concetto di lega- me debole, difficile da indagare empiricamente, a quello di buco strutturale, che mette in discussione l’assunto paradigmatico della fungibilità di tutti i ruoli e stu- dia l’azione imprenditoriale a partire dalla sua azione di bridging. Secondo questa prospettiva, i ruoli e le persone che li occupano sono intercambiabili solo quando il capitale sociale prodotto è bonding e non anche bridging. Burt individua due pos- sibili percorsi operativi per l’analisi della struttura sociale e delle reti di relazione. Il primo analizza il network a partire dai soggetti (chi è in rete con chi), nella con- vinzione che le risorse di una persona siano disponibili per ogni altra della rete, in proporzione variabile in base alla vicinanza. Il secondo, invece, prende in esame solo la dimensione effettiva della rete, escludendo dall’analisi i contatti ridondanti. La ridondanza è definita secondo gli indicatori della coesione (ad esempio due o più membri della stessa famiglia) e dell’equivalenza strutturale (due o più persone che lavorano nello stesso posto).

strutturali; dove invece manca la ridondanza si creano contatti additivi e non so- vrapponentesi. I buchi strutturali sono quindi situazioni che producono vantaggi competitivi per chiunque costruisca un ponte per superarli e sono fattori di po- tenziale produzione di capitale sociale bridging, perché tali legami tendono a non coprire il buco stesso (il che porterebbe a superare il buco stesso e riprodurre ca- pitale sociale bonding). Secondo Burt, persone con reti di relazioni ricche di buchi strutturali hanno alti tassi di ritorno degli investimenti. In questa prospettiva, l’Au- tore ridefinisce anche il concetto di competizione economica, che descrive come un processo nel quale risultano fondamentali le relazioni; la competizione, secon- do questo approccio, si configura come una questione di libertà e non di potere.